martedì 25 marzo 2025

L'Annunciazione nella liturgia bizantina

ANNUNCIAZIONE — DELLA SANTISSIMA“THEOTOKOS” E SEMPRE VERGINE MARIA -  25 marzo 

(tratto da: Nicolas Egender "I riflessi della Pasqua")


È sorprendente che il racconto evangelico dell’annunciazione a Maria (cf. Lc 1,26-36), l’incarnazione del Verbo di Dio, sia diventato oggetto di una festa bizantina soltanto in epoca tarda, nel VI secolo. La festa del 25 marzo ha infatti avuto origine a Costantinopoli e non a Gerusalemme, come è stato per l’Hypapanté. L’annunciazione è commemorata nelle celebrazioni della Natività di Cristo il 26 dicembre, secondo la consuetudine bizantina di onorare il giorno dopo la festa la persona che vi ha giocato il ruolo principale. Ma una festa propria nasce a Bisanzio, nella misura in cui la data del 25 dicembre diventa la festa del Natale, mentre l’Epifania, il 6 gennaio, è ormai quella del Battesimo di Cristo. 

Giustino I (518-527) e Giustiniano (527-565) imposero a tutto l'impero la fede di Calcedonia e nel 562 Giustiniano inviò una lettera alla chiesa di Gerusalemme sulle feste dell’Annunciazione e del Natale: le ingiunse così di celebrare il Natale il 25 dicembre, l’Hypapanté (Presentazione al Tempio) il 2 febbraio, l'Annunciazione il 25 marzo, la Concezione di Giovanni Battista il 23 settembre e la sua Natività il 24 giugno. Ci volle però un decreto di Giustino Il (565-578) perché i gerosolimitani rispettassero e applicassero realmente queste prescrizioni, cosa che avvenne poco dopo il 567. 

É in questo contesto che bisogna citare una delle prime omelie conosciute sulla festa dell’Annunciazione, pronunciata tra il 532 e il 553 dal vescovo Abramo di Efeso, il quale visse a Gerusalemme e costruì il monastero “dei bizantini” sul Monte degli ulivi, e un altro a Costantinopoli, quello “degli abramiti”. L’omelia, rivolta agli abitanti di Gerusalemme, testimonia la recente introduzione della festa dell’Annunciazione il 25 marzo, e inizia così:

I santi padri ispirati da Dio Atanasio e Basilio, Gregorio e Giovanni, Cirillo e Proclo e quelli concordi nel loro stesso sentire hanno profuso un grande zelo nel trasmettere con i loro scritti l’inesauribile filantropia e la sovrabbondante condiscendenza del Verbo di Dio, che egli ha manifestato rivestendosi della nostra carne.
Abramo precisa: essi non pronunciarono le loro omelie il 25 marzo, ma il giorno della Natività del Signore, un 25 dicembre. I gerosolimitani sono i soli a non celebrare in questa data: il 25 dicembre essi celebravano Davide e Giacomo “fratello del Signore”, primo vescovo di Gerusalemme. Ora, il 25 marzo, nell’antico calendario di Gerusalemme, era per l'appunto dedicato alla memoria dei padri, i quali affermano l’intima connessione tra la concezione e la natività di Cristo. Richard A. Fletcher ritiene che il vescovo Abramo abbia conosciuto questa celebrazione, “utilizzando l’autorità dei padri per giustificare la nuova festa”.

Dietro l’insistenza di Giustiniano nel celebrare il Natale il 25 dicembre e di conseguenza l'Annunciazione il 25 marzo, vi è una ragione dottrinale. Giustiniano usa la liturgia, luogo per eccellenza della confessione della fede, per imporre la fede calcedonese, ma non mancano neanche i motivi politici. Il concilio Quinisesto in Trullo del 692 confermò ufficialmente la festa dell’Annunciazione il 25 marzo.

Dove si celebrava a Gerusalemme l’Annunciazione? Il calendario georgiano-palestinese dice al 25 marzo: “In Probatica, Annunciazione della beata Vergine da parte dell’angelo Gabriele”. L’imperatrice Eudocia (f 460) aveva fatto costruire una chiesa presso la piscina Probatica, in ricordo del miracolo della guarigione del paralitico (cf. Gv 5,2-9); questo luogo era considerato vicino alla casa di Gioacchino e Anna, genitori della vergine Maria. La chiesa fu distrutta dai persiani nel 614, ricostruita, e poi distrutta di nuovo da al-Hakim nel 1009. I crociati la ricostruirono nel 1140, ma venne trasformata in scuola coranica e poi cadde in rovina. Fu solo nel 1856 che fu ricostruita, ed è l’attuale chiesa di Sant'Anna, che, come chiesa della Natività della Vergine, ha la festa l’8 settembre. Esiste oggi una chiesa ortodossa dell’Annunciazione a Gerusalemme? La festa si celebra a Nazaret. 
 

La chiesa di S.Anna e la piscina di Betsheda a Gerusalemme

A Costantinopoli, la festa cominciava presso la grande chiesa di Santa Sofia. Dopo l’órthros e terza-sesta, verso mezzogiorno, si formava una processione al canto del tropario della festa in direzione del foro, dove il diacono cantava la grande ekténia; quindi la processione scendeva verso Chalkoprateia, dove si celebrava la liturgia. La festa non viene mai spostata, né il venerdì Santo né il giorno di Pasqua, per la grande gioia dei rubricisti la disperazione dei maestri di coro.

In occidente la festa fu introdotta a Roma dal papa di origine siriaca Sergio I (687-701) con il nome di Annuntiatio Domini, come una festa del Signore. Il Liber pontificalis (VI-IX secolo) nota che il papa Sergio
stabilì che nei giorni dell’Annunciazione del Signore, della Dormizione e della Natività della santa Madre di Dio e sempre vergine Maria, nonché a San Simeone che i greci chiamano Hypapanté, abbia luogo una litania (processione) dalla chiesa di Adriano a Santa Maria con il concorso del popolo.
Fra gli autori nominati nei testi della festa, accanto ai numerosi anonimi, pochi appartengono al primo periodo dell’innografia gerosolimitana: Giovanni Damasceno, Cosma di Maiuma, Andrea di Creta. La maggior parte proviene da Costantinopoli: a Teofane Graptos, grande testimone della fede, per quanto di origine sabaita, che visse nell’atmosfera di Bisanzio e morì metropolita di Nicea dopo il “trionfo dell’ortodossia” (843), appartengono le odi, dalla prima alla settima, del canone della festa in acrostici alfabetici (l’ottava e la nona sono di Giovanni Damasceno); mentre Giorgio di Nicomedia è l’autore del canone del 24 marzo, e a Giuseppe l’Innografo appartiene il canone del 26 marzo; Sinassi dell’arcangelo Gabriele. Un posto speciale occupa poi il kontákion con il suo primo íkos, che è l’inizio del famoso Acatisto della Vergine. Ecco i versetti salmici più utilizzati tra i tropari, che li interpretano secondo la lettura cristiana della Bibbia:

Cantate al Signore un cantico nuovo, 
cantate al Signore, [uomini di] tutta la terra,
annunciate di giorno in giorno la sua salvezza
(Sal 95,1.2b). 

O Dio, da’ al re il tuo giudizio 
e la tua giustizia al figlio del re.
I monti ricevano la pace 
e le colline la giustizia. 
Egli scenderà come pioggia sul vello 
e come gocce stillanti sulla terra. Benedetto il Signore, Dio di Israele, 
che solo ha compiuto meraviglie. Benedetto il nome della sua gloria 
nei secoli dei secoli 
(Sal 71,1.3.6.18-19). 

Il Signore ha giurato la verità a Davide 
e non se ne pentirà.
Poiché il Signore ha eletto Sion 
e l’ha scelta come sua dimora 
(Sal 131,11a.13). 

Piegò i cieli e discese, una nube oscura sotto i suoi piedi 
(Sal 17,10).

Le letture della veglia sono le stesse delle feste della Natività e dell'Assunzione della Vergine: quella della scala contemplata da Giacobbe che sale fino al cielo aperto (cf. Gen 28,10-12), quella della “porta chiusa, [che] non si aprirà e nessuno entrerà per quella porta, perché il Signore, Dio di Israele, entrerà di là, e resterà chiusa” (cf. Ez 43,27-44,4), immagine questa che sarà applicata alla Porta d’oro e illustrerà il mistero della maternità e della verginità di Maria; la terza lettura (cf. Pr 8,22-30) accosta invece Maria alla Sapienza di Dio, tema che assumerà importanza nella mariologia ortodossa. Si può inoltre aggiungere Esodo 3,1-8 (il “roveto ardente”). Il vangelo del mattutino è quello della visitazione (cf. Lc 1,39-49.56). Alla liturgia eucaristica invece si leggono Ebrei 2,11-18 (Cristo in tutto simile ai suoi fratelli) e Luca 1,26-38 (il racconto dell’annunciazione). Ecco il tropario della festa, che veniva cantato incessantemente durante la processione a Costantinopoli:

Oggi è il principio della nostra salvezza 
e la manifestazione del mistero nascosto da secoli: 
il Figlio di Dio diviene Figlio della Vergine,
e Gabriele reca la buona notizia della grazia.
Con lui dunque acclamiamo alla Madre di Dio: 
Gioisci, Piena di grazia, 
il Signore è con te. 
 
Mosaici - Santa Sofia - Istanbul

Il mistero eterno rivelato

L’incarnazione del Verbo svela il grande mistero nascosto da tutta l’eternità. L'evento di Nazaret e il “sì” di Maria ne sono il segno. Ineffabile, esso supera ogni umana comprensione, e il credente si imbeve del mistero e non cessa di meravigliarsene e di glorificare il Dio onnipotente e misericordioso.

All'arcangelo Gabriele è oggi affidato 
un mistero nascosto e sconosciuto agli angeli:
verrà ora a te, unica colomba bella e pura 
che riplasmi la nostra stirpe,
e ti griderà, o Tutta santa: Gioisci (chaîre)! Preparati ad accogliere in grembo 
il Dio Verbo attraverso la parola.
Strana è la tua parola come anche il tuo aspetto,
strane le tue parole e i tuoi messaggi,
- disse Maria all'angelo -, non mi ingannare, 
sono una ragazza senza esperienza di nozze. 
Tu dici che concepirò il Senza limiti 
ma come potrà il mio ventre contenere 
colui che la grandezza dei cieli non può contenere? 
Ti serva di insegnamento, o Vergine, 
la tenda di Abramo che un tempo ha contenuto Dio, 
prefigurando il tuo ventre che ha accolto Dio.
Oggi è il lieto annuncio di gioia, la festa della Vergine! 
Le realtà della terra si congiungono a quelle del cielo; 
Adamo è rinnovato, Eva è liberata dalla tristezza di prima: 
e la dimora della nostra stessa sostanza,
deificata da ciò che ha concepito, 
è divenuta tempio di Dio. 
O mistero! Ignoto è il modo del divino annientamento, 
ineffabile il modo del concepimento. 
Un angelo è ministro del prodigio: 
un grembo verginale accoglie il Figlio, 
lo Spirito santo viene inviato, 
il Padre dall’alto esprime il suo beneplacito e si opera questo incontro secondo il loro comune volere. 
In esso e per esso salvati, 
a una sola voce con Gabriele, 
acclamiamo alla Vergine:
Gioisci, o Piena di grazia! 
Da te ci viene la salvezza, Cristo Dio nostro 
che, assunta la nostra natura, 
l’ha innalzata fino a sé. 
Supplicalo per la salvezza delle nostre anime.
Il mistero che è dall’eternità è oggi rivelato, 
e il Figlio di Dio diviene Figlio dell’uomo, 
affinché, assumendo ciò che è inferiore, 
possa comunicarmi ciò che è superiore. 
Fu ingannato Adamo un tempo, 
e avendo bramato di divenire Dio, non lo divenne: 
ma Dio diviene uomo per rendere Adamo Dio. 
Si rallegri la creazione, danzi la natura, 
perché l’arcangelo si presenta con timore alla Vergine, 
e le reca il chaîre che toglie ogni tristezza. 
O tu che per la tua misericordia ti sei fatto uomo, o Dio nostro, gloria a te! 
 

Si rallegrino i cieli ed esulti la terra, 
perché il Figlio coeterno con il Padre, 
senza principio come lui e con lui regnante, 
mosso da pietà e misericordia per amore degli uomini, 
si è abbassato fino ad annientarsi secondo il beneplacito e il volere del Padre, 
e ha preso dimora in un grembo verginale, 
prima purificato dallo Spirito. 
O meraviglia! Dio tra gli uomini, 
colui che nulla può contenere, in un grembo, 
colui che non ha tempo, nel tempo, 
e, paradosso, il concepimento è senza seme 
e ineffabile l’annientamento! 
Che grande mistero! Dio si annienta, 
prende carne e si forma [un corpo],
mentre l’angelo annuncia alla Pura il concepimento, 
dicendo: Gioisci, Piena di grazia, il Signore è con te, 
lui che possiede la grande misericordia.
(da: Edizione greca dei Menei  IV)

Conclusione 

Annunciazione, festa del Signore, festa della vergine Maria, inseparabile dalla festa dell’incarnazione. La sua celebrazione è una meditazione sull’insondabile mistero della buona notizia del “rinnovamento del genere umano”, della venuta di colui che “nella sua tenerezza si è fatto carne”, di colui che “la grandezza dei cieli non può contenere”. E l'annuncio della gioia, del “gioisci” ininterrotto alla Vergine e, attraverso di lei, a tutta la chiesa.

Quale gioia, quale diletto possono superare
l'annuncio fatto alla beata Vergine e alla Madre della gioia?
Gioisci, o genitrice della gioia celeste! 
Gioisci, o nutrice della gioia più alta! 
Gioisci, o sorgente della gioia salvifica! 
Gioisci, o autrice della gioia immortale! 
Gioisci, o mistica dimora della gioia ineffabile! 
Gioisci, o campo mirabile della gioia indicibile! 
Gioisci, o fonte beatissima della gioia imperitura! 
Gioisci, o tesoro di gioia eterna che porti Dio! 
Gioisci, o albero rigoglioso della gioia vivificante! 
Gioisci, o Madre di Dio non sposata! 
Gioisci, o Vergine inviolata dopo il parto! 
Gioisci, o visione meravigliosa tra le meraviglie! 
Chi potrà mai esprimere il tuo splendore? 
Chi mai potrà narrare la tua straordinaria bellezza? 
Chi avrà il coraggio di proclamare la tua grandezza? 
Tu hai ornato l’umana natura. 
Tu hai vinto le schiere degli angeli. 
Tu hai oscurato lo splendore degli arcangeli. 
Tu hai dimostrato che la dignità dei troni 
è inferiore alla tua. 
Tu hai abbassato l’altezza delle dominazioni. 
Tu hai precorso la guida dei principati. 
Tu hai fiaccato la forza delle potestà. 
Tu hai sopravanzato le virtù con la tua potente virtù. 
Tu hai vinto con i tuoi occhi terrestri la vista dei cherubini dai molti occhi. 
Tu hai superato le schiere dei serafini dalle sei ali 
con le ali divinamente mosse dell’anima, 
stai al di sopra di tutta la creazione, 
perché per purezza risplendi più di tutta la creazione, 
perché hai ricevuto il Creatore della creazione 
e l'hai portato nel tuo seno, 
perché l’hai generato e, unica fra tutte le creature, sei diventata Madre di Dio.

(Sofronio di Gerusalemme, Omelie 2,18 "Per l'Annunciazione alla Santissima Madre di Dio")

martedì 14 gennaio 2025

Perché Dio non si accontenta di un semplice "grazie" (Hans Urs von Balthasar)

Secondo l'insegnamento di Cristo lo stato di persecuzione è lo stato normale per la chiesa nel mondo, e il martirio del cristiano è la sua situazione normale. Non nel senso che la chiesa debba essere continuamente e dovunque perseguitata; ma se lo è per qualche tempo ed in determinate regioni, essa dovrebbe subito ricordare che è partecipe di una grazia che le è stata promessa: «Vi ho detto queste cose affinché, quando verrà la loro ora, ve ne ricordiate, perché io ve l’ho detto» (Gv 16,4). Tali parole non possono essere superate da nessuna evoluzione del mondo. E non nel senso che ogni singolo cristiano debba subire il martirio cruento, ma nel senso che egli dovrebbe considerare il caso che si presenta come la manifestazione esterna di una realtà interna, della quale egli pure vive. 
 
Il martirio è l’orizzonte della vita cristiana in un senso diverso da come lo era nella fede giudaica. In questa, infatti, era un’estrema possibilità umana, per il singolo fedele, di attestare la propria fede in YHwH; ciò che in essa fa spicco è il valore per amore della fede: sono eroi che vengono presentati come esempi a tutto il popolo, specialmente alla gioventù (così le due donne che contro il divieto di Antioco Epifane circoncisero i loro figli, Eleazaro ed i sette fratelli: 2 Mac 6s.; Daniele ed i suoi amici: Dn 3. 6; 14,31s.). Un tale carattere eroico manca nel Nuove Testamento, perché non è l’uomo che si dirige per primo verso il punto estremo, ma proviene di là dove è già stato definitivamente Gesù Cristo. Questi ha realizzato i canti del servo di YHwH, che per lui erano una promessa. Non c’è dunque una continuazione della situazione veterotestamentaria, ma solo un ingresso nella condizione di Cristo. Mentre il martirio veterotestamentario chiarisce quanto avrebbe dovuto essere forte la fede di ogni giudeo, il martirio neotestamentario manifesta la sua attualità sempre reale, fondata sulla croce di Cristo e comunicata per grazia ai suoi discepoli. 
 

Così insegna Paolo, da prima senza fornire alcuna spiegazione: «Uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti». Soltanto la proposizione seguente contiene la spiegazione: «Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che e morto e risorto per loro» (2 Cor 5,14s.). La morte di Cristo per noi è presentata come un “a priori” del comportamento cristiano, che pertanto ne è totalmente caratterizzato. Nella lettera ai Romani, questo a priori oggettivo si estende dall’azione di Cristo al battesimo cristiano, che oggettivamente pone la forma della morte e sepoltura con Cristo come anteriore ad ogni fede soggettiva, e poi subito presenta ed esige il comportamento esistenziale del cristiano come determinato e caratterizzato dallo stesso a priori (Rm 6,3-11). Le parole misteriose di Paolo nella lettera ai Galati: «Mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo», stanno sullo stesso piano dell’a priori, di ciò che è presupposto e forma oggettiva della fede da attuare successivamente: uno solo, morendo per tutti, ha preso con sé sulla sua croce tutti (e anche me), e quindi tutti (e anch'io) sono morti alla legge e a tutto il mondo in cui vige la legge. E se ora continua: «E non vivo più io, ma Cristo vive in me», questo enunciato sta nel mezzo tra il presupposto oggettivo e l’atto soggettivo di fede, nel punto in cui il cristiano dice di sì al fatto che uno solo è stato crocifisso per lui. Un tale sì altro non è che la fede: «E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,19s.).

Nella giovanile freschezza della fonte zampillante possiamo comprendere ciò che significa fede e vita di fede. Significa ringraziare con tutta la vita di essere debitori di tutta la propria esistenza al Gesù storico. Poiché gli sono debitore della mia esistenza, avendo dato la sua esistenza per la mia, il ringraziamento non può essere espresso altrimenti che con tutta l’esistenza. Qui sta la logica del cristianesimo: che non si può dir grazie in modo adeguato se non con tutta la propria esistenza.

Perché mai? Non si potrebbe pensare di ricevere da Dio una grazia (per la quale Dio ha offerto la vita del suo eterno Figlio, ma che in fondo non era stata da noi personalmente impetrata) e di ringraziarlo senza doversi impegnare a propria volta così seriamente? In verità, Dio potrebbe accontentarsi di un sincero sentimento di gratitudine da parte dei credenti, i quali, dopo aver gradito il dono ricevuto, sono pronti a ricordare continuamente con gioia il beneficio che a loro è stato accordato. E tanto più potrebbe accontentarsi dal momento che, essendo l’atto di Dio ormai compiuto, il gravissimo impegno della vita umana non gli può aggiungere nulla di decisivo e di originariamente efficace. Come potrebbe mancare qualcosa alle sofferenze di Cristo? Non potrebbe essere un’espressione traslata quella di Paolo, quando pensa di poter supplire con la propria sofferenza a una supposta mancanza (Col 1,24)?

Dio non si accontenta di un grazie cordiale. Vuole riconoscere nei cristiani il Figlio. Per quanto nei loro sentimenti rimangano al di sotto di Cristo, essi tuttavia devono, per principio, consentire a quell’amore, mediante il quale sono redenti. Ma consentire significa trovare che la cosa è giusta, anzi l’unica giusta; ma che è pure la rivelazione più alta dell’amore divino, e quindi — poiché Dio è la verità — che è la norma di ogni verità. Perciò (e i cristiani lo comprendono) anche per loro nessun’altra norma di verità può aver valore. Nel ringraziamento non possono accontentare Dio con un amore e una verità diversi da quelli che ha loro assegnato. Se si guarda più a fondo, non sono neppure in grado di riflettere con quale moneta esistenziale intendono ripagare Dio. Poiché se «uno (ma quale uno!) è morto per tutti, dunque tutti sono morti» (2 Cor 5,14),

Dio ha disposto in anticipo della morte di tutti, nella supposizione che la suprema manifestazione della carità e verità divine, la morte di Gesù Cristo, forse meriti di essere considerata anche dagli uomini come la loro migliore possibilità, anzi la loro suprema manifestazione per Dio, e quindi come ciò che deve essere scelto con assoluta libertà. Il credente altro non sarebbe se non colui che ha compreso una tale possibilità, e la sceglie. Non sarebbe, cioè, un uomo che misura con due metri diversi: uno per Dio e Cristo ed uno per sé.

La verità, che costituisce la misura della fede, è la morte di Dio per amore del mondo — per l’umanità e per ciascun membro di essa — nella notte di croce di Gesù Cristo. Tutte le fonti della grazia sgorgano da quella notte: fede, carità e speranza. Tutto ciò che io sono, in quanto sono qualcosa di più che un essere caduco e senza speranza, le cui illusioni sono tutte distrutte dalla morte, lo sono a causa di quella morte che mi apre l’accesso al Dio che appaga. Io fiorisco sul sepolcro del Dio che è morto per me, affondo le mie radici nel terreno della sua carne e del suo sangue. Perciò, l’amore che ne traggo nella fede, non può essere di natura diversa da quello del sepolto.

La fede cristiana è, con ogni possibile urgenza, l’anticipazione dell’offerta della mia vita a Cristo. Come il Dio Trinità, mistero d’amore, giustificabile soltanto nell'amore (poiché non aveva bisogno di noi), si è quasì proiettato fuori di sé, in modo che dalla vita eterna è caduto nel mondo ed è morto abbandonato da Dio, così la fede può essere soltanto una proiezione che l’uomo, rispondendo con la grazia, fa di se stesso in Dio, dimostrandosi riconoscente a Dio con il dimostrare che ha compreso.

Fermandosi alla superficie, si potrebbe vedere in queste considerazioni una ripresa del pensiero filosofico secondo cui l’uomo, faccia a faccia con la morte all’interno del proprio orizzonte fa filosofia, perché nella cosciente anticipazione della morte, egli è spirito che trascende il mondo. Nella concezione cristiana |a situazione è completamente diversa: la morte di Cristo è per noi lo spuntare della gloria divina dell'amore, e concepire se stessi, in base a questa morte, come esistenza di fede, significa dare di sé un’interpretazione che si fonda non sopra un fenomeno terminale e marginale, ma nel centro assoluto della realtà. Ciò esige che l’uomo possa coincidere con questo centro soltanto toccandolo con il suo termine, la propria morte, cercando di comprendere la serietà dell'amore di Dio mediante il proprio caso serio.

L'anticipazione della propria morte come risposta alla morte di Cristo è il modo per assicurarci seriamente della nostra fede. Se fede significa riconoscere alla verità di Dio il primato su ogni nostra verità (con la nostra conoscenza, i nostri dubbi, la nostra ignoranza, le nostre incertezze e riserve), l’inizio dell’esistenza al di là del possesso di ogni verità umana e problematica è la prova, a noi possibile, che diamo la prevalenza alla verità di Dio sulla nostra. Che questo già sia amore, non c’è bisogno di dimostrarlo. Le parole di Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13) sono fondamentalmente parole di umanità universale, comprensibili a tutti; diventano supreme ed un mistero sia perché egli le rivendica per sé, Figlio di Dio, sia perché permette a noi, suoi fedeli e seguaci, di farne la chiave della nostra concezione cristiana. Esistenza di fede significa dunque esistenza nella morte per amore. Non una qualsiasi dedizione, temperata dal giudizio del momento e manipolata dall’uomo, ma un'anticipazione dell’offerta della vita in ogni singola situazione di un’esistenza cristiana. «In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1 Gv 3,16): in questo assioma del discepolo prediletto “l’amore” è l’amore assoluto, quale è apparso in Cristo nel mistero, ma assumendo in sé e superando tutti i drammi ed i racconti di morti per amore che si trovano nella letteratura mondiale, così che noi, credendo il mistero, nello stesso tempo lo possiamo comprendere, e dalla fede che comprende possiamo trarre per noi la conclusione. L'offerta della vita per i fratelli non è un’offerta dosata, umanistica; essa ritorna sempre dall’orizzonte della morte (di Cristo, perciò anche del fedele) alla situazione concreta di vita. Comprendendo con la fede che Gesù ha subito la morte per me, acquisto mediante la fede (non altrimenti!) il diritto di concepire la mia vita come una risposta ad essa. Se è diritto, ha per suo rovescio il dovere di prendere sul serio il caso serio, in base al quale do un’interpretazione di me stesso.

Tratto da "Cordula ovverosia il caso serio"
2 - Il caso serio in quanto forma
di Hans Urs von Balthasar