sabato 30 settembre 2023

San Michele arcangelo, nostro protettore nei "tempi di satana"

Don Leonardo Maria Pompei
Omelie feriali
29 settembre 2023

Il principe delle celesti schiere nostro alleato contro satana e i suoi satelliti

Dalla Sacra Scrittura sappiamo che gli angeli assistenti che stanno sempre davanti al trono di Dio, ammessi sempre alla sua presenza, sono sette e non tre; i nomi degli altri quattro derivano dalla Tradizione. 

La Chiesa ha deciso di nominare solo Michele, Gabriele e Raffaele; scelta dovuta anche ad evitare dinamiche che ancor oggi possiamo constatare per esempio nella New Age: i diavoli infatti sono angeli decaduti e vengono invece considerati come angeli, spiriti guida eccetera.
Sappiamo dalla Tradizione che l'angelo più  potente era quello che si ribellò, Lucifero; e San Michele è stato quello che per primo ha avuto il coraggio di opporsi al "non serviam" di Lucifero, motivo per cui c'è stata la divisione, nelle schiere angeliche, fra gli angeli decaduti e quelli invece fedeli all' Altissimo che sono stati confermati in grazia e di cui Michele è il nuovo principe al posto di Lucifero.
Sopra a San Michele c'è soltanto Maria Santissima, tant'è vero che nelle litanie viene nominata prima santa Maria Madre di Dio, poi san Michele arcangelo, poi san Giuseppe e poi gli altri santi.

Il combattimento celeste fra Michele e Lucifero si ripropone sulla terra, perché San Michele è  colui che scende in aiuto del popolo di Dio nei momenti in cui gli attacchi e la pressione satanica si fanno sentire particolarmente; per questo viene invocato, o dovrebbe essere invocato, costantemente, perché purtroppo i diavoli in ferie non ci vanno!

Padre Pio, che abbiamo festeggiato da poco, diceva che i diavoli, se potessero apparire, oscurerebbero l'aria; e i demoni durante gli esorcismi, hanno detto che,  se Dio glielo permettesse, non si farebbe in tempo a contare fino a dieci che il pianeta Terra cesserebbe di esistere.
I diavoli, che pur fanno tanti guai, sono enormemente trattenuti; se potessero dare sfogo a tutta la loro rabbia e alla loro cattiveria non ci sarebbe scampo per nessuno.

Solo dobbiamo stare attenti soprattutto all'attività  ordinaria dei diavoli, che è  quella più  tremenda perché si fonda sulla tentazione e l'inganno, e sia l'una che l'altro sono difficili da scoprire, se non ci assistono la Madonna con la preghiera e San Michele con la sua potenza.  Abbiamo bisogno dell'una e dell'altro e del castissimo sposo di Maria san Giuseppe.
Questi sono i nostri grandi alleati celesti che, dopo il nostro Salvatore Gesù  Cristo e la Trinità, ci aiutano nel combattimento spirituale, che tutti dobbiamo affrontare.
Ci è  capitato di vivere in tempi che, non certo io, ma ambienti molto più  importanti di me, hanno definito "i tempi di satana"; e quando ci sono i tempi di satana, le difese vanno aumentate e il vincitore di satana deve essere chiaramente invocato.

Padre Pio è stato un altro grande guerriero: poco prima di morire disse, ed è  stato veramente  così, perché  la storia lo dimostra: "fino a quando ci sto io, col diavolo me la vedo io, ma dopo che io sarò  morto, col diavolo ve la vedrete voi". Padre Pio muore il 23 settembre del 1968; nell'ottobre del '68 rivoluzione studentesca e rivoluzione sessuale, e poi negli anni '70 il divorzio, poi l'aborto... 

Quelle parole di padre Pio furono profetiche; è  stato un baluardo, è stato un combattente; perché se qualcuno non ci mette un argine, i diavoli ci fanno in mille pezzi. Dobbiamo stare tutti molto attenti.
Viva San Michele, che combatta con noi e per noi, e ci aiuti nel nostro combattimento  contro gli spiriti del male.


 
Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
San Michele Arcangelo, difendici nella lotta;
sii nostro aiuto contro la cattiveria e le insidie del demonio.
Che Dio eserciti il suo dominio su di lui,
supplichevoli ti preghiamo:
tu, che sei il Principe della milizia celeste,
con la forza divina rinchiudi nell'inferno Satana
e gli altri spiriti maligni
che girano il mondo
per portare le anime alla dannazione.
Amen.

 

venerdì 29 settembre 2023

Da: "L'imitazione di Cristo"

COME OTTENERE LA VERA PACE

Ogni qual volta si desidera una cosa contro il volere di Dio, subito si diventa interiormente inquieti. Il superbo e l'avaro non hanno mai requie; invece il povero e l'umile di cuore godono della pienezza della pace. 

Colui che non è perfettamente morto a se stesso cade facilmente in tentazione ed è vinto in cose da nulla e disprezzabili. 

Colui che è debole nello spirito ed è, in qualche modo, ancora volto alla carne e ai sensi, difficilmente si può distogliere del tutto dalle brame terrene; e, quando pur riesce a sottrarsi a queste brame, ne riceve tristezza. 

Che se poi qualcuno gli pone ostacolo, facilmente si sdegna; se, infine, raggiunge quel che bramava, immediatamente sente in coscienza il peso della colpa, perché ha assecondato la sua passione, la quale non giova alla pace che cercava. 

Giacché la vera pace del cuore la si trova resistendo alle passioni, non soggiacendo ad esse. Non già nel cuore di colui che è attaccato alla carne, non già nell'uomo volto alle cose esteriori sta la pace; ma nel cuore di colui che è pieno di fervore spirituale.


"NON APRIRE IL TUO CUORE AL PRIMO CHE CAPITA"

"Non aprire il tuo cuore al primo che capita" (Sir 8,22); i tuoi problemi, trattali invece con chi ha saggezza e timore di Dio. 

Cerca di stare raramente con persone sprovvedute e sconosciute; non metterti con i ricchi per adularli; non farti vedere volentieri con i grandi. 

Stai, invece, accanto alle persone umili e semplici, devote e di buoni costumi; e con esse tratta di cose che giovino alla tua santificazione. 

Non avere familiarità con alcuna donna, ma raccomanda a Dio tutte le donne degne. Cerca di essere tutto unito soltanto a Dio e ai suoi angeli, evitando ogni curiosità riguardo agli uomini. Mentre si deve avere amore per tutti, la familiarità non è affatto necessaria. 

Capita talvolta che una persona che non conosciamo brilli per fama eccellente; e che poi, quando essa ci sta dinanzi, ci dia noia solo al vederla. D'altra parte, talvolta speriamo di piacere a qualcuno, stando con lui, e invece cominciamo allora a non piacergli, perché egli vede in noi alcunché di riprovevole.

 

ASTIENITI DAI DISCORSI INUTILI

Per quanto possibile, stai lontano dall'agitarsi che fa la gente. Infatti, anche se vi si attende con purezza di intenzione, l'occuparsi delle faccende del mondo è un grosso impaccio, perché ben presto si viene inquinati dalle vanità, e fatti schiavi. 

Più di una volta vorrei essere stato zitto, e non essere andato in mezzo alla gente. 

Ma perché andiamo parlando e chiacchierando così volentieri con altri, anche se poi è raro che, quando torniamo a star zitti, non abbiamo qualche guasto alla coscienza? 

Parliamo così volentieri perché, con queste chiacchiere, cerchiamo di consolarci a vicenda, e speriamo di sollevare il nostro animo oppresso dai vari pensieri. Inoltre molto ci diletta discorrere e fantasticare delle cose che amiamo assai e che desideriamo, o di ciò che sembra contrastarci. Ma spesso purtroppo tutto questo è vano e inutile; giacché una simile consolazione esteriore va molto a scapito di quella interiore e divina. 

Non dobbiamo passare il nostro tempo in ozio, ma in vigilie e in orazioni; e, se possiamo o dobbiamo parlare, dire cose edificanti. Infatti, mentre il malvezzo e la trascuratezza del nostro progresso spirituale ci induce facilmente a tenere incustodita la nostra lingua, giova assai al nostro profitto interiore una devota conversione intorno alle cose dello spirito; tanto più quando ci si unisca, nel nome di Dio, a persone animate da pari spiritualità.

 

LA CONQUISTA DELLA PACE INTERIORE

Se non ci volessimo impicciare di quello che dicono o di quello che fanno gli altri, e di cose che non ci riguardano, potremmo avere una grande pace interiore. Come, infatti, è possibile che uno mantenga a lungo l'animo tranquillo se si intromette nelle faccende altrui, se va a cercare all'esterno i suoi motivi di interesse, se raramente e superficialmente si raccoglie in se stesso? 

Beati i semplici, giacché avranno grande pace.

Perché mai alcuni santi furono così perfetti e pieni di spirito contemplativo? Perché si sforzarono di spegnere completamente in sé ogni desiderio terreno, cosicché - liberati e staccati da se stessi - potessero stare totalmente uniti a Dio, con tutto il cuore. 

Noi, invece, siamo troppo presi dai nostri sfrenati desideri, e troppo preoccupati delle cose di quaggiù; di rado riusciamo a vincere un nostro difetto, anche uno soltanto, e non siamo ardenti nel tendere al nostro continuo miglioramento. E così restiamo inerti e tiepidi. Se fossimo, invece, totalmente morti a noi stessi e avessimo una perfetta semplicità interiore, potremmo perfino avere conoscenza delle cose di Dio, e fare esperienza, in qualche misura, della contemplazione celeste. 

Il vero e più grande ostacolo consiste in ciò, che non siamo liberi dalle passioni e dalle brame, e che non ci sforziamo di entrare nella via della perfezione, che fu la via dei santi: anzi, appena incontriamo una difficoltà, anche di poco conto, ci lasciamo troppo presto abbattere e ci volgiamo a consolazioni terrene. 

Se facessimo di tutto, da uomini forti, per non abbandonare la battaglia, tosto vedremmo venire a noi dal cielo l'aiuto del Signore. Il quale prontamente sostiene coloro che combattono fiduciosi nella sua grazia; anzi, ci procura occasioni di lotta proprio perché ne usciamo vittoriosi. Che se facciamo consistere il progresso spirituale soltanto in certe pratiche esteriori, tosto la nostra religione sarà morta. Via, mettiamo la scure alla radice, cosicché, liberati dalle passioni, raggiungiamo la pace dello spirito. 

Se ci strappassimo via un solo vizio all'anno diventeremmo presto perfetti. Invece spesso ci accorgiamo del contrario; troviamo cioè che quando abbiamo indirizzata la nostra vita a Dio eravamo più buoni e più puri di ora, dopo molti anni di vita religiosa. Il fervore e l'avanzamento spirituale dovrebbe crescere di giorno in giorno; invece già sembra gran cosa se uno riesce a tener viva una particella del fervore iniziale. 

Se facessimo un poco di violenza a noi stessi sul principio, potremmo poi fare ogni cosa facilmente e gioiosamente. Certo è difficile lasciare ciò a cui si è abituati; ancor più difficile è camminare in senso contrario al proprio desiderio. Ma se non riesci a vincere nelle cose piccole e da poco, come supererai quelle più gravi? Resisti fin dall'inizio alla tua inclinazione; distaccati dall'abitudine, affinché questa non ti porti, a poco a poco, in una situazione più ardua. 

Se tu comprendessi quanta pace daresti a te stesso e quanta gioia procureresti agli altri, e vivendo una vita dedita al bene, sono certo che saresti più sollecito nel tendere al tuo profitto spirituale.

 

(da "L'imitazione di Cristo" - Tommaso da Kempis)

Qui in audio lettura (youtube)

mercoledì 27 settembre 2023

Le grazie che scaturiscono dalla Messa. 5: Conversione dei peccatori



Le grazie che scaturiscono dalla Messa 
(di padre Josip Lončar)
5: La conversione dei peccatori

 


Ogni uomo ha bisogno della conversione: 

  • una prima, con cui il cuore si deciderà a favore di Dio,
  • e una seconda, duratura, in cui con la grazia di Dio l’uomo cercherà di diventare sempre migliore. 

Quando preghiamo e offriamo il sacrificio di Gesù al Padre con questa intenzione, allora possiamo essere assolutamente certi di pregare per qualcosa che è pienamente in accordo con la volontà di Dio. 

Dio non può forzare nessuno a convertirsi, ma può attrarre fortemente a sé, verso il suo amore, coloro per i quali offriamo la nostra intercessione. 

Tale "attrazione" dipende in gran parte da quanto ci sta a cuore la loro conversione, da quanto amiamo. Questo amore divampa e si trasforma in "attrazione":

  • nei momenti in cui preghiamo,
  • quando offriamo la Santa Messa,
  • quando, di nostra spontanea volontà, offriamo determinati sacrifici. 

Attraverso l’immolazione di Gesù, Dio redime coloro per i quali offriamo il sacrificio da tutto ciò che, nella mente e nel cuore, li ha allontanati da lui, e attraverso la preghiera (che avviene durante la preparazione, ma anche durante tutta la Santa Messa), e il nostro sacrificio personale (digiuno, rinuncia ai social network o a qualcos'altro che ci è caro...) effonde la sua misericordia e li attira a sé. 

Quanto più questa "effusione di grazia" è forte e duratura, tanto maggiori sono le possibilità che la persona per la quale offriamo il sacrificio di Gesù si decida a favore di Dio. A noi sta offrire la Messa per la conversione fintanto che non saremo ascoltati. 

Talvolta, infatti, i frutti sono immediatamente visibili, altre volte è necessario attendere un certo lasso temporale, o, ancora, tale prima e basilare conversione avverrà in punto di morte della persona per cui preghiamo. Dio, nella sua provvidenza, nel suo amore, sa qual è il momento migliore e il modo migliore perché ciò accada. 

Quando vediamo che questa prima, fondamentale conversione è avvenuta, dobbiamo continuare a offrire il sacrificio eucaristico e i sacrifici personali per la seconda conversione, quella duratura, secondo le mozioni dello Spirito

Ciò è particolarmente importante per i genitori in età avanzata, che nella loro vecchiaia hanno abbastanza saggezza da comprendere ciò che è più necessario ai loro figli.

 


Preghiera a Santa Monica per la conversione dei propri figli

Nel nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo,
sotto il peso del mio fardello mi rivolgo a te, cara Santa Monica, e richiedo la tua assistenza e la tua intercessione.

Dal cielo, ti supplico di pregare davanti al Trono dell’Altissimo per il bene di mio figlio [Nome], che si è allontanato dalla fede e da tutto quello che abbiamo cercato di insegnargli.

So, cara Monica, che i nostri figli non appartengono a noi ma a Dio, e che Dio spesso permette questo errare come parte del percorso che porta a Lui. Anche tuo figlio Agostino ha errato; alla fine ha trovato la fede e ha creduto, diventando un vero maestro.

Aiutami, quindi, ad avere pazienza, e a credere che tutte le cose – anche questo allontanamento dalla fede – alla fine lavoreranno per i Suoi buoni scopi.
Per il bene dell’anima di mio figlio, prego per comprendere e confidare in questo.

Santa Monica, ti prego di insegnarmi a persistere nella preghiera pia come hai fatto tu per il bene di tuo figlio.
Ispirami a comportarmi in modi che non allontanino ulteriormente mio figlio da Cristo, e attira [Nome] gentilmente verso la sua luce meravigliosa.

Ti prego di insegnarmi quello che sai su questo doloroso mistero di separazione, e su come si riconcilia nel riorientamento dei nostri figli verso il cielo.

O Santa Monica, che hai tanto amato Cristo e la sua Chiesa, prega per me e per mio figlio [Nome], perché possiamo conquistare il cielo e unirci lì a te offrendo costanti e grate lodi a Dio,
Amen.

Regole dell’esorcismo (di padre Gabriele Amorth)

Regole dell’esorcismo 
di padre Gabriele  Amorth


Quando la possessione diabolica è riconosciuta e verificata, si può procedere con l’esorcismo.

A cominciare da Gesù che ordinò esplicitamente di scacciare i demoni e ne diede l’esempio, continuando nell'epoca degli apostoli e nel secolo dopo la loro morte, per proseguire nei secoli dei primi padri della Chiesa (200-600 d.C.) e nel Medioevo esiste una tradizione ininterrotta di credenze e riti della Chiesa avente per oggetto gli esorcismi.

Nel corso del tempo tutto ciò è stato condensato all’interno del cosiddetto rito di esorcismo, il rito che ogni esorcista deve seguire quando intende esorcizzare un posseduto. Beninteso, non basta il solo esorcismo. Occorre anche che il posseduto metta la propria esistenza sotto uno stretto regime di preghiera e digiuno. E dopo, soltanto dopo aver accettato questo nuovo regime di vita, egli può sottoporsi agli esorcismi.

Comunque, prima del rito vero e proprio vi sono una serie di istruzioni, possiamo anche chiamarle regole, che è bene avere presente. È necessario che il sacerdote che esorcizza le conosca, ma è utile esse siano conosciute anche dai semplici fedeli che intendono aiutare gli stessi esorcismi con la loro preghiera. Le istruzioni sono in tutto ventuno. Eccole qui di seguito.

1. Il sacerdote che si accinge a esorcizzare con il permesso particolare ed esplicito del vescovo le persone tormentate da uno spirito maligno deve essere pio, prudente e moralmente integro. Egli deve assolvere quest’incarico quanto mai giusto con umiltà e coraggio senza basarsi sulle proprie forze bensì sulla potenza di Dio; inoltre non deve desiderare benefici materiali. Così pure dovrebbe essere in età matura e rispettato non solo per le proprie mansioni ma anche come uomo virtuoso.

2. Per essere in grado di assolvere correttamente il proprio compito, dovrebbe conoscere i molti scritti di natura pratica, compilati da autori approvati dalla Chiesa sull’argomento dell’esorcismo.

3. L'esorcista non deve credere con facilità che qualcuno sia posseduto dallo spirito maligno. Deve conoscere peraltro molto bene i segni che gli consentano di distinguere la persona posseduta da chi soffra di una malattia fisica. I segni indicanti la possessione da parte dello spirito maligno sono: quando il soggetto parla lingue a lui sconosciute con molte parole o comprende lingue a lui sconosciute, quando dimostra palesemente di conoscere cose distanti o celate, quando rivela una forza fisica molto maggiore di quella compatibile con la sua età o con le sue condizioni fisiche normali. Queste manifestazioni costituiscono insieme ad altre della stessa specie un importante indizio.

4. Per acquisire una certezza ancora maggiore, l'esorcista dovrebbe interrogare il soggetto dopo una o due intimazioni pronunciate nel corso dell’esorcismo e chiedergli come si sente spiritualmente e fisicamente. In questa maniera riuscirà anche a scoprire quali parole disturbano più delle altre lo spirito maligno; così potrà ripetere queste parole e produrre effetti maggiori sullo spirito possessore.

5. L’esorcista deve accorgersi dei trucchi e degli inganni di cui si servono gli spiriti maligni per metterlo sulla strada sbagliata. Questi, infatti, hanno l’abitudine di mentire nelle risposte e di manifestarsi difficilmente, affinché l’esorcista si stanchi e cessi di incalzarli. Oppure creano anche l'impressione che la persona esorcizzata non sia affatto posseduta.

6. Talvolta, lo spirito maligno rivela inavvertitamente la propria presenza per nascondersi poi di nuovo, dando l'impressione di non molestare più fisicamente l’esorcizzato per cui questi pensa di essere liberato completamente. Ma l’esorcista non deve lasciarsi ingannare da questi fenomeni né desistere dall'intervento finché non scorgerà i segni dell'avvenuta liberazione.

7. Qualche volta, inoltre, lo spirito maligno frappone qualsiasi ostacolo possibile per impedire al posseduto di sottoporsi all’esorcismo. Oppure tenta di persuaderlo che il suo malessere ha origini perfettamente naturali. Qualche volta induce il posseduto ad addormentarsi durante l’esorcismo e gli provoca delle visioni tenendosi nascosto per dare l’impressione che il posseduto si sia liberato di lui.

8. Certi spiriti maligni rivelano l’esistenza di occulti incantesimi, il nome di chi li ha lanciati e la maniera in cui possono essere spezzati, ma l’esorcista deve guardarsi bene dal ricorrere in faccende simili all’opera di streghe, maghi o altre persone che non siano ministri della Chiesa. Così pure l’esorcista non dovrà mai ricorrere a pratiche dettate dalla superstizione né ad altri metodi illeciti.

9. Talvolta, lo spirito maligno lascia in pace il posseduto e gli permette persino di ricevere la santa comunione, sempre per dare l’impressione di essersene andato. Insomma, gli stratagemmi e gli inganni di cui si serve lo spirito maligno per ingannare gli uomini sono innumerevoli e l’esorcista non deve trascurare alcuna cautela per non cadere nell’inganno.

10. Perciò dovrà tenere presenti le parole di Nostro Signore secondo il quale esiste una specie di demoni che può essere espulsa solo con la preghiera e il digiuno (Matteo, 12, 20).

L’esorcista deve perciò impegnarsi a fondo nel tentativo di seguire l'esempio dei Santi Padri e servirsi di questi due mezzi di fondamentale importanza per ottenere l’aiuto di Dio ed espellere lo spirito maligno.

11. Il posseduto può essere esorcizzato, secondo i casi, in chiesa oppure in qualche altro luogo avente significato religioso e lontano dagli occhi del pubblico. Se il soggetto è ammalato oppure se esistono altri motivi validi, l'esorcismo può avere luogo in una casa privata.


12. A patto che sia sano di mente e di corpo, il posseduto dev'essere incoraggiato a rivolgersi a Dio con la preghiera, a digiunare e a trarre di frequente conforto spirituale dai sacramenti della confessione e della santa comunione, rimettendosi al giudizio del sacerdote, e mentre viene esorcizzato, si raccolga completamente e si rivolga a Dio e domandi a Lui la salvezza con fede salda e in tutta umiltà. E pur tormentato violentemente, tolleri con pazienza, mai dubitando dell'aiuto di Dio.

13. Il posseduto dovrebbe tenere il crocifisso in mano oppure vederlo davanti a sé. Reliquie di santi, se disponibili, possono essergli poste sul petto o sulla testa. Le reliquie devono essere opportunamente avvolte in maniera da impedire eventuali manomissioni. Comunque bisogna stare attenti che i resti sacri non vengano vilipesi o danneggiati dallo spirito maligno. La santa eucaristia non dovrebbe essere mai posata sul corpo o su qualsiasi altra parte del corpo del posseduto perché esiste il pericolo che venga trattata in modo irriverente.

14. L'esorcista deve fuggire da ogni retorica e non deve rivolgere per pura curiosità domande superflue, specialmente sugli eventi futuri e su argomenti occulti che nulla hanno a che vedere con il compito. Egli deve ordinare allo spirito immondo di tacere e di limitarsi a rispondere alle domande che gli vengono rivolte. Inoltre non deve prestare fede allo spirito maligno se questi afferma di essere l’anima di un santo o di una persona defunta o di essere un angelo custode.

 

15. Le domande da rivolgere allo spirito maligno affrontato nel corso dell’esorcismo sono, ad esempio: numero e nomi degli spiriti che si sono impadroniti della vittima, quando sono entrati nel posseduto, perché si sono impadroniti di lui e altre domande dello stesso genere. L’esorcista deve reprimere le manifestazioni di vanità, scherzo e stupidità dello spirito maligno e trattarle con disprezzo. Inoltre deve ammonire i presenti, possibilmente pochissimi, di non badare a ciò che dirà lo spirito maligno e di non rivolgere domande alla persona posseduta. Sarà bene, invece, che rivolgano umili e ferventi preghiere a Dio perché liberi il posseduto.

16. L'esorcista deve celebrare il rito con autorevole fermezza ed essere animato da una profonda fede mista a umiltà e fervore. E quando si accorge che lo spirito maligno è in preda a forti tormenti deve incalzarlo con moltiplicato vigore. Tutte le volte che dovesse notare un movimento, una ferita, una tumefazione in una parte o l’altra del corpo del posseduto, dovrà tracciare il segno della croce e spruzzare acqua benedetta che deve tenere a portata di mano.

17. Così pure dovrà fare attenzione alle parole ed espressioni che spaventano maggiormente lo spirito maligno e ripeterle spessissimo. Quando poi arriverà al punto dell'espulsione, dovrà pronunciare ripetutamente la relativa intimazione con parole sempre sferzanti. Se si accorgerà che sta per riuscire nell'intento, insisterà per due, tre, quattro ore, più a lungo che potrà, fino alla vittoria finale.

18. L'esorcista, infine, deve guardarsi bene dall’offrire medicine di qualsiasi genere al posseduto o di suggerirgliene, lasciando questo compito al medico.

19. Se deve esorcizzare una persona di sesso femminile, dovrà farsi assistere da donne di costumi notoriamente irreprensibili che provvederanno a tenere ferma la posseduta quando sarà tormentata e maltrattata dallo spirito maligno. Queste donne devono dare prova di grande pazienza e appartenere nei limiti del possibile alla famiglia della posseduta. L’esorcista deve evitare ogni motivo di scandalo nonché qualsiasi gesto o parola capaci di recare pregiudizio a lui stesso e agli altri.

20. Durante l’esorcismo, l’esorcista dovrebbe usare preferibilmente le parole della Bibbia anziché servirsi di espressioni proprie o di altre persone. Così pure deve imporre allo spirito maligno di rivelare se la sua permanenza nel corpo del posseduto è dovuta a qualche incantesimo magico, simbolo stregonesco o documento occulto. In caso affermativo il posseduto deve cederlo perché l’esorcismo riesca. Se ha inghiottito qualche cosa del genere, la vomiterà. Se quella tale cosa non si trova nel corpo del posseduto bensì all’esterno di esso, da qualche parte, lo spirito maligno deve rivelare all’esorcista dove si trova. Quando questi la trova, deve bruciarla. L’ossesso sia anche consigliato di manifestare all’esorcista ogni sua tentazione.

21. La persona già posseduta e liberata dallo spirito maligno dev'essere avvertita di evitare con cura azioni e pensieri peccaminosi. Se non dovesse farlo, potrebbe offrire allo spirito maligno nuovamente l’occasione di ritornare e possederla. In tal caso, il posseduto “recidivo” verrebbe a trovarsi in condizioni ben peggiori della volta precedente.

 


 





Un amore grande, che non si vanta, non si adira, non tiene conto del male ricevuto

I miei genitori consideravano don Dolindo a tutti gli effetti un fratello e un cognato. Per questo, la sua presenza mi fu subito familiare. Don Dolindo non mangiava mai a casa nostra, neppure in occasione delle feste, Natale, Pasqua, compleanni, piccoli ricevimenti per le Comunioni o le Cresime… C’erano torte, gelati, ma lui non toccava nulla. Una volta papà insistette: «Dai, assaggia qualcosa, prendi almeno una fetta di dolce, una bibita». E don Dolindo, portandosi col suo tipico gesto la mano allo stomaco, rispose come al solito: «No, grazie, io sto, sto bene». E mio padre, spazientito, quasi esasperato, sbottò: «Ma, almeno un bicchiere d’acqua, lo vuoi o no? Non prendi mai niente, niente, niente». Il motivo era la sua penitenza assoluta

Approfittava di ogni occasione per fare qualche rinuncia, qualche privazione da offrire a Gesù. Noi abitavamo al quarto piano e quando don Dolindo andava via, papà gli diceva: «Aspetta, ti chiamo l’ascensore». Ma lui, pronto: «Ma quale ascensore, io tengo due macchine!». Si alzava la veste talare e mostrava le gambe: «Ecco, questa è la 600 e questa è la 1100!». Quando ero bambina e lui arrivava da noi, i miei genitori ci chiamavano subito: «Ragazzi venite, c’è padre Dolindo che ci dà la benedizione!». Noi, tutti e otto figli correvamo e ci mettevamo in ginocchio in assoluto silenzio. Era un momento solenne, molto sentito, che mi è sempre rimasto nel cuore. 

Come mi sono rimasti nel cuore i tanti episodi di cui ho sentito parlare fin da piccola. Una mattina lo zio aveva visto un gruppetto di giovani prendersela animatamente contro la Chiesa, asserendo che i sacerdoti si arricchivano alle spalle della povera gente e maneggiavano molti più soldi delle famiglie perbene… E giù con offese veementi contro il clero. Allora don Dolindo, con il suo fare sempre un po’ ironico e umoristico, si alzò la sottana fino alle ginocchia e abbozzò un inchino, quasi da ballerino, per poi raddrizzarsi di colpo e dir loro: «Volete comperare queste mie calze?». Lui non le portava mai ed era una giornata freddissima in cui dal cielo pioveva nevischio. Quella comitiva rimase di sasso; filarono tutti via ammutoliti, con la testa china, visibilmente mortificati. 

Don Dolindo non perdeva occasione per riportare al Pastore le pecorelle smarrite, ogni circostanza era buona per toccare i cuori e convertirli, espandendo l’amore di Gesù. Una volta stava salendo su un autobus e nella calca gli soffiarono il portafogli, una foderina di breviario, peraltro sempre e completamente senza soldi, in cui conservava dei biglietti con appunti, promemoria o indirizzi che potevano servirgli. Lo zio, anziché arrabbiarsi, si dispiacque per il ladro che aveva fatto una cosa cattiva e per giunta non aveva trovato denaro. Pensò allora di tenere nel nuovo portafoglio anche una lettera per il ladro, in cui gli esprimeva rammarico per non potergli offrire altro perché era povero, ma volentieri gli consigliava di avvicinarsi a Gesù, il solo che lo avrebbe reso veramente «ricco». Dopo qualche tempo una mano furtiva si infilò nuovamente nella tasca di don Dolindo… e la lettera, dunque, raggiunse il suo destinatario. 

Nell’intenso amore per il sacerdozio ricopriva un posto fondamentale anche la predicazione alla quale lo zio si dedicava con indescrivibile slancio. Questo fu un altro aspetto importante rimasto inalterato nel suo ministero. Ho impresse nella mente le folle che venivano ad ascoltarlo a San Giuseppe dei Vecchi o in altre chiese dov’era chiamato a predicare: spesso dovevano lasciare le porte spalancate perché potesse sentirlo anche la gente assiepata all’esterno. Iniziava sempre a parlare a voce bassa, poi un fervore lo animava via via sempre più, specie quando parlava di Gesù o della Madonna. Rapiva letteralmente ogni cuore. Diventava straordinario, il linguaggio si elevava, si faceva solenne, gli occhi si accendevano di un fulgore strano, come se fosse sul punto di essere rapito in estasi.

Tutti questi particolari ce lo mostravano trasfigurato in un contrasto meraviglioso: da un lato la modestia della persona e l’umiltà dell’abito, dall’altro l’altezza della spiritualità e la vastità della cultura. Non c’è chiesa di Napoli che non l’abbia chiamato per una predica. A volte predicava fino a otto, nove volte in una sola giornata. Correva dappertutto fino a esaurirsi fisicamente, ma lo strano era che invece resisteva. 

Eppure si contentava di una minestra quale unico pasto giornaliero, senza mai terminare l’intero piatto, e non dormiva che due ore per notte. Emma, la sorella, mi raccontò che vedendolo tornare a casa una sera rosso e alterato, gli misurò la febbre: la temperatura sul momento toccava i 41° gradi e mezzo, ma si abbassò di lì a breve… Evidentemente era il fuoco dell’amore per Gesù che ardeva in lui. Quel giorno aveva tenuto nove prediche! 

Non solo le chiese, ma anche la sua casa ovviamente si gremiva quando lui predicava; e da lui accorrevano non solo il popolo, le anime semplici, ma anche persone autorevoli, gente di cultura e con ruoli sociali di prestigio. Tutti sentivano istintivamente che «quello lì» era un prete autentico che non parlava per mestiere o per mettere in mostra la sua erudizione, la sua bravura o per ottenere il vano plauso generale; e riconoscevano il sacerdote pieno di timor di Dio che viveva in intima comunione con Lui. Un amore sofferente e gigantesco come il suo comunicava alle anime la forza di una Presenza che trascina e travolge. E quando terminava, dalle panche partivano spontanei i battimani e i lanci di fiori che ricoprivano l’altare. Per me, non solo da bambina, questa era ogni volta un’emozione immensa, davvero indimenticabile. 

Spesso le sue omelie contenevano preghiere stupende, invocazioni che gli scaturivano spontaneamente dall’animo, in palpabile comunione interiore con Gesù e Maria, ai quali, predicando, o tenendo le catechesi, si rivolgeva di continuo: «Sono un nulla in me, vieni Gesù, vieni in me e vivifica l’anima mia»; «Gesù effonditi nella mia anima»… Questo amore grande, pervadeva ogni sua cellula e si riversava sui presenti. Nonostante la figura minuta e fragile, sull’altare pareva un gigante e la sua voce, mentre tuonava sempre più, ti entrava nell’animo. «Trasformaci o Gesù», pregava. E spiegava che solo Lui, il Maestro poteva operare una «rinnovazione interiore di vita». 

Il suo instancabile sforzo, durante le Messe, fu quello di far comprendere la grandiosità del dono eucaristico: «Quando riceviamo Gesù nel cuore, facciamo che l’anima nostra viva di lui». Troppe, troppe persone – diceva – fuggono via frettolosamente dopo la Comunione, o restano con i pensieri altrove, «come se non avessimo ricevuto nulla». Il Santissimo, entrato in noi, spesso resta lì, ignorato, non accolto, non amato, non considerato, in un silenzio dell’anima assordante. «Come possiamo invitare qualcuno a casa nostra e non rivolgergli neppure la parola? Si può ricevere una visita e restare muti? Siamo troppo taciturni con Gesù sacramentato che viene in noi», lamentava don Dolindo. Il Pane di Vita doveva accendere i cuori, vivificarli, trasformali da aridi in palpitanti d’amore, capaci di dialogare interiormente con il Signore, di porsi in autentica unione con Lui. 

E questo, insisteva don Dolindo, era ancora più importante per i sacerdoti, per le anime consacrate. «Non si può negare un certo decadimento anche nelle comunità religiose», disse in un’omelia del 19 luglio 1958, «ma consacrarsi a Dio significa per prima cosa sceglierlo come oggetto unico del proprio amore». Senza questo trasporto, senza quest’amore, «ecco i pettegolezzi, ecco i dispettucci, ecco le mancanze di carità, ecco il peccato». Il senso dei voti, per don Dolindo, era una «dedizione completa a Dio», in mancanza della quale si andava incontro alla calunnia, alla mormorazione, all’invidia.

Raccontò una volta dal pulpito che a 14 anni, nel periodo del collegio si era, «con uno sforzo di fortezza», più volte alzato in refettorio tra i compagni per chiedere di non sparlare più di altre persone, «ma spesso avevo la peggio». E lo stesso aveva fatto anche con un insegnante che diceva cattiverie dei confratelli: «Padre, per favore spezzate questo discorso, è contro la carità». E quello si era levato dalla sedia: «Tu sei un ragazzaccio!». Purtroppo, le maldicenze che dilagano in seno al clero lo avrebbero colpito anche personalmente negli anni a venire. Ma tutto questo, con lucidità, don Dolindo lo riconduceva a un «agghiacciamento» dell’anima dovuto alla mancanza di vero, autentico, sfavillante amore per Gesù. 

Tanti, spiegava ancora, desiderano le stigmate, le piaghe sanguinose e visibili, alcuni anche «con cuore generoso», ma noi dobbiamo chiedere a Gesù la stigmata del suo amore, di recare impresso su di noi il sigillo dell’amore con cui ci ha donato tutto se stesso per espanderlo sugli altri affinché si possa moltiplicare di cuore in cuore. Qual è la via per ricevere questa preziosa stigmata? «L’abbandono nella mente di Dio: Signore, pensaci Tu, io sono un povero nulla».

Grazia Ruotolo con Luciano Regolo «GESÙ, PENSACI TU» Vita, opere, scritti & eredità spirituale di don Dolindo Ruotolo nel ricordo della nipote

martedì 26 settembre 2023

Non si possono ammirare gli insegnamenti di Gesù e, nello stesso tempo, rifiutare le verità di fede (Alessandro Manzoni)

Testo semplificato.  Fonte: "Osservazioni sulla morale Cattolica", Capitolo III
di Alessandro Manzoni
 
Molti affermano d'essere perfettamente d'accordo con gli insegnamenti di Gesù  nel Vangelo e, nello stesso tempo, sostengono d'essere invece indifferenti o contrari alle verità di fede della Chiesa Cattolica; come se si trattasse di due cose diverse e distinte!
 
Invece l'insegnamento morale e quello di fede sono sempre uniti, in ogni discorso di Gesù, dal "Beati i poveri in spirito perché di essi è il Regno dei cieli" al "Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare..." sul quale si fonda la fede sulla Sua seconda venuta, sulla retribuzione finale e sulle opere di misericordia.
 
È assurdo credere in un Gesù autorevole nell'insegnamento morale e invece non credibile in quello riguardante i fondamenti della fede!  


Infatti l'idea di perfezione proposta agli uomini nel Vangelo, da dove può derivare se non dall'esistenza del Dio perfetto, che nessuno ha mai visto, e che fu rivelato dal Suo Figlio Gesù Cristo?

Come poteva Gesù dire alle folle: "Siate perfetti" se non avesse potuto aggiungere: "come è perfetto il vostro Padre che è nei cieli?" 

Come poteva Gesù raccomandarci di "essere tutti una cosa sola" se non poteva associare quel meraviglioso esempio: "come tu o Padre sei in me ed io sono in te" ? 

E i mezzi per mettere in pratica i suoi comandi, da chi potevano venire se non da Dio stesso?

Chi poteva  chiedere a noi uomini la forza di superare tutte le avversità, se non Chi questa forza ce la poteva promettere, dicendo: "Chiedete e vi sarà dato?"

Chi ci poteva dare la forza di sostenere per la giustizia tutte le violenze di cui è capace il mondo, se non Chi poteva dire: "Io ho vinto il mondo?"

E la forza ancor più ammirevole, di sostenere tutte le avversità restando in pace, chi ce la può fornire se non Chi ci ha promesso: "affinché abbiate pace in me?"

E da dove mai potevano venirvi le ricompense promesse?

Chi poteva assicurarle, non solo alla virtù manifesta ma a quella segreta se non Chi parlava in nome del "Padre che vede nel segreto"?

Chi poteva assicurare una ricompensa superiore anche all'atto più eroico, al sacrificio più doloroso, se non chi poteva promettere una ricompensa nei cieli?

Quando dunque ammiriamo la morale del Vangelo, alla quale la nostra mente non si sarebbe potuta elevare  da sola, siamo perfettamente nella ragione; ma quando non riconosciamo in essa l'impronta divina; quando in ciò che il Vangelo prescrive e in ciò che annuncia non vogliamo vedere una sola e medesima rivelazione; quando rifiutiamo di ammettere motivi soprannaturali per precetti ugualmente soprannaturali, pur riconoscendone la perfezione, allora entriamo in totale contraddizione.

Soprattutto considerando che, per darci la possibilità di adempiere a quanto prospettato e promesso ci viene data quella grazia che non è mai dovuta, ma che non è mai negata a chi la chiede con sincero desiderio e con umile fiducia.

Certo, non era necessaria la rivelazione per farci riconoscere che troppo spesso troviamo in noi stessi non solo una miserabile debolezza, ma una vera e propria ripugnanza a seguire i dettami della legge morale. San Paolo diceva: "Non faccio il bene che voglio, ma il male che non voglio" , ma Ovidio aveva detto prima di lui: "Il cuore e la mente mi danno opposti consigli: vedo il meglio, l'approvo; e vado dietro al peggio". E quando l'apostolo medesimo esclama: "Me infelice! chi mi libererà da questo corpo di morte?" si direbbe quasi che non faccia altro che ripetere il lamento di Socrate.

Ma da un uomo che non conosce il Dio di Gesù mai  avrebbe potuto provenire questa risposta: "La grazia di Dio per Gesù Cristo Signor nostro". 

La morale cattolica è quindi principio di indiscutibile autorità; sistema di regole alle quali si riduce ogni atto e ogni pensiero; spirito di perfezione che in ogni cosa dubbia rivolge l'animo al meglio; promesse superiori a ogni immaginabile interesse del mondo; modello di santità, proposto nell'Uomo-Dio; mezzi efficaci per aiutarci a imitarlo, sia nei sacramenti istituiti da Lui (e nei quali anche chi ha la disgrazia di non riconoscere l'azione divina, non può non vedere azioni che dispongono a ogni virtù), e nella preghiera, a disposizione della quale, per così dire, è messa la potenza divina da quel: "Chiedete, e vi sarà dato".

Tale è la morale della Chiesa cattolica: quella morale che sola potè farci conoscere quali noi siamo, che, sola, dal riconoscimento di mali umanamente irremediabili, potè far nascere la speranza; quella morale che tutti vorrebbero praticata dagli altri, che praticata da tutti condurrebbe la società umana al più alto grado di perfezione e di felicità che si possa conseguire su questa terra; quella morale a cui il mondo stesso non può negare una perpetua testimonianza d'ammirazione e d'applauso.

 

Guercino (Giovanni Francesco Barbieri), Cristo e la Samaritana al pozzo (olio su tela, 1640-'41 ca.)

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 (Testo originale)
 
Troviamo qui l'occasione d'osservar di passaggio quanto sia inconsistente la distinzione che alcuni credono di poter fare tra la morale del Vangelo, per la quale professano ammirazione, non che stima, e i dogmi del Vangelo, che dicono opposti alla ragione; come se queste fossero nel Vangelo due dottrine estranee l'una all'altra. 

E ci sono invece essenzialmente e perpetuamente connesse; a segno che non ci si trova quasi un insegnamento morale del Redentore, che non sia confermato da Lui con un insegnamento dogmatico, dal suo primo discorso alle turbe, nel quale chiama beati i poveri di spirito, perchè di questi è il regno de' cieli, [21] fino a quello che precedette di due giorni la celebrazione della sua ultima pasqua, e nel quale fonda il precetto dell'opere della misericordia sulla rivelazione della sua futura venuta a giudicar tutti gli uomini. [22] (...)

(Sarebbe una) supposizione, ripeto, assurda non meno che empia, d'un maestro sempre sapiente ne' precetti, e sempre fallace ne' motivi, il quale, in una norma del credere, indegna dell'assentimento della ragione, abbia ritrovata una norma del volere e dell'operare, che la ragione medesima deva poi riconoscere superiore a qualunque sua speculazione, come fa quando l'ammira, senza poterla rivendicar come sua, col darle, di suo, un diverso fondamento. 

Infatti donde poteva essere ricavata l'idea di perfezione proposta agli uomini nel Vangelo, se non dall'esemplare del Dio perfetto, che nessuno ha mai veduto, e che fu rivelato dal Figlio unigenito, che è nel seno del Padre?[23] 

Chi poteva dir loro: Siate perfetti, se non Quello che poteva aggiungere: come è perfetto il vostro Padre che è ne' cieli? [24] 

Qual maestro avrebbe insegnato a' suoi discepoli, a tutti quelli che fossero per credere in lui fino alla fine de' secoli, a esser tutti una sola cosa, se non Quello che all'inaudito insegnamento poteva aggiungere quell'ineffabile esempio: come, o Padre, una sola cosa siamo noi? [25] 
E i mezzi d'eseguire una tal legge, donde potevano venire se non dall'onnipotenza del Legislatore medesimo? 
Chi poteva esigere dall'uomo la forza di superare tutte le tendenze contrarie, se non Chi gliela poteva promettere, dicendo: Chiedete e vi sarà dato? [26] 
Chi la forza di sostenere per la giustizia tutte le violenze di cui è capace il mondo, se non Chi poteva dire: Io ho vinto il mondo?
Chi la forza più mirabile ancora, di sostenerle in pace, se non Chi poteva dire: Quella pace l'avrete in me? [27]
E donde finalmente poteva aspettarsi una ricompensa perfetta come questa legge medesima?
Chi poteva prometterne una, non solo alla virtù, ma al segreto della virtù, se non Chi parlava in nome del Padre che vede nel segreto? [28]
Chi prometterla abbondante in paragone di qualunque sforzo più eroico, di qualunque sacrifizio più doloroso, se non chi poteva prometterla ne' cieli? [29]
Chi nobile al pari del precetto d'aver fame e sete della giustizia, anzi perfettamente connaturale ad esso, se non Chi poteva dire: La vostra beatitudine starà nell'essere satollati? [30]

Si può egli non vedere in questi esempi (e sarebbe facile il moltiplicarli, se ce ne fosse bisogno) una connessione unica, una relazione necessaria, tra i precetti e i motivi?
Quando dunque la ragione ammira la morale del Vangelo, alla quale non si sarebbe potuta sollevare da sè, fa rettamente il suo nobile ufizio: ma quando ne sconosce l'unità divina; quando in ciò che il Vangelo prescrive e in ciò che annunzia non vuol vedere una sola e medesima rivelazione; quando ricusa d'ammettere motivi soprannaturali di precetti ugualmente soprannaturali, che confessa eccellenti (che non vuol dir altro se non conformi a delle verità d'un ordine eccellente), allora non può più chiamarsi ragione, perchè discorda da sè medesima.(...)


Ai precetti poi che essa sola poteva promulgare, e ai motivi che essa sola poteva rilevare, la religione aggiunge (ciò che ugualmente poteva essa sola) la cognizione di ciò che può darci la forza d'adempire i primi, e d'adempirli per riguardo e secondo lo spirito de' secondi: cioè quella grazia che non è mai dovuta, ma che non è mai negata a chi la chiede con sincero desiderio, e con umile fiducia. [32] 

Certo, non era necessaria la rivelazione per farci conoscere che troppo spesso troviamo in noi medesimi non solo una miserabile fiacchezza, ma una indegna repugnanza a seguire i dettami della legge morale. E l'apostolo de' gentili, dicendo: Non fo il bene che voglio, ma quel male che non voglio, quello io fo, [33] ripeteva una verità ovvia anche per loro. Ovidio aveva detto prima di lui: Il core e la mente mi danno opposti consigli: vedo il meglio, l'approvo; e vo dietro al peggio. [34] 

E quando l'apostolo medesimo esclama: Infelice me! chi mi libererà da questo corpo di morte? [35] si direbbe quasi che non faccia altro, che ripetere il lamento di Socrate. [36] 

Ma da qual uomo non istruito nella scola di cui Paolo fu così gran discepolo e così gran maestro, poteva uscire quella divina risposta alla desolata domanda, allo sterile lamento: La grazia di Dio per Gesù Cristo Signor nostro? [37] Principio d'irrecusabile autorità; regole alle quali si riduce ogni atto e ogni pensiero; spirito di perfezione che in ogni cosa dubbia rivolge l'animo al meglio; promesse superiori a ogni immaginabile interesse temporale; modello di santità, proposto nell'Uomo.Dio; mezzi efficaci per aiutarci a imitarlo, e ne' sacramenti istituiti da Lui (e ne' quali anche chi ha la disgrazia di non riconoscere l'azione divina, non può non vedere azioni che dispongono a ogni virtù), e nella preghiera, a disposizione della quale, per dir così, è messa la potenza divina da quel: Chiedete, e vi sarà dato; tale è la morale della Chiesa cattolica: quella morale che sola potè farci conoscere quali noi siamo, che sola, dalla cognizione di mali umanamente irremediabili, potè far nascere la speranza; quella morale che tutti vorrebbero praticata dagli altri, che praticata da tutti condurrebbe l'umana società al più alto grado di perfezione e di felicità che si possa conseguire su questa terra; quella morale a cui il mondo stesso non potè negare una perpetua testimonianza d'ammirazione e d'applauso.


 

Note:

21. Beati pauperes spiritu, quoniam ipsorum est regnum cœlorum. Matth. V, 3.
22. Cum autem venerit Filius hominis in maiestate sua, et omnes angeli cum eo, tunc, sedebit super sedem maiestatis suæ... Ibid. XXV, 31 et seq.
23. Deum nemo vidit unquam: unigenitus Filius, qui est in sinu Patris, ipse enarravit. Ioan. I, 18.
24. Estote ergo vos perfetti, sicut et Pater vester coelestis perfectus est. Matth. V, 48.
25. Ut sint unum, sicut et nos unum sumus. Ioan. XVII, 22.
26. Petite, et dabitur vobis. Luc. XI, 9.
27.  Hæc locutus sum vobis, ut in me pacem habeatis. In mundo pressuram habebitis; sed confidite, ego vici mundum. Ioan. XVI, 33. Pater tuus, qui videt in abscondito, reddet tibi. Matth. VI. 4. Merces vestra copiosa est in cœlis. Id. V, 12.
32. . . . quanto magis Pater vester de cœlo dabit spiritum bonum petentibus se? Luc. XI, 13.
33. Non enim quod volo bonum, hoc facio; sed quod nolo malum; hoc ago. Ad Rom. VII, 19.
34.  . . . . . . . . . . . . . . aliudque cupido  Mens aliud suadet: video meliora proboque;  Deteriora sequor.  Metam. VII, 19 et seq.
35. Infelix ego homo! quis me liberabit de corpore mortis huius? Ad Rom. VII, 24
36. Donec corpus habemus, animusque poster tanto malo erit admixtus, etc. Plat. Phæd.
37. Gratia Dei per Jesum Christum Dominum nostrum. Ad Rom. VII, 25.

Tratto da: "Osservazioni sulla morale Cattolica", Capitolo III
di Alessandro Manzoni

Le grazie che scaturiscono dalla Messa. 4: Liberazione dalla schiavitù del peccato

 

Le grazie che scaturiscono dalla Messa 
(di padre Josip Lončar)
4: Liberazione dalla schiavitù del peccato e benedizione per la propria vocazione

 

Liberazione dalla schiavitù del peccato

Se, nonostante le molteplici espressioni di sincero pentimento, le penitenze e le confessioni ricadiamo sempre nello stesso peccato, esiste la possibilità che esso ci abbia resi prigionieri: in tal caso è necessario liberarcene. 

La liberazione avviene con la redenzione. 


Il sacrificio eucaristico, con l'intenzione della liberazione dalla schiavitù di un singolo peccato, può essere offerto per noi stessi, ma anche per gli altri, in particolare per i nostri cari. 

In questa nostra epoca contemporanea molti diventano facili prede di: fumo, alcool, eccessi alimentari, droghe, pornografia, pedofilia, gioco d'azzardo, scommesse e altri giochi; shopping compulsivo, pettegolezzi, calunnie e riprovazioni; parolacce e bestemmie; internet, televisione, videogame e altre forme di dipendenza, assuefazione e attaccamento. 

Questi intralci spesso distruggono la salute spirituale, mentale e fisica, matrimoni e famiglie, e possono persino condurci alla condanna eterna. 

Molti problemi di questo tipo affondano le loro radici in condizioni di vita difficili, che abbiamo vissuto nella nostra primissima gioventù, quando ci siamo sentiti respinti, indesiderati, sottostimati e/o colpevoli. 

Per questo è molto importante prepararsi bene alla Messa, che predisporrà il nostro cuore a ricevere la grazia della guarigione interiore, del perdono e della liberazione. 

Talvolta dovremo offrire queste intenzioni più volte (specialmente quando il problema è radicato nelle profonde ferite dell'anima), consapevoli che Dio gradualmente ci guarisce, ci libera e ci dà il conforto della pace (CCC 1363; Rm 6,16-17; Rm 7,14-25).

Benedizione per la propria vocazione

Offrire il sacrificio eucaristico è importante anche per realizzare la propria vocazione e speciali compiti della vita. 


Talvolta, lungo la strada che può condurci alla missione della nostra vita c'è un ostacolo che non possiamo rimuovere da soli. Per questo è decisamente importante offrire la Messa per la liberazione da tutto ciò che ci impedisce di realizzare la nostra missione nella vita. 

Essere un buon sacerdote, un buon monaco, una buona monaca, coniuge, padre, madre, figlio, figlia, amico; essere un uomo buono è impossibile senza la grazia di Dio. Solo la grazia può liberarci efficacemente, educarci, incoraggiarci, sollevarci, dirigerci, proteggerci, rafforzarci, curarci.

lunedì 25 settembre 2023

Le grazie che scaturiscono dalla Messa. 3: Redenzione dalla malattia, dal dolore, dalle ferite del cuore

 

Le grazie che scaturiscono dalla Messa 
(di padre Josip Lončar)
3: Redenzione dalla malattia, dal dolore, dalle ferite del cuore

Redenzione dalla malattia

Isaia scrive che Gesù con il suo sacrificio (Is 53,4-5): -       si è addossato le nostre malattie (possiamo intenderlo anche come: ha dato ad esse un senso) -       ha pagato la pena per i nostri peccati, compresi quelli per i quali la malattia è forse insorta o avanzata (odio, amarezza, mancanza di perdono, autocommiserazione, senso di colpa, sregolatezza nel mangiare o nel bere, fumo, droghe, occultismo...) - per le sue piaghe noi siamo stati guariti. 


 

Il risultato dell’opera salvifica di Gesù può essere differente ma è sempre una benedizione per il malato. Può manifestarsi come: - guarigione - conoscenza del significato e accettazione della sofferenza - accettazione della salvezza tramite il perdono dei peccati, accettazione dell'ingresso in paradiso . 

Il Messale contiene il formulario per la Messa per gli infermi, che offre due possibilità di preghiere di Colletta; in una preghiamo Dio affinché guarisca i malati e li faccia tornare alle loro consuete mansioni, in un'altra preghiamo affinché riveli il valore misterioso della sofferenza. 

Quando si parla di guarigione, ci è chiaro a cosa si fa riferimento, ma spesso non comprendiamo cosa significhi l'acquisire consapevolezza del senso della sofferenza. 

Se parliamo del valore della sofferenza unita ai patimenti di Gesù sulla Croce, il malato con il suo intelletto capirà sicuramente di cosa si tratta, ma la sola comprensione non porterà all'accettazione del cuore, non donerà la pace interiore. 

L'accoglienza, la gioia e la pace possono essere donate solo dalla consapevolezza (rivelazione) del vero valore dell'offerta delle nostre sofferenze per la conversione dei peccatori e per ogni altro aiuto ai bisognosi. La coscienza è spesso legata all'esperienza. Dio offre tale consapevolezza (rivelazione) anche a coloro che patiscono per la malattia di persone a loro care, poiché in alcune situazioni soffre più chi è vicino al malato che il malato stesso, basti pensare, ad esempio, al padre o alla madre che sovente provano maggior sofferenza dello stesso bimbo infermo. 

Nella sua conoscenza misericordiosa, Dio sa che per alcuni è meglio morire in stato di grazia piuttosto che guarire. Infatti, dopo la guarigione tornerebbero al vecchio stile di vita e perderebbero la salvezza (per lo più poiché non hanno una fede consolidata), per questo è bene che il Signore li chiami a sé nel momento di massima esperienza di fede della loro vita. 


Dato che il sacrificio della Messa per la guarigione dalla malattia (redenzione) ci porta necessariamente a meditare sul senso e sul valore della vita, esso può persino condurci ad una più profonda conversione personale e ad un più stretto e intimo rapporto con Dio. 

Da tale relazione matura la comprensione della nostra responsabilità (qualora esista) per la salute persa, e per le occasioni che abbiamo nei periodi in cui stiamo bene. Ciò è fondamentale per la crescita spirituale, ma anche per poter custodire il dono della guarigione se Dio ha voluto concederlo. 

È importante tenere a mente che la cura di molte malattie è strettamente legata alla somministrazione di medicinali che riducono significativamente la capacità del malato di pregare per se stesso. Per questo la preghiera per gli infermi, specialmente l'offerta del sacrificio eucaristico per la loro redenzione, dovrebbe dimorare nel cuore di tutti i credenti.


Redenzione dal dolore, dalle ferite del cuore

Isaia riferisce che Gesù ha preso su di sé i nostri dolori. Ritengo che qui si faccia innanzitutto riferimento ai patimenti dello spirito (come il senso di rifiuto, colpa, indesiderabilità, scarsa stima, solitudine, amarezza, ingiustizia...), e poi a qualsiasi altro dolore, compreso quello fisico. 

Con la Messa possiamo ottenere la consapevolezza del senso del dolore, riconoscere le nostre responsabilità (la necessità del pentimento e del perdono verso coloro che ci hanno ferito), essere liberati dal dolore (guariti).

I dolori dello spirito talvolta spengono la gioia vitale e spesso possono influire negativamente sulla vita nel suo complesso, deteriorare la salute, così come i rapporti tra coniugi e in famiglia. Essi spesso causano o contribuiscono sensibilmente al manifestarsi di inquietudine, paure, angosce e varie tipologie di psicosi. 

Durante la Santa Messa possiamo dimorare in Dio, ascoltare e accogliere le sue sante parole. La pace di Gesù, che il mondo non conosce e non può dare, le sue parole, la sua grazia, entrano nel nostro spirito ferito come un'infusione, come la linfa che dalla vite scorre nel tralcio e dona vita. 

Solamente Dio ci conosce fino in fondo e solamente lui può guarirci e liberarci e darci profonda pace interiore e felicità. Per questo, anche per questa intenzione, è estremamente importante una buona preparazione.

domenica 24 settembre 2023

Discorso profetico del 1970: "Ritorneranno l'ascesi e l'adorazione"

Discorso tenuto dal Dott. Eric de Saventem ai membri della Federazione Internazionale  Una Voce , negli Stati Uniti, riuniti a New York per la loro prima Assemblea Generale il 13 giugno 1970

Memling, polittico di San Giovanni (particolare)


Come molti di voi sanno, UNA VOCE ha attraversato un periodo di prova. La promulgazione del nuovo ORDO MISSAE ci ha messo di fronte a quello che sta rapidamente diventando il problema numero uno del fedele cattolico: come coniugare la sottomissione filiale al Santo Padre con una critica rispettosa ma aperta di alcuni dei suoi atti?
 

In questioni di tale delicatezza, la prima necessità è essere precisi, nel pensiero e nelle parole. Quando si sono riuniti i Delegati delle quattordici associazioni federate UNA VOCE Zurigo in febbraio hanno deciso all'unanimità che UNA VOCE si adoperasse per ottenere il mantenimento della Messa tridentina “come uno dei riti riconosciuti nella vita liturgica della Chiesa universale”. Ma ciò non equivaleva ad una condanna della nuova ORDO. Essendo “a favore” del Rito Tridentino della Messa non siamo “contro” il nuovo Ordinario della Messa nel senso di un totale rifiuto. Così come non eravamo “contro” il volgare quando chiedevamo “per” il mantenimento del latino liturgico.
 

La Chiesa ha sempre conosciuto una pluralità di riti riconosciuti e di linguaggi liturgici. Ma quel “pluralismo” – per usare il termine moderno – nasceva dal “rispetto della tradizione”: così lo stesso san Pio V, quando introdusse il Messale Romano uniforme dopo il Concilio di Trento, confermò proprio la legittimità di alcuni altri riti di veneranda origine ed uso. Permettetemi, a questo punto, di ricordarvi che la tanto denigrata unificazione e anzi uniformazione dei riti della Messa, ottenuta dal Messale di Pio V, fu intrapresa da quel santo Papa su espressa richiesta dei vescovi riuniti in Concilio. Non si trattò quindi di un atto di prepotenza curiale, o di disprezzo romano per la legittima individualità dell'espressione liturgica. Lo hanno chiesto gli stessi vescovi di prescrivere un rito uniforme per tutta la Chiesa latina perché avevano constatato che, a livello diocesano o addirittura sinodale, era impossibile fermare o addirittura limitare la proliferazione di testi non autorizzati per la celebrazione dei Sacramenti.
 

Stiamo semplicemente assistendo al ripetersi sia della proliferazione di testi non autorizzati sia dell’incapacità episcopale di farvi fronte. Forse potremmo anche assistere al ripetersi di quell'atto di saggezza che, poco più di 400 anni fa, fece sì che i vescovi chiedessero al Papa di redigere e attuare “in perpetuo” il rito uniforme della Messa che fu promulgato nel 1570 e che ha ha portato una benedizione così immensa alla Chiesa.
 

Di altro genere è il pluralismo di oggi: è la parola d'ordine e il grido di guerra di chi vuole mettere da parte la tradizione. Ecco perché, nel mezzo di una nuova proliferazione di riti e testi liturgici, assistiamo alla pratica soppressione dell'unico rito che custodisce in modo perfetto il tesoro più sublime della Chiesa, il santo mistero della Messa.
 

Finora la soppressione è avvenuta solo de facto e non de jure . Sarebbe infatti impensabile che il vecchio Ordo Missae venisse ufficialmente proibito. Per giustificare ciò, si dovrebbe sostenere che in qualche modo era “sbagliato” o “cattivo” – sia dottrinalmente che pastoralmente. Dimostrare l’uno o l’altro equivarrebbe a negare che la Chiesa sia guidata dallo Spirito Santo. È quindi inammissibile anche solo suggerire che il vecchio Ordo possa essere legittimamente messo al bando.
 

Ma la repressione di fatto è comunque abbastanza reale e dobbiamo combatterla con tutti i mezzi a nostra disposizione. Un argomento è ovviamente proprio il "pluralismo" che i riformatori invocano costantemente: a meno che non abbracci la continua esistenza del vecchio rito, accanto a quello nuovo, il "pluralismo" nella liturgia viene immediatamente smascherato come pura ipocrisia, che vela sottilmente sia il disprezzo della tradizione che l'arrogante pregiudizio antiromano delle gerarchie nazionali e delle loro commissioni liturgiche.
 

Ricordiamo che le tre nuove Preghiere Eucaristiche, o Canoni, sono state introdotte non in sostituzione, ma in aggiunta all'antico Canone Romano, che era stato espressamente confermato e addirittura messo in primo piano (sulla carta) per le Messe celebrate la domenica. È quindi perfettamente legittimo e ragionevole chiedere che il nuovo ORDO MISSAE venga proposto, allo stesso modo, come modalità aggiuntiva e alternativa di celebrare la Messa, e non come totale sostituzione del vecchio Rito di San Pio V.
 

Quanto al nuovo ORDO, come tutti sapete, è diventato oggetto di critiche forti, diffuse ed estremamente convincenti. Ciò vale sia per l'ordine e le preghiere della Messa stessa, sia per la cosiddetta "Institutio Generalis" o "Presentazione generale del nuovo Ordinario della Messa". La critica riguarda i testi latini ufficiali e, in molti paesi in modo ancora più forte, le loro traduzioni in volgare. Si è constatato che i testi riflettono alcune delle nuove tendenze teologiche che ispirarono il famigerato Catechismo olandese e che Roma stessa ha condannato. Si è constatato che, anche laddove queste tendenze non si riflettevano nelle parole stesse usate né nel nuovo Ordo né nella Presentazione Generale, esse tuttavia emergevano inequivocabilmente nel contesto e, più particolarmente negli effetti psicologici a cui il nuovo rito mira chiaramente. Per questi motivi UNA VOCE, come molti altri, si è sentita autorizzata, anzi obbligata, a criticare il nuovo Ordo, così come abbiamo già criticato altri aspetti della riforma postconciliare.
 

Tali critiche sono sbagliate, sono indecorose, provenienti da coloro che si considerano cattolici leali e figli fedeli del Santo Padre? Del resto: il nuovo MISSALE ROMANUM è stato promulgato dallo stesso Pontefice regnante, e bisogna quindi stare certi che egli lo considera non solo esente da errori, ma anche esente da tendenze e ambiguità potenzialmente pericolose, e che considera la sua introduzione come necessari per il maggior bene della Chiesa. Esaminiamo questo problema per un momento. Vediamo cosa è successo ai più recenti importanti documenti di guida papale per la Chiesa in materia di fede, morale e liturgia.
 

Vi ricordate della "Mediator Dei", con i suoi gravi avvertimenti contro le stesse aberrazioni liturgiche divenute ormai pratica quotidiana. Ricordate la "Veterum Sapientia" di Giovanni XXIII, con i suoi gravi ammonimenti a salvaguardare l'uso del latino particolarmente nella Liturgia e nei seminari. Vi ricordate del "Mysterium Fidei" con la sua netta condanna di alcune nuove interpretazioni del mistero della Transustanziazione. Ricorderete la Costituzione del Concilio sulla Liturgia, promulgata da Papa Paolo VI, con le sue chiare indicazioni sul mantenimento del latino come lingua principale per la Liturgia, e con il suo permesso attentamente circoscritto per l'uso della lingua volgare in alcune parti della Messa. Voi ricordate il "Credo del popolo di Dio" con la sua riaffermazione di tutte le verità essenziali del cattolicesimo e con il suo implicito monito contro ogni dottrina che impoverisca o falsifichi il "Depositum fidei". Si ricordi – da ultimo – il Decreto “Memoriale Domini” che disapprova formalmente la pratica della Comunione in mano. E voi tutti conoscete fin troppo bene gli avvertimenti settimanali del Santo Padre contro le innumerevoli forme di sottile sovversione dall'interno, dai cardinali fino ai vicari focosi, dai cosiddetti eminenti teologi fino agli irresponsabili cosiddetti giornalisti "cattolici".
 

Gli ultimi vent'anni ci hanno regalato moltissimi esempi di papi regnanti che hanno espresso la loro chiara e inequivocabile disapprovazione nei confronti di certe idee, certe tendenze, certe pratiche, certi suggerimenti e atteggiamenti che si manifestavano all'interno della Chiesa. Quasi tutti sono stati totalmente ignorati: dai laici, dai sacerdoti, dai vescovi e dai cardinali, e in effetti: proprio ai vertici stessi, dove più di un pontefice regnante è andato contro le chiare ingiunzioni dei suoi immediati predecessori.
 

Dopo questa digressione, torniamo a UNA VOCE e alle sue due preoccupazioni principali: il latino, con il canto gregoriano, e la Messa tridentina.
 

È totalmente sbagliato etichettarci come reazionari, come persone che si aggrappano ostinatamente alle vie di ieri, le cui menti sono chiuse alle riforme necessarie e benefiche, o i cui concetti personalizzati di preghiera liturgica riflettono l’individualismo di un’epoca passata. Al contrario: la nostra insistenza affinché nella Liturgia si usi un linguaggio liturgico specifico e una forma liturgica specifica della musica, e che per la Messa si continui a usare un rito la cui ispirazione è teologica anziché sociologica, ieratica anziché comunitaria - - questa insistenza è in realtà un atto di “contestazione” lungimirante.

Contestazione contro una concezione impoverita di cosa sia la liturgia. La liturgia è sicuramente più del "dialogo tra Dio e il suo popolo". È la messa in atto gerarchicamente ordinata del sacro nella realtà profana. La liturgia è infatti un'azione sacra. In quanto tale è essenzialmente scritturale. Sostenere che la liturgia sia diventata “più scritturale” grazie a letture sempre più varie della Bibbia e all’uso liberale dei salmi per i canti antifonali e responsorali è fuorviante quando allo stesso tempo la liturgia viene derubata della maggior parte delle parole e gesti e accessori che denotano la sacralità dell'azione e che trasmettono questa sacralità ai partecipanti e suscitano una risposta dai loro cuori piuttosto che dalle loro teste.
 

Contestazione anche contro una concezione impoverita del sacerdozio. Chiedetevi soltanto questo: la "crisi del sacerdozio" si sarebbe verificata e avrebbe assunto le dimensioni terrificanti di cui siamo testimoni ogni giorno, se il sacerdote fosse rimasto "ministro dell'altare" (invece del popolo), agendo "in persona Christi"? Hanno dato una finalità e una dignità uniche al sacerdote celebrante e al suo volontario isolamento nel celibato – altro "segno" della distinzione essenziale tra il sacerdozio "ministeriale" del ministro ordinato dell'altare e il sacerdozio generale apostolico del ogni cattolico battezzato. L'eliminazione dei "segni" incide sempre su ciò che essi significano, ed è per questo che le recenti riforme liturgiche sono tra le principali cause della crisi del sacerdozio.
 

Di fronte a tutto questo: cosa possiamo – cosa dobbiamo – fare?
 

Soprattutto: dobbiamo acquisire nuovi soci per UNA VOCE. Non per il bene dei numeri, ma per rafforzare la nostra reciproca determinazione e per affrontare in modo più efficace i numerosi compiti che ci attendono. Quali sono questi compiti?
 

Primo: conservare tra noi, e diffondere al di fuori di questa cerchia ristretta, la familiarità con il latino liturgico. Ciò è richiesto dal Consiglio stesso. I testi liturgici latini dovrebbero essere compresi – e per questo non è necessario diventare uno "studioso" latino. Un'altra virtù di questa inestimabile lingua "morta" è che, nella forma in cui è giunta a noi come latino della Chiesa, è una lingua facile, infinitamente più facile della maggior parte delle lingue moderne. E se anche questi possono essere padroneggiati abbastanza bene in pochi mesi per una comprensione di base, allora ciò va a maggior ragione per il latino ecclesiastico. La conoscenza di base della lingua propria della Chiesa conferisce atemporalità al nostro senso di appartenenza e fornisce un legame soprattutto con i grandi santi del passato. Anche se utilizziamo poco le nostre conoscenze al di fuori della liturgia, il fatto di conoscere il latino della Chiesa rafforzerà il nostro "sensus ecclesiae". E, poiché oggigiorno i preti sono così desiderosi di emulare i laici, il nostro interesse per il latino potrebbe riportarlo anche nei seminari. Ecco allora qualcosa che i vostri Capitoli possono e devono fare: organizzare corsi di latino ecclesiastico, con particolare attenzione ai testi liturgici.
 

Non si creda, però, che il latino nella Liturgia debba essere compreso da tutti prima di poter riconquistare il posto che gli spetta. L'enfasi prevalente sulla comprensione razionale di ogni parola pronunciata all'altare o all'ambone è un altro di quegli impoverimenti che noi "contestiamo". Ma è nostro dovere fare lo sforzo supplementare di imparare il latino ecclesiastico anche per poter trasmettere ai nostri figli quel minimo di conoscenze linguistiche che prima faceva parte della loro ordinaria istruzione religiosa.
 

Secondo: si dovrebbe praticare il canto gregoriano. Se non puoi farlo in chiesa, fonda una società corale. Laddove ciò risultasse troppo difficile, il Capitolo potrebbe tenere delle riunioni periodiche in cui verranno suonati dischi in canto gregoriano, in modo che le vostre orecchie – e quelle dei vostri figli, o degli amici che potrete portare più facilmente a questo tipo di incontri che a un incontro formale UNA VOCE - dovrebbe rimanere o acquisire familiarità con la sua bellezza e rimanere, o entrare in sintonia con, la sua qualità unica di preghiera.
 

Terzo: i membri di UNA VOCE dovrebbero essere abbastanza esperti nella dottrina della Chiesa in materia liturgica e conoscere gli schemi fondamentali della storia liturgica. Troppo spesso rimaniamo indifesi – per mera mancanza di conoscenze di base – quando discutiamo con colleghi cattolici o con preti che hanno letto tutti i libri più recenti. I capitoli dovrebbero organizzare gruppi di studio e conferenze, e la sede centrale dovrebbe diffondere le conoscenze di base attraverso la loro newsletter e dovrebbe fornire ai capitoli una biografia selezionata ad uso dei leader del gruppo o dei singoli membri.
 

Quarto – e questo è molto importante: RAGGIUNGERE I GIOVANI. Senza saperlo ancora, hanno un disperato bisogno di una liturgia che sia più ricca di contenuto e di espressione del semplice "dialogo" (di cui ottengono più che a sufficienza in tutti gli altri ambiti della vita ecclesiale), del semplice intrattenimento o anche della catechesi - più ricca dello stare insieme o della un esercizio di allenamento alla "sensibilità" (o dovremmo dire "insensibilità"). Hanno bisogno del clima di ritiro, di raccoglimento, di vera "laus Dei", che è totalmente diversa dal lodare sfacciatamente il "Signore dell'Universo" attraverso le imprese o il progresso dell'uomo. Hanno bisogno dell'incontro, anzi: del confronto con il "segno di contraddizione",
 

Verrà una rinascita: torneranno l'ascesi e l'adorazione come molla della dedizione diretta e totale a Cristo. Si formeranno confraternite di sacerdoti, votati al celibato e ad un'intensa vita di preghiera e meditazione. I religiosi si raggrupperanno in case di “stretta osservanza”. Nascerà una nuova forma di "Movimento liturgico", guidato da giovani sacerdoti e che attirerà soprattutto i giovani, in protesta contro le liturgie piatte, prosaiche, filistee o deliranti, che presto invaderanno e infine soffocheranno anche i riti recentemente rivisti.
 

È di vitale importanza che questi nuovi sacerdoti e religiosi, questi nuovi giovani dal cuore ardente, trovino – anche solo in un angolo della vaga dimora della Chiesa – il tesoro di una liturgia veramente sacra che brilla ancora dolcemente nella notte. Ed è nostro compito – poiché ci è stata data la grazia di apprezzare il valore di questo patrimonio – preservarlo dal degrado, dall'essere sepolto, disprezzato e quindi perduto per sempre. È nostro dovere mantenerlo vivo: con il nostro attaccamento amorevole, con il nostro sostegno ai sacerdoti che lo fanno risplendere nelle nostre chiese, con il nostro apostolato a tutti i livelli di persuasione.
 

Dio ci dia coraggio, saggezza, perseveranza – e rafforzi e approfondisca ora più che mai il nostro amore per la Chiesa e per Colei, che il Santo Padre ha solennemente proclamato “Mater ecclesiae” – Maria, la Beata Madre di Dio e la nostra santissima Regina e Madre.


Le grazie che scaturiscono dalla Messa. 2: La salvezza dei moribondi

Le grazie che scaturiscono dalla Messa 
(di padre Josip Lončar)
2: La salvezza dei moribondi

 

Credo che i moribondi abbiano tremendamente bisogno della misericordia di Dio, soprattutto coloro che per qualsiasi ragione muoiono prima di aver raggiunto la tarda età. 

La paura della morte, il dolore e l'amarezza causate dalla consapevolezza di dover morire prematuramente, l’angoscia per la famiglia, il senso di rifiuto e impotenza, i dolori e i disagi associati alla malattia sono solo alcune delle sfide con le quali si misura l'uomo che muore. 

Molti non sono in uno stato di grazia, non vivono la loro vita in relazione intima e personale con il Signore. La Parola di Dio, come accennato in precedenza, dice che chiunque invochi il nome del Signore sarà salvato, non finirà all'inferno (Rm 10,13; At 2,21). 

Molti moribondi, soprattutto quelli che in giovinezza hanno sperimentato determinate grazie, come la prima Confessione o l'andare a Messa con i genitori, o che hanno esercitato i ministeri nella Messa, sono pronti ad accogliere la grazia, ma comunque è loro necessario l'aiuto della preghiera. 

La famiglia del morente spesso non chiama il sacerdote e non parla di Dio e del paradiso, poiché teme in tal modo di turbarlo maggiormente. Per molti, infatti, chiamare qualcuno affinché preghi e parli di Dio costituisce un disagio. 

Alcuni, per la situazione nella quale si trovano, sono amareggiati con Dio e non desiderano avere nulla a che fare con lui. Vi sono anche di quelli che non hanno abbastanza fede nella vita eterna, e altri che pensano di aver vissuto in modo giusto e che il pentimento non sia necessario. Accade anche che la famiglia del malato, per questioni di apparenza, non desideri chiamare un prete, perché è più importante ciò che possono pensare i vicini piuttosto che l'esigenza del malato di ricevere la grazia di Dio. 

Inoltre, un numero considerevole di fedeli non comprende l'essenza dell'unzione degli infermi e non capisce che è mediante tale sacramento che il malato riceve nel cuore anzitutto la tanto desiderata e necessaria pace di Dio (ricorrendo alla Confessione) e poi la salvezza eterna. Mediante tale sacramento il Signore può avvicinarsi al malato e guarirlo anche dalle malattie più gravi. 

Dio, nella sua misericordia, ha fortemente a cuore la conversione e la salvezza di ogni uomo, ma data la sua equità e imparzialità non può imporre a nessuno la sua grazia. La preghiera per gli infermi è una delle più grandi azioni di misericordia cui tutti siamo chiamati. Nemmeno uno degli aiuti che riceviamo in vita può essere paragonato a quello di cui avremo bisogno all’approssimarsi della nostra morte. 

Simeone il Vecchio profetizzò a Maria, madre di Gesù e nostra madre, che una spada Le avrebbe trafitto l'anima affinché fossero svelati i pensieri dei cuori (Lc 2,35). In tal modo Le aveva annunciato la grazia per la quale molte anime, in punto di morte, per sua intercessione avrebbero visto la loro vita per ciò che era stata al fine di potersi pentire sinceramente e accettare il perdono e la salvezza. 

Riconoscere la propria impurità, emendarsi e cercare il perdono, almeno immediatamente prima di morire, è una delle grazie più grandi. 

Nessuno di noi è pienamente consapevole di quanto bene abbiamo omesso di fare nel rapporto personale con Dio e con coloro che ci stanno vicini, nella maggior parte dei casi per orgoglio, egoismo ed egocentrismo. 

Per questo, ad ogni Avemaria preghiamo la Madre di Gesù e madre nostra affinché interceda continuamente per noi peccatori, specialmente nell’ora della nostra morte, affinché riconosciamo i nostri peccati e nel contempo la misericordia di Dio. Dobbiamo essere consapevoli che la Beata Vergine Maria è presente e intercede per noi quando offriamo la Messa per la salvezza dei moribondi, poiché L'abbiamo pregata tante volte proprio per questo. Dobbiamo renderci conto che lei si preoccupa veramente della vita eterna di ogni morente e che nel momento della morte, più che mai, lei è Madre. 

Ogni infermo, anche nelle ultime ore della vita, può avere l'occasione di fare buone azioni a Dio gradite e così portare con sé nell'eternità un tesoro perenne (Mt 6,19-21).

Se il Signore, grazie alle nostre preghiere, al sacrificio della Messa o attraverso la nostra testimonianza, concede all’anima la grazia di desiderare con il cuore di rendere grazie a Dio e alle persone vicine per ogni bene che ha ricevuto e di perdonare a tutti coloro che l’hanno ferita e benedire e pregare per chi ha bisogno della salvezza, allora raccoglierà un grande tesoro. 

La profonda gratitudine verso Dio e verso il prossimo che ci ha fatto del bene, il perdono sincero a coloro che ci hanno ferito e la preghiera fervente per i bisognosi sono i frutti della sincera riconciliazione con Dio. Dunque non dobbiamo cercare da Dio solo la salvezza, bensì pregarlo affinché conceda a chi è in pericolo di morte la grazia della gratitudine, del perdono e della benedizione. 

Ma Dio non è il solo a nutrire interesse per gli infermi, anche il diavolo ne ha. Il nemico, attraverso i suoi servitori, cerca di distogliere chi è in pericolo di morte dalla ricerca della grazia di Dio, di gettare il più possibile accuse verso Dio e di rafforzare nel sofferente il senso di rifiuto. Parimenti, tenta di 'gonfiare' nel morente il senso di orgoglio e convincerlo che non dovrebbe umiliarsi di fronte a nessuno né rivelare a nessuno i suoi peccati, specialmente a 'qualche sacerdote peccatore'. Il diavolo farà di tutto per conquistare i pensieri e le sensazioni del morente e allontanarlo dalla salvezza. 

Quando offro la Messa per i moribondi, tento di presentare a Dio anche il mio personale sacrificio poiché so che i sacrifici offerti per puro amore sono l'arma più potente per allontanare da loro il diavolo. Io so che l'offerta della Messa per gli infermi è un atto molto caro a Dio, e in tal modo contribuisco alla sua misericordia in modo particolare, e ciò che mi motiva maggiormente è la profonda necessità interiore del morente. Nel profondo del cuore so che in paradiso mi rallegrerò molto quando incontrerò uno di coloro che sono giunti là anche grazie al mio modesto contribuito.