I miei genitori consideravano don Dolindo a tutti gli effetti un fratello e un cognato. Per questo, la sua presenza mi fu subito familiare. Don Dolindo non mangiava mai a casa nostra, neppure in occasione delle feste, Natale, Pasqua, compleanni, piccoli ricevimenti per le Comunioni o le Cresime… C’erano torte, gelati, ma lui non toccava nulla. Una volta papà insistette: «Dai, assaggia qualcosa, prendi almeno una fetta di dolce, una bibita». E don Dolindo, portandosi col suo tipico gesto la mano allo stomaco, rispose come al solito: «No, grazie, io sto, sto bene». E mio padre, spazientito, quasi esasperato, sbottò: «Ma, almeno un bicchiere d’acqua, lo vuoi o no? Non prendi mai niente, niente, niente». Il motivo era la sua penitenza assoluta.
Approfittava di ogni occasione per fare qualche rinuncia, qualche privazione da offrire a Gesù. Noi abitavamo al quarto piano e quando don Dolindo andava via, papà gli diceva: «Aspetta, ti chiamo l’ascensore». Ma lui, pronto: «Ma quale ascensore, io tengo due macchine!». Si alzava la veste talare e mostrava le gambe: «Ecco, questa è la 600 e questa è la 1100!». Quando ero bambina e lui arrivava da noi, i miei genitori ci chiamavano subito: «Ragazzi venite, c’è padre Dolindo che ci dà la benedizione!». Noi, tutti e otto figli correvamo e ci mettevamo in ginocchio in assoluto silenzio. Era un momento solenne, molto sentito, che mi è sempre rimasto nel cuore.
Come mi sono rimasti nel cuore i tanti episodi di cui ho sentito parlare fin da piccola. Una mattina lo zio aveva visto un gruppetto di giovani prendersela animatamente contro la Chiesa, asserendo che i sacerdoti si arricchivano alle spalle della povera gente e maneggiavano molti più soldi delle famiglie perbene… E giù con offese veementi contro il clero. Allora don Dolindo, con il suo fare sempre un po’ ironico e umoristico, si alzò la sottana fino alle ginocchia e abbozzò un inchino, quasi da ballerino, per poi raddrizzarsi di colpo e dir loro: «Volete comperare queste mie calze?». Lui non le portava mai ed era una giornata freddissima in cui dal cielo pioveva nevischio. Quella comitiva rimase di sasso; filarono tutti via ammutoliti, con la testa china, visibilmente mortificati.
Don Dolindo non perdeva occasione per riportare al Pastore le pecorelle smarrite, ogni circostanza era buona per toccare i cuori e convertirli, espandendo l’amore di Gesù. Una volta stava salendo su un autobus e nella calca gli soffiarono il portafogli, una foderina di breviario, peraltro sempre e completamente senza soldi, in cui conservava dei biglietti con appunti, promemoria o indirizzi che potevano servirgli. Lo zio, anziché arrabbiarsi, si dispiacque per il ladro che aveva fatto una cosa cattiva e per giunta non aveva trovato denaro. Pensò allora di tenere nel nuovo portafoglio anche una lettera per il ladro, in cui gli esprimeva rammarico per non potergli offrire altro perché era povero, ma volentieri gli consigliava di avvicinarsi a Gesù, il solo che lo avrebbe reso veramente «ricco». Dopo qualche tempo una mano furtiva si infilò nuovamente nella tasca di don Dolindo… e la lettera, dunque, raggiunse il suo destinatario.
Nell’intenso amore per il sacerdozio ricopriva un posto fondamentale anche la predicazione alla quale lo zio si dedicava con indescrivibile slancio. Questo fu un altro aspetto importante rimasto inalterato nel suo ministero. Ho impresse nella mente le folle che venivano ad ascoltarlo a San Giuseppe dei Vecchi o in altre chiese dov’era chiamato a predicare: spesso dovevano lasciare le porte spalancate perché potesse sentirlo anche la gente assiepata all’esterno. Iniziava sempre a parlare a voce bassa, poi un fervore lo animava via via sempre più, specie quando parlava di Gesù o della Madonna. Rapiva letteralmente ogni cuore. Diventava straordinario, il linguaggio si elevava, si faceva solenne, gli occhi si accendevano di un fulgore strano, come se fosse sul punto di essere rapito in estasi.
Tutti questi particolari ce lo mostravano trasfigurato in un contrasto meraviglioso: da un lato la modestia della persona e l’umiltà dell’abito, dall’altro l’altezza della spiritualità e la vastità della cultura. Non c’è chiesa di Napoli che non l’abbia chiamato per una predica. A volte predicava fino a otto, nove volte in una sola giornata. Correva dappertutto fino a esaurirsi fisicamente, ma lo strano era che invece resisteva.
Eppure si contentava di una minestra quale unico pasto giornaliero, senza mai terminare l’intero piatto, e non dormiva che due ore per notte. Emma, la sorella, mi raccontò che vedendolo tornare a casa una sera rosso e alterato, gli misurò la febbre: la temperatura sul momento toccava i 41° gradi e mezzo, ma si abbassò di lì a breve… Evidentemente era il fuoco dell’amore per Gesù che ardeva in lui. Quel giorno aveva tenuto nove prediche!
Non solo le chiese, ma anche la sua casa ovviamente si gremiva quando lui predicava; e da lui accorrevano non solo il popolo, le anime semplici, ma anche persone autorevoli, gente di cultura e con ruoli sociali di prestigio. Tutti sentivano istintivamente che «quello lì» era un prete autentico che non parlava per mestiere o per mettere in mostra la sua erudizione, la sua bravura o per ottenere il vano plauso generale; e riconoscevano il sacerdote pieno di timor di Dio che viveva in intima comunione con Lui. Un amore sofferente e gigantesco come il suo comunicava alle anime la forza di una Presenza che trascina e travolge. E quando terminava, dalle panche partivano spontanei i battimani e i lanci di fiori che ricoprivano l’altare. Per me, non solo da bambina, questa era ogni volta un’emozione immensa, davvero indimenticabile.
Spesso le sue omelie contenevano preghiere stupende, invocazioni che gli scaturivano spontaneamente dall’animo, in palpabile comunione interiore con Gesù e Maria, ai quali, predicando, o tenendo le catechesi, si rivolgeva di continuo: «Sono un nulla in me, vieni Gesù, vieni in me e vivifica l’anima mia»; «Gesù effonditi nella mia anima»… Questo amore grande, pervadeva ogni sua cellula e si riversava sui presenti. Nonostante la figura minuta e fragile, sull’altare pareva un gigante e la sua voce, mentre tuonava sempre più, ti entrava nell’animo. «Trasformaci o Gesù», pregava. E spiegava che solo Lui, il Maestro poteva operare una «rinnovazione interiore di vita».
Il suo instancabile sforzo, durante le Messe, fu quello di far comprendere la grandiosità del dono eucaristico: «Quando riceviamo Gesù nel cuore, facciamo che l’anima nostra viva di lui». Troppe, troppe persone – diceva – fuggono via frettolosamente dopo la Comunione, o restano con i pensieri altrove, «come se non avessimo ricevuto nulla». Il Santissimo, entrato in noi, spesso resta lì, ignorato, non accolto, non amato, non considerato, in un silenzio dell’anima assordante. «Come possiamo invitare qualcuno a casa nostra e non rivolgergli neppure la parola? Si può ricevere una visita e restare muti? Siamo troppo taciturni con Gesù sacramentato che viene in noi», lamentava don Dolindo. Il Pane di Vita doveva accendere i cuori, vivificarli, trasformali da aridi in palpitanti d’amore, capaci di dialogare interiormente con il Signore, di porsi in autentica unione con Lui.
E questo, insisteva don Dolindo, era ancora più importante per i sacerdoti, per le anime consacrate. «Non si può negare un certo decadimento anche nelle comunità religiose», disse in un’omelia del 19 luglio 1958, «ma consacrarsi a Dio significa per prima cosa sceglierlo come oggetto unico del proprio amore». Senza questo trasporto, senza quest’amore, «ecco i pettegolezzi, ecco i dispettucci, ecco le mancanze di carità, ecco il peccato». Il senso dei voti, per don Dolindo, era una «dedizione completa a Dio», in mancanza della quale si andava incontro alla calunnia, alla mormorazione, all’invidia.
Raccontò una volta dal pulpito che a 14 anni, nel periodo del collegio si era, «con uno sforzo di fortezza», più volte alzato in refettorio tra i compagni per chiedere di non sparlare più di altre persone, «ma spesso avevo la peggio». E lo stesso aveva fatto anche con un insegnante che diceva cattiverie dei confratelli: «Padre, per favore spezzate questo discorso, è contro la carità». E quello si era levato dalla sedia: «Tu sei un ragazzaccio!». Purtroppo, le maldicenze che dilagano in seno al clero lo avrebbero colpito anche personalmente negli anni a venire. Ma tutto questo, con lucidità, don Dolindo lo riconduceva a un «agghiacciamento» dell’anima dovuto alla mancanza di vero, autentico, sfavillante amore per Gesù.
Tanti, spiegava ancora, desiderano le stigmate, le piaghe sanguinose e visibili, alcuni anche «con cuore generoso», ma noi dobbiamo chiedere a Gesù la stigmata del suo amore, di recare impresso su di noi il sigillo dell’amore con cui ci ha donato tutto se stesso per espanderlo sugli altri affinché si possa moltiplicare di cuore in cuore. Qual è la via per ricevere questa preziosa stigmata? «L’abbandono nella mente di Dio: Signore, pensaci Tu, io sono un povero nulla».
Grazia Ruotolo con Luciano Regolo «GESÙ, PENSACI TU» Vita, opere, scritti & eredità spirituale di don Dolindo Ruotolo nel ricordo della nipote