domenica 27 ottobre 2024

Messe... in scena

A proposito di messe in scena: non vi sembra che alcune realtà cattoliche abbiano cristallizzato in una propria liturgia le intemperanze carismatiche del primo post-Concilio?

In particolare: 

la gestione da parte dei laici della prima parte della celebrazione, con la mensa della Parola imbandita di "parole umane" nelle lunghe monizioni o introduzioni, e nelle omelie laicali nelle riflessioni o testimonianze prima (o al posto) dell'omelia del sacerdote; 

la concelebrazione: la comunità a tutti gli effetti concelebra con il sacerdote, assumendo insieme con lui il corpo di Cristo come fosse appunto un sacerdote concelebrante;

In alcuni casi: la forzatura della comunione sotto le due specie con un pane che non si può  conservare,  e quindi non può essere adorato nel Tabernacolo e nell'ostensorio né portato ai malati, come se la presenza di Gesù Cristo in corpo, sangue, anima e divinità fattosi per noi pane e vino si fermasse a quei momenti di distribuzione e "degustazione" comunitaria.

Ciò significa che alcune realtà cattoliche cosiddette carismatiche hanno consolidato i propri abusi liturgici e li vivono in una messa... in scena ancora così  come era stata pensata più di 60 anni fa.

A commento, un'immagine ed una didascalia del 1974, pubblicate da padre Pellegrino Santucci, ancora perfettamente  valide ed attuali.




 



lunedì 14 ottobre 2024

I santi protestanti

Come introduzione alla lettura di questo studio, richiamiamo quanto scritto nella Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II sulla Chiesa "Lumen gentium", di Papa Paolo VI, al paragrafo 50:

"La Chiesa di coloro che camminano sulla terra, riconoscendo benissimo questa comunione di tutto il corpo mistico di Gesù Cristo, fino dai primi tempi della religione cristiana coltivò con grande pietà la memoria dei defunti e, «poiché santo e salutare è il pensiero di pregare per i defunti perché siano assolti dai peccati», ha offerto per loro anche suffragi. 

Che gli apostoli e i martiri di Cristo, i quali con l'effusione del loro sangue diedero la suprema testimonianza della fede e della carità, siano con noi strettamente uniti in Cristo, la Chiesa lo ha sempre creduto; li ha venerati con particolare affetto insieme con la beata vergine Maria e i santi angeli e ha piamente implorato il soccorso della loro intercessione. 

A questi in breve se ne aggiunsero anche altri, che avevano più da vicino imitata la verginità e la povertà di Cristo e infine altri, il cui singolare esercizio delle virtù cristiane e le grazie insigni di Dio raccomandavano alla pia devozione e imitazione dei fedeli. Il contemplare infatti la vita di coloro che hanno seguito fedelmente Cristo, è un motivo in più per sentirsi spinti a ricercare la città futura (cfr. Eb 13,14 e 11,10); nello stesso tempo impariamo la via sicurissima per la quale, tra le mutevoli cose del mondo e secondo lo stato e la condizione propria di ciascuno, potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo, cioè alla santità. 

Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell'immagine di Cristo (cfr. 2 Cor 3,18), Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto. In loro è egli stesso che ci parla e ci dà un segno del suo Regno verso il quale, avendo intorno a noi un tal nugolo di testimoni (cfr. Eb 12,1) e una tale affermazione della verità del Vangelo, siamo potentemente attirati. 

Non veneriamo però la memoria degli abitanti del cielo solo per il loro esempio, ma più ancora perché l'unione della Chiesa nello Spirito sia consolidata dall'esercizio della fraterna carità (cfr. Ef 4,1-6). Poiché, come la cristiana comunione tra i cristiani della terra ci porta più vicino a Cristo, così la comunità con i santi ci congiunge a lui, dal quale, come dalla loro fonte e dal loro capo, promana ogni grazia e la vita dello stesso popolo di Dio. 

È quindi sommamente giusto che amiamo questi amici e coeredi di Gesù Cristo, che sono anche nostri fratelli e insigni benefattori, e che per essi rendiamo le dovute grazie a Dio, «rivolgiamo loro supplici invocazioni e ricorriamo alle loro preghiere e al loro potente aiuto per impetrare grazie da Dio mediante il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro, il quale solo è il nostro Redentore e Salvatore ». 

Infatti ogni nostra vera attestazione di amore fatta ai santi, per sua natura tende e termina a Cristo, che è « la corona di tutti i santi » e per lui a Dio, che è mirabile nei suoi santi e in essi è glorificato. La nostra unione poi con la Chiesa celeste si attua in maniera nobilissima, poiché specialmente nella sacra liturgia, nella quale la virtù dello Spirito Santo agisce su di noi mediante i segni sacramentali, in fraterna esultanza cantiamo le lodi della divina Maestà tutti, di ogni tribù e lingua, di ogni popolo e nazione, riscattati col sangue di Cristo (cfr. Ap 5,9) e radunati in un'unica Chiesa, con un unico canto di lode glorifichiamo Dio uno in tre Persone Perciò quando celebriamo il sacrificio eucaristico, ci uniamo in sommo grado al culto della Chiesa celeste, comunicando con essa e venerando la memoria soprattutto della gloriosa sempre vergine Maria, del beato Giuseppe, dei beati apostoli e martiri e di tutti i santi."

Ci  è caro inoltre richiamare quanto Papa Benedetto XVI scrisse nella sua enciclica Spe salvi: 

«Le nostre esistenze sono in profonda comunione tra loro (…). Nessuno vive da solo. Così la mia intercessione per l’altro non è affatto una cosa a lui estranea, una cosa esterna, neppure dopo la morte. Nell’intreccio dell’essere, il mio ringraziamento a lui, la mia preghiera per lui può significare una piccola tappa della sua purificazione (…) nella comunione delle anime viene superato il semplice tempo terreno. Non è mai troppo tardi per toccare il cuore dell’altro né è mai inutile.»

Tratto da: Stefano Cavallotto - Santi nella Riforma

Lo studio analitico di un aspetto particolare, quale quello agiografico (culto dei santi e scrittura agiografica), del complesso mutamento epocale che si è avviato in modo sempre più consistente nella cristianità occidentale tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento e che già a partire dagli anni Venti del XVI secolo è confluito in concreto anche se non interamente nel pluriforme movimento evangelico ci permette di tracciare alcune osservazioni conclusive.

Certo si tratta di considerazioni parziali, non avendo esteso la nostra indagine ai martirologi e alla letteratura agiografica di vario tipo della seconda metà del Cinquecento, e tuttavia pensiamo sufficienti per capire il senso stesso di questa imponente produzione martiriale avendo studiato qui una fase che potremmo definire costitutiva della transizione protestante verso una diversa devozione ai santi.

Bisogna riconoscere anzitutto che le prospettive agiografiche che si sono precisate e realizzate all’interno della Riforma per certi versi sono già presenti nelle critiche e nelle proposte innovatrici elaborate dall’umanesimo cristiano e in particolare da Erasmo: in effetti entrambi i movimenti ancorché in modi diversi sul piano teologico, dottrinale e disciplinare contestano e propongono il superamento di quella concezione e prassi di devozione ai santi assieme alla letteratura agiografica ad essa funzionale che genericamente abbiamo chiamato medievali. 

Da tale devozione/tradizione prende nettamente le distanze l’umanista olandese, stigmatizzando come inutile, idolatrica e superstiziosa ogni sua realizzazione che non abbia Cristo quale fondamento e che non tenda al suo servizio e alla conversione interiore. Perciò ritiene urgente un cambiamento profondo nella devozione ai santi che, pur non eliminandola per principio, la riporti tra le «cose secondarie» della vita cristiana e soprattutto la purifichi da quegli elementi che l’hanno ridotta ad una richiesta di protezione e di benessere materiale, obliterando che essa si esplica invece nell’imitare le virtù dei santi, nel praticare i loro insegnamenti e in definitiva nel portare il cuore alla philosophia Christi.

In altri termini occorre recuperare quel legame strettissimo che la genuina tradizione della chiesa ha posto tra devozione-imitazione-vita autenticamente cristiana. In tal senso Erasmo giunge a sostenere che nel numero dei santi non si entra tanto per una dichiarazione ufficiale del papa, ma per la bontà di Dio che elargisce i suoi doni ai santi e per la vita da costoro spesa evangelicamente e ad indicare da buon umanista che le loro vere reliquie e i miracoli più prestigiosi sono gli scritti. 

Di qui la critica pungente ai leggendari tradizionali e ai modelli agiografici da essi veicolati; a suo giudizio infatti gran parte delle historiae sanctorum sono da eliminare in quanto intrise di falsità, miracolismo ed esagerazione, mentre l’immagine di santo spesso è irreale e appiattita su aspetti ascetico-taumaturgici spinti sino all’inverosimile. Critica, che diventa anche proposta precisa di principi metodologici atti a rendere più credibile la scrittura agiografica e più plausibili le figure di santi sotto il profilo del buon senso, della fede e dell’efficacia emulativa e tentativo altresì di applicazione concreta ancorché non sempre coerente di tali principi. 

Proprio in questi tentativi di scrittura agiografica – messi in atto da Erasmo non tanto per rafforzare un culto ma per rispondere al bisogno di rinnovamento della cristianità del suo tempo e dunque volti a presentare figure di Padri della Chiesa e persino di persone viventi riconducibili in ultima analisi al modello del santo umanista o del santo vescovo dotto e riformatore – si effettua chiaramente il superamento della versione medievale del culto dei santi bollata come incapace di fare i conti con l’imprescindibile esigenza della veritas historica e della veritas evangelica, entrambe ritrovate grazie al nuovo metodo filologico-teologico (ad fontes), e in ultima analisi l’intento di favorire la riforma della cristianità. 

Un tale superamento – confinato però ai soli scritti erasmiani senza alcuna tangibile ricaduta sull’effettivo rinnovamento della vita religiosa a causa dell’opposizione romana – giunge a compimento attraverso un processo di radicalizzazione anti-istituzionale nella riforma disciplinare e liturgica delle chiese protestanti e, ancor prima, trova una sistemazione concettuale nell’elaborazione teologica dei riformatori, negli articoli dei testi confessionali e negli ordinamenti ecclesiastici. 

Ora, in ambito evangelico il patrimonio agiografico tradizionale viene passato al vaglio non soltanto del criterio dell’attendibilità storica, ma soprattutto del principo dottrinale sostanzialmente riducibile all’assunto della giustificazione per fede.
In concreto la devozione protestante verso i santi perde ogni forma di invocatio per caratterizzarsi semplicemente come memoria sanctorum: la prima infatti è abolita perché ritenuta apertamente in contrasto con la verità evangelica e fonte di superstizione idolatrica, mentre la seconda, pur collocata tra gli adiaphora della vita cristiana, è incoraggiata potendo essere di grande utilità per la comunità.

Del resto, la purificazione del culto non intende portare i seguaci della Riforma ad un disprezzo né ad una scarsa considerazione dei santi, ma a venerarli nella maniera giusta. E ciò è vero per tutte le forme di protestantesimo nella pluralità dei calendari e dei sistemi ecclesiastico-cultuali.

Concretamente le chiese, in particolare quelle luterane, già nei primi anni Venti decidono in piena autonomia e fatta salva la centralità assoluta del culto domenicale di celebrare le feste dei santi più importanti, facendone memoria in un giorno semi-festivo o alla domenica con la lettura della historia. La convinzione infatti è che gli esempi rettamente proposti possano servire come utili insegnamenti per il rinvigorimento della fede nella misericordia divina e della pazienza di fronte alle sofferenze. Anzi si potrebbe dire che lo stesso mantenimento di una rinnovata venerazione dei santi sia ultimamente funzionale proprio alla valorizzazione dell’esemplarità della vita cristiana di queste figure attraverso racconti agiografici opportunamente appurati. 

Oltre a ciò, i protestanti sono consapevoli che le historiae sanctorum non solo aiutano ad istruire le menti sui punti fondamentali della dottrina, ma offrono anche un’attestazione preziosa dell’auto-rivelazione di Dio e della sua conduzione della storia proprio «attraverso i santi». 

Nel celebrare quindi la loro memoria, anche liturgica, viene proposto un esempio da emulare con libertà di spirito e rimanendo ciascuno nel proprio stato di vita, giacché in fondo ciò che va imitato è l’esperienza fondamentale che i santi hanno fatto, essere stati cioè giustificati/salvati/beatificati per grazia in Cristo, e che hanno tradotto per quanto possibile in una vita coerente. Di quest’unica esperienza sono in fondo declinazioni gli altri aspetti esemplari della loro personalità (fede, sopportazione delle tribolazioni e fedeltà ai doni di Dio ed alla dottrina celeste; saggezza, timore di Dio e pazienza nell’amministrazione della cosa pubblica; innocenza e pietà verso Dio; ecc.). 

Di fatto, quello che più conta nel ricordarli attraverso i testi agiografici e nella predicazione non è la loro superstiziosa preghiera o presuntuosa ascesi e neppure sono i loro fantasiosi e bizzarri prodigi, ma unicamente gli esempi di fede e di timor di Dio nella vita privata e pubblica, di come hanno annunciato il vangelo e lottato per la verità.

Sul piano della religiosità vissuta tale passaggio porta le comunità evangeliche ad una modifica radicale del calendario liturgico. 

A tale proposito si può dire in generale che le feste dei santi previste dal vecchio santorale subiscano in tutto il mondo protestante da Amburgo a Ginevra, a Londra una drastica riduzione. In moltissime chiese sono conservate soltanto le festività degli Angeli (Michele), degli Apostoli, della Conversione di Paolo, della Maddalena e di Giovanni Battista, o anche – ma solo in pochissime – un giorno
memoriale dei martiri (Gedächtnis der Martyrer) o del santo della città. 

Il criterio poi che ne legittima la celebrazione è il fatto che la Scrittura conserva di loro una testimonianza/racconto, per cui la commemorazione liturgia si riduce in ultima analisi alla lettura della storia biblica da farsi o al mattino del giorno della ricorrenza durante la predica oppure la domenica successiva dopo il vangelo. Criterio da cui scaturiscono anche i motivi e i principi per una verifica rigorosa dei tradizionali testi agiografici (Heiligentexte). 

Sui leggendari il giudizio dei riformatori e delle singole chiese è in generale estremamente negativo. Ma se la letteratura agiografica medievale va eliminata nella sua globalità, quantunque Lutero stesso riconosca che ne esiste qualche frammento accettabile e da raccogliere opportunamente «ut fragmenta Evangelicae mensae», perché fonte di un culto idolatrico, oltre che veicolo di errori dottrinali, di fantasticherie e di menzogne incredibili – e di fatto in una prima fase le leggende e gli altri testi agiografici scompaiono quasi del tutto sia dalla liturgia sia dalla predicazione –, ciò non significa misconoscerne l’utilità se viene adeguatamente purificata: da più parti ci si lamenta che le azioni insigni dei «frommen Christen» e le testimonianze della misericordia di Dio nei loro confronti non siano ancora state raccolte sulla base di racconti validi, storicamente plausibili ma soprattutto «der Schrift gemäß». 

Relativamente poi ai modelli e alle tipologie di santo, che il mondo protestante è andato via via delineando e proponendo in questi primi decenni, in primo luogo viene rigettata in modo radicale ogni figura di intercessore, asceta, taumaturgo, soccorritore («Nothelfer»), molto accentuata dai leggendari medievali, a favore di un prototipo che si precisa invece quale testimone dei Magnalia Dei e martire della verità/dottrina evangelica. Nel culto si celebrano alcuni santi non solo perché ne esiste una narrazione biblicamente attestata, ma anche perché le loro figure e loro storie sono funzionali all’annuncio dell’Evangelo: così gli Angeli e il Battista sono messaggeri e precursori del Verbo divino (testes veritatis) e gli Apostoli e la Maddalena a loro volta sono beneficiari e annunciatori della grazia misericordiosa di Dio (testes gratiae). 

Si può dire quindi che la nuova devozione tenda a proporre un modello di santo intimamente rapportato alla Scrittura, intesa come rivelazione efficace dell’agire salvifico di Dio. 

Un recupero interessante, seppure solo accennato, è quello del santo vivente: gli esempi della sua vita ammirevolmente spesa in obbedienza all’Evangelo nel governo della società e della chiesa non sono meno preziosi di quelli del santo del cielo. Proprio questa caratterizzazione del vir sanctus impegnato nell’amministrazione della cosa pubblica, ma specialmente il costante invito ad emulare i santi «sed juxta propriam vocationem» ci sembra manifestino altre peculiarità del modello protestante di santità, vale a dire il suo essere da un lato per così dire pienamente secolare (inserito cioè nel mondo con funzioni e professioni secolari) e dall’altro per certi aspetti elitario (si tratta sempre di personalità eminenti). 

In concomitanza poi con le crescenti difficoltà interne ed esterne al protestantesimo viene a delinearsi anche una caratterizzazione di santo sempre più strettamente connessa con la testimonianza della verità e con la trasmissione della sana dottrina come quella di santo-strumento attraverso cui («durch») Dio si è rivelato e di santo-inviato (profeta e apostolo) e perciò di santo-Werkzeug per mezzo del quale la dottrina divina si è diffusa sulla terra (ed i cui insegnamenti ed esempi Dio esorta ad apprezzare), a cui bisogna aggiungere la rappresentazione del santo-figura esemplare di virtù capace di incoraggiare l’imitazione e del santo-esperimentatore dell’intervento salvifico e a volte miracoloso di Dio. 

A ben vedere però tutte queste varie tipologie confluiscono in un unico fondamentale prototipo che è il «frommer Mann», inteso semplicemente come l’uomo di fede (vivo o defunto che sia) e destinatario della giustificazione gratuita e della misericordia divina che quale testimone fedele della verità veicola lungo i secoli la dottrina rivelata e vive coerentemente ad edificazione della società e della chiesa. Di qui l’importanza straordinaria dei racconti agiografici rinnovati e purificati, che nel mondo evangelico (più marcatamente in ambito luterano) del XVI secolo acquistano di fatto un ruolo di primo piano accanto alla Scrittura per la formazione dei cristiani.

Nella nuova visione il modello di santo che finisce per prevalere, dando vita ad una copiosa e devota letteratura, è indubbiamente quello del martire, i cui lineamenti confermano gli approdi tipici dell’agiografia evangelica impegnata a presentare icone rigenerate di santità. Ci riferiamo in particolare alla connessione strettissima tra santità/Frömmigkeit e confessione della verità evangelica. 

In generale bisogna dire che la necessità di ricorrere ad una agiografia nuova si pone sia nel protestantesimo luterano che anabattista quasi subito, in concomitanza col martirio di alcuni seguaci di ambedue le confessioni. Ciò significa che le Flugschriften commemorative sono strettamente connesse per così dire all’attualità, celebrando i martiri protestanti uccisi in quegli anni, eccezion fatta ovviamente per Hus e Savonarola con i quali si apre un filone agiografico funzionale all’autolegittimazione storica della Riforma che si spingerà con le raccolte purificate di Bonnus, Major e Spalatino ai testimoni della fede della chiesa antica e troverà una sua sistemazione programmatica con i grandi martirologi di Rabus, Crespin, Foxe, Pantaleon e van Haemstede. 

Foxe: Book Of Martyrs. /Nadrian Chalinsky, A Protestant Clergyman, Burned To Death In Lithuania. Line Engraving, From A Late 18Th Century English Edition Of John Foxe'S 'The Book Of Martyrs,' First Published In 1563. Poster Print by Granger Collectio

 

E ancora, il legame all’attualità chiama in causa nel nostro caso un altro punto qualificante della rinnovata agiografia, la preoccupazione cioè di aderire ai fatti (veritas historica). In effetti, gran parte dei testi martiriali volanti (Märtyrerflugschriften) sono relazioni (Berichte) di testimoni oculari, in molti casi prive di intenzionalità edificante o agiografica, quando non sono addirittura verbali di processi. Né la stessa cornice teologico-agiografica in cui spesso tali resoconti sono inseriti modifica in modo rilevante la struttura originaria del testo, anche laddove l’intervento redazionale dell’agiografo si rivela più consistente. 

Per di più, qualora i racconti si presentino contraddittori o confusi o poco fedeli ai fatti, si interviene per verificare e discernere le varie fonti e presentare così alle chiese delle Geschichte storicamente più attendibili e documentate, capaci di fugare le accuse di falsità avanzate dagli avversari; un’operazione in realtà non sempre coerente e rigorosa, se si pensa agli errori di Lutero nella ricostruzione dei fatti intorno ai martiri di Bruxelles e all’assassinio di Winkler oppure alle forzature agiografiche e ideologiche di altri autori che proiettano il calco evangelico della Passio Christi sulla fine drammatica dei martiri protestanti o che “protestantizzano” Hus e Savonarola o ancora che si appropriano indebitamente di martiri non propri – com’è il caso degli anabattisti – per non parlare delle innumerevoli imprecisioni storiche riscontrabili persino nelle relazioni più accreditate. 

Ancora una considerazione riguarda la questione non marginale dell’uso effettivo di questi testi martiriali e con esso della loro natura e concreta finalità: non sappiamo esattamente se e in quale misura le historiae venissero utilizzate e lette non soltanto per l’edificazione personale e comunitaria – scopo per altro più volte espressamente dichiarato – ma anche per celebrare liturgicamente la memoria di tali eroi della fede, sebbene alcune attestazioni farebbero supporre un loro possibile uso comunitario nelle forme che abbiamo ipotizzato studiando la riforma del santorale e del calendario liturgico. 

Non c’è dubbio comunque che l’obiettivo ultimo dei racconti agiografici è per un verso mantenere vivo in mezzo alla comunità il ricordo del martire e del suo sacrificio estremo nel confessare la fede e per altro verso celebrare attraverso di esso i Magnalia Dei, lodare e ringraziare Dio e incoraggiare i cristiani a mantenere salda la fiducia nel beneficio divino della grazia giustificante nonostante le prove e le tribolazioni.

Certo i protagonisti di tale letteratura sono ovviamente i vari Vos, van Esschen, von Zütphen, Kaiser, Winkler, Barnes e il loro martirio, nella diversità delle vicende e dei tratti personali, ma ciò che canonizza sul piano agiografico l’esempio e la storia loro o di altri eroi evangelici e rende preziosa per le comunità la loro memoria è la confessio fidei proclamata coraggiosamente con l’effusione del sangue oppure vissuta coerentemente, come nel caso di Spengler, nella quotidianità dell’impegno familiare, politico ed ecclesiale sino al momento della morte. 

Si potrebbe dire anzi che proprio tale riferimento unifichi le molteplici figure in un solo modello che è quello del martyr-testis-confessor veritatis. Lo dimostrano in modo inquivocabile tutte le historiae analizzate, dove il resoconto del processo con la citazione scrupolosa degli articoli dottrinali contestati, difesi e condannati e la conseguente professione della verità da parte del martire costituiscono assieme al racconto sui patimenti e la morte il momento centrale di tutta la narrazione, per cui gli stessi aspetti biografici passano in secondo piano. In effetti, è simile strettissimo legame con la pura doctrina Christi che secondo Lutero e gli altri evangelici conferisce rilevanza agiografica alla historia del singolo «frommer Christ», e quindi la loro funzione è di perpetuare nel tempo a lode di Dio la memoria confessante. 

Lo stesso sfondo storico-teologico su cui i vari opuscoli collocano l’icona del martire o dell’uomo di Dio prende le mosse da tale concezione: a ben vedere si tratta della lotta senza quartiere da sempre in atto nella storia tra Parola di Dio e suoi nemici/Anticristo, giunta ormai al culmine col conflitto tra protestantesimo e papato, sicché nel «guter Märtyrer Christi» e nel suo martirio viene a realizzarsi, nonostante le apparenze contrarie
della sconfitta e della morte, la vittoria del puro vangelo e la prova concreta e certa che Dio guida la Riforma e continua ad operare in
essa i suoi prodigi. 

Il tipo di santo dunque veicolato da tale scrittura agiografica è sostanzialmente un eminente e perciò venerabile testis veritatis, non immune certo da difetti e manchevolezze ma fornito di virtù esemplari quali appunto la fedeltà tenace, l’accettazione serena delle tribolazioni e della morte e la fiducia assoluta nella grazia giustificante, e come tale molto diverso rispetto al modello elaborato e proposto dai leggendari medievali. 

Persino gli scritti che abbiamo definito di agiografia “rovesciata” e in particolare quelli relativi alla mitizzazione dell’Hercules Germanicus confermano in ultima analisi questa impostazione. La stessa “canonizzazione” della figura di Lutero, al di là delle esagerazioni dovute al pathos epico e all’enfasi retorica, non è basata su eventi miracolistici o sull’ascetismo o sul potere intercessorio del riformatore ma unicamente sulla sua conformazione a Cristo in quanto inviato da Dio col compito di rimettere in luce e tornare a predicare il puro Vangelo contro l’Anticristo (nemico della parola di Dio) e perciò profeta escatologico ed eroe nazionale. 

La santità e l’esemplarità della sua vita intessuta di lotte e di sofferenze, oltre che di manchevolezze personali, si misura dunque sulla base di tale altissima missione, bene espletata per altro come sta a dimostrare la pia morte. Insomma, Lutero incarna il prototipo del campione della verità, i cui lineamenti personali finiscono per identificarsi con i tratti propri del suo ministero e persino per sfumare nei contorni della causa Christi. Di qui la consapevolezza che celebrarlo significa nel concreto ringraziare Dio per i benefici elargiti alla chiesa attraverso la sua persona e la sua predicazione e nel contempo rinnovare l’annuncio fedele dell’Evangelo della grazia,
spingendo i cristiani di ogni tempo all’emulazione e all’edificazione reciproca. 

In quest’ottica la stessa ricostruzione ed esecrazione di modelli negativi quali Müntzer o Spiera si incentrano sostanzialmente sul loro tradimento della retta dottrina.

Accanto a questa produzione legata agli eroi-santi del protestantesimo delle origini, si sente anche il bisogno, in particolare da parte di Lutero e degli altri riformatori luterani, di rimettere in circolazione tra le chiese una serie di testi che ripropongano in forma purificata figure di santi appartenenti ai primi secoli della chiesa. 

A tale riguardo si può dire che l’operazione realizzata negli anni Trenta-Quaranta da Bonnus, Major e Spalatino (Melantone non rimanda in modo esplicito a specifici scritti o legendae della tradizione agiografica) si concretizzi nella redazione e nella pubblicazione di una serie di raccolte molto simili agli specula exemplorum, nelle quali per l’appunto vengono collezionati sia profili di santi Padri dei primi secoli sia esempi e insegnamenti relativi sempre a queste figure, in entrambi i casi però destinate a scopi pastorali o di edificazione personale. 

Ciò significa che l’intento agiografico non è prevalente, sebbene non possiamo escludere un uso persino liturgico di questi testi proprio in connessione con la predicazione e la catechesi. In altri termini, non servono per alimentare un culto ormai abolito, ma per mantenere viva in una rinnovata devozione la memoria di modelli eminenti della vita della chiesa antica a sostegno delle chiese evangeliche. 

Si aggancia qui l’altra finalità che ci sembra orientare queste raccolte, e cioè quella apologetica: proprio perché le varie historiae opportunamente ripulite vengono incentrate ultimamente sulla verità dell’Evangelo della grazia accolta, predicata, difesa e testimoniata quasi sempre sino all’effusione del sangue, legittimano di fatto – spesso con richiami espliciti – sul piano teologico e stori-
co il movimento protestante, che quella verità ha rimesso in auge.

L’obiettivo dell’auto-legittimazione storica appare evidente nelle digressioni di natura teologica, pastorale, morale e pedagogica e nei riferimenti all’attualità che i vari autori spesso introducono nel corpo della narrazione.
Ciò che ha messo in moto e incoraggiato l’impegno a recuperare attraverso un attento lavoro di bonifica tutto questo materiale agiografico e storiografico tradizionale è la convinzione che mostrare esempi positivi di fedeltà alla vera dottrina e di vita autenticamente cristiana serva a rendere più persuasivo lo stesso annuncio del vangelo. 

Si tratta in effetti di non lasciare perdere – dopo che Satana ha «insozzato» le Legendae sanctorum con falsità e bugie – un patrimonio preziosissimo di exempla e di dicta et facta; un’operazione questa portata avanti in concreto dai vari autori sulla base di criteri verificativi atti a guidare la prudente purificazione delle legendae da tutti gli elementi ritenuti inaccettabili sul piano della dottrina e della verità storica oltre che del buon senso e in coerenza con la nuova impostazione di scrittura agiografica ispirata ai principi della Riforma. 

E così l’interesse di Bonnus e degli altri si rivolge unicamente ai docentes verbum Dei o ai testes veritatis nell’esercizio concreto del loro ministero di annunciatori, confessori e testimoni, ritenendo del tutto secondario il racconto della loro vita e delle loro virtù private e persino della modalità della loro morte. 

Per i nostri autori ciò che conta è la celebrazione di quella dottrina e di quella fede che i santi hanno professato in vita e in morte e per il cui tramite sono stati salvati. E dunque, non sono per nulla l’ascetismo, la forza taumaturgica e il potere intercessorio gli aspetti esemplari da commemorare o celebrare, ma soltanto il loro costante e fedele riferirsi alla verità nell’esercizio concreto della fede, del ministero della Parola e della testimonianza. In quasi tutti i casi i racconti recuperati si concentrano sul momento confessante del personaggio il cui culmine è la testimonianza/confessione pubblica della verità di Cristo. Gli stessi elementi biografici più significativi sono selezionati proprio sulla base del loro rapporto con la parola di Dio. In un certo senso la verità dottrinale diventa il criterio per accertare la stessa attendibilità storica di una narrazione. 

Ciò spiega anche perché l’interesse agiografico si rivolga unicamente a quelle figure che appartengono alla chiesa dei primi secoli: tale periodo infatti costituisce il momento più alto del cristianesimo a cui occorre ritornare per ritrovare il vangelo autentico.
La necessità della ricerca del fondamento biblico condiziona a monte anche la scelta del materiale agiografico. Secondo i nostri autori la preferenza deve andare alle historiae tramandate dalle Sacre Scritture proprio perché più sicure riguardo alla dottrina e ai fatti. 

Ciò non significa però che non si possa attingere ad altre fonti, come quelle storiche della chiesa antica, ritenute per altro più attendibili rispetto ai leggendari tradizionali; in tal caso però occorre passarle al vaglio della «regula seu analogia fidei». Sempre a proposito dei lineamenti dei prototipi che le historiae si prefiggono di restituire ai loro tratti originari e autentici vale la pena rilevare come le raccolte da un lato non manchino di mostrare, in conformità per altro con un orientamento che abbiamo visto essere di tutta l’agiografia protestante, che i santi sono stati degli uomini e così sono rimasti sempre, soggetti quindi alla debolezza e al peccato, e che soltanto nella grazia di Dio essi hanno trovato la salvezza; dall’altro spingano ad un’imitazione che non deve essere la riproposizione pedissequa e goffa di un modello ma l’incarnazione e l’adattamento allo stato di vita proprio di ciascuno di un atteggiamento e di un’esperienza esemplari riconducibili in fondo all’accoglienza nella fede della grazia giustificante senza con ciò ignorare altri aspetti comunque edificanti e degni di essere emulati di quelle personalità come ad esempio la vocazione pubblica (ecclesiale e secolare), i carismi e altro ancora. 

Dei miracoli, infine, che qualora siano accaduti i nostri autori non disdegnano di raccontare (mai però quelli post-mortem) sebbene in maniera molto sobria e misurata, le raccolte offrono un’interpretazione in linea con i principi evangelici: essi non sono tanto la dimostrazione della forza taumaturgica dei santi, ma la testimonianza della loro appartenenza per dono divino alla chiesa di Cristo; appartenenza di fatto già confermata dalla confessione della retta dottrina. Del resto con la loro vita di giustificati per grazia e la morte confessante i santi sono la prova che Dio è presente in mezzo alla sua chiesa e ne dirige provvidenzialmente la storia nel solco della verità del vangelo. 

Quanto fin qui compendiato sta a dimostrare che in realtà la vicenda dell’agiografia nel periodo che abbiamo preso in considerazione con particolare riferimento al protestantesimo non registra affatto né a livello di prassi devozionale né di elaborazione di testi agiografici una sorta di vuoto quasi che dall’eliminazione del tradizionale culto dei santi nelle giovani comunità evangeliche negli anni Venti-Trenta si passi direttamente alla pubblicazione dei martirologi protestanti negli anni Cinquanta. 

Al contrario è possibile registrare – ed è il senso, la ragione e il proposito di questo nostro studio – tutto un intenso e complesso processo di transizione teologico-concettuale e liturgico-devozionale non solo nella venerazione dei santi ma anche nella letteratura agiografica; un processo, i cui approdi sul piano concreto della nuova devozione e altresì dei metodi, delle finalità e dei compiti della nuova scrittura agiografica ci sembrano imprescindibili per poter avviare un’analisi corretta e approfondita di quel fenomeno che si manifesterà a partire dagli anni Cinquanta in poi con la pubblicazione di tutta un serie di testi martiriali o anche genericamente agiografici.

 

Tratto da: Stefano Cavallotto - Santi nella Riforma




 

domenica 13 ottobre 2024

Come si concilia il professare il valore delle antiche tradizioni orientali con il non accordare un uguale rispetto alle proprie?

Le Chiese orientali

La conservazione e la promozione in Occidente dell’antica tradizione liturgica occidentale ha rilevante importanza per i cristiani di altre antiche tradizioni liturgiche, sia di quelle che sono in piena comunione con la Santa Sede sia di quelle che non lo sono. Il rispetto per il rito romano classico e il suo continuo uso è un necessario corollario pratico della costante politica ufficiale della Santa Sede di rispetto per la tradizione delle Chiese orientali.


La promozione dell’unità e il rispetto per le tradizioni orientali.
Papa Leone XIII chiarì e sottolineò l’attitudine appropriata di rispetto per i riti orientali, specialmente nella sua enciclica Orientaliun Dignitas (1894). Parlando della Santa Sede in relazione alle Chiese orientali, egli dichiara:
Né trascurò mai di vigilare affinché in quei popoli si conservassero sempre integre le consuetudini loro proprie e le forme dei sacri riti, che essa nella sua sapienza e potestà aveva riconosciute legittime.
E ancora:
In quanto la conservazione dei riti orientali è più importante di quanto si creda. In verità la veneranda antichità, onde quelle varie forme di liturgia si nobilitano, torna di grande ornamento a tutta la Chiesa, e afferma la divina unità della fede cattolica. Infatti, mentre sempre più si comprova l’origine apostolica delle principali Chiese d’Oriente, appare contemporaneamente e risplende l’intima unione che le strinse fin dai primordi con la Chiesa Romana.

 
Le disposizioni concrete dell’enciclica sono volte a invertire il processo di “latinizzazione” dei cattolici orientali sia con la sostituzione totale o parziale di riti orientali con il rito latino sia con l’assorbimento di singoli o gruppi di cattolici di rito orientale nel rito latino, procedure che talora, in passato, erano state approvate dalla Santa Sede.
Come più di recente ha osservato la Congregazione per le Chiese orientali:
Questi interventi risentivano di mentalità e convinzioni proprie del tempo, secondo le quali si percepiva una certa subordinazione delle liturgie non latine alla liturgia del rito latino che veniva considerato “ritus praestantior”. Ciò può aver comportato interventi sui testi liturgici orientali che oggi, alla luce degli studi e del cammino teologico, abbisognano di revisione, nel senso di un  ritorno alle avite tradizioni (Istruzione Il Padre incomprensibile, 24).


Il linguaggio di Papa Leone XIII trova uno stretto parallelismo nel  decreto Orientalium Ecclesiarum del Concilio vaticano secondo che va oltre, prevedendo una purificazione dei riti orientali dagli elementi latini che li hanno colonizzato, con risultati infelici :
Tutti gli orientali sappiano con tutta certezza che possono sempre e devono conservare i loro legittimi riti e la loro disciplina, e che non si devono introdurre mutazioni, se non per ragione del proprio organico progresso. Pertanto, tutte queste cose devono essere con somma fedeltà osservate dagli stessi orientali, i quali devono acquistarne una conoscenza sempre più profonda e una pratica più perfetta; qualora, per circostanze di tempo o di persone, fossero indebitamente venuti meno ad esse, procurino di ritornare alle avite tradizioni (Orientalium ecclesiarum, 6).

Il Concilio, inoltre, riconobbe che le diverse tradizioni dell’Oriente preservavano visioni teologiche valide per la Chiesa intera:

Ciò che sopra è stato detto circa la legittima diversità deve essere applicato anche alla diversa enunciazione delle dottrine teologiche. Effettivamente nell’indagare la verità rivelata in Oriente e in Occidente furono usati metodi e cammini diversi per giungere alla conoscenza e alla confessione delle cose divine. Non fa quindi meraviglia che alcuni aspetti del mistero rivelato siano talvolta percepiti in modo più adatto e posti in miglior luce dall’uno che non dall’altro, cosicché si può dire che quelle varie formule teologiche non di rado si completino, piuttosto che opporsi (Unitatis redintegratio, 17). 

Gli stessi sentimenti e linea di azione furono ripetuti da Papa Giovanni Paolo II nella sua appassionata lettera apostolica Orientale Lumen, emanata nel centenario di Orientalium Dignitas. Egli chiedeva: «pieno rispetto dell’altrui dignità, senza ritenere che il complesso degli usi e consuetudini della Chiesa latina fosse più completo o più adatto a mostrare la pienezza della retta dottrina» (Orientale Lumen, 20).

L’importanza di questa linea per le relazioni con le chiese ortodosse fu sottolineata dal Concilio vaticano secondo. Orientalium Ecclesiarum disponeva che i cattolici orientali promuovessero l’unità con le altre chiese cristiane orientali, con, fra le altre cose, «la religiosa fedeltà alle autentiche tradizioni orientali» (24).

Ciò fu ripetuto dall’istruzione della Congregazione per le Chiese orientali Il Padre incomprensibile del 1996:
In ogni sforzo di rinnovamento liturgico si dovrà pertanto tenere conto della prassi dei fratelli Ortodossi, conoscendola, stimandola ed allontanandosene il meno possibile per non accrescere le separazioni esistenti (21).

Questo passaggio richiama una ben nota espressione di Papa Pio X: la liturgia dei cattolici di rito non latino a seguito del ritorno
alla piena comunione con la sede di Pietro non avrebbe dovuto essere «né più, né meno, né diversamente» (nec plus, nec minus, nec aliter) (1) .

La riforma liturgica latina.
La riforma liturgica che ebbe luogo dopo il Concilio vaticano secondo modificò il rapporto con i riti orientali.
Le persistenti tendenze alla latinizzazione avrebbero dovuto basarsi, da allora in poi, sui riti riformati che in diversi modi si erano ancor più allontanati dagli autentici principi liturgici orientali oltre all’antica tradizione liturgica latina.

Inoltre, le motivazioni teologiche comunemente date a sostegno della riforma e la forza della convinzione  con cui venivano sostenuti molti abusi liturgici ad occidente furono spesso tali da far intendere più che chiaramente che si riteneva che fossero le pratiche orientali tradizionali ad essere gravemente errate o difettose.
Per esempio, la riforma latina vide il quasi universale abbandono della tradizione dell’orientamento liturgico, cioè della celebrazione della  Messa con il sacerdote che si rivolge all’oriente liturgico: il che comporta che (tranne un minimo numero di chiese che fanno eccezione) il celebrante sia rivolto nella stessa direzione dei fedeli ("ad orientem").
La promozione di questo cambiamento, che non era stato discusso dal Concilio vaticano secondo e non è mai stato obbligatorio nella Chiesa latina, è stato accompagnato da una polemica contro la pratica tradizionale che venne sprezzantemente descritta come «il prete che dà le spalle al popolo». Questa polemica non è sostenuta nei documenti ufficiali della chiesa ed è stata spesso criticata, in modo rilevante da Joseph Ratzinger (2).

Essa è nondimeno molto diffusa ed è chiaramente applicabile alla tradizione della celebrazione ad orientem nei riti orientali.
La Congregazione delle Chiese orientali ha ritenuto necessario affrontare l’argomento:
Non si tratta in questo caso, come spesso viene ripetuto, di presiedere la celebrazione volgendo le spalle al popolo, ma di guidare il popolo nel pellegrinaggio verso il Regno, invocato nella preghiera sino al ritorno del Signore. Tale prassi, minacciata in non poche Chiese orientali cattoliche per un nuovo, recente influsso latino, ha dunque un valore profondo e va salvaguardata come fortemente coerente con la spiritualità liturgica orientale (Il Padre incomprensibile, 107).


In modo simile, la stessa istruzione trova necessario difendere la tradizione orientale di far distribuire la s. comunione da parte dei chierici; un digiuno eucaristico più lungo che quello in vigore oggi nella Chiesa latina; un orientamento penitenziale della liturgia; l’uso dell’arte sacra e delle forme architettoniche tradizionali per le chiese. Tutte queste sono caratteristiche della tradizione liturgica latina che sono state oggetto di critiche, disprezzo ed anche di messa in ridicolo nel corso del dibattito sulla riforma liturgica.

Un documento precedente della Congregazione delle Chiese orientali, l’istruzione Osservazioni su «L’ordine della santa Messa della Chiesa di rito siro malabarese 1981» del 1984, offre ancora altri esempi dello stesso fenomeno. Si fa riferimento alla diffusa critica teologica della preghiera silenziosa nella liturgia:
Si è detto talora che ogni preghiera liturgica dovrebbe essere pronunciata ad alta voce così che ognuno possa sentirla. Questo principio è falso sia storicamente sia liturgicamente. Alcune preghiere sono destinate specificamente ad essere pronunziate durante il canto, o in processione, o durante altre azioni del popolo, oppure sono apologie per il celebrante. Così come il clero non deve contare tutto quello che conta il popolo, anche il popolo non deve udire tutte le preghiere. Invero, recitare ad alta voce tutte le preghiere interrompe il fine proprio della struttura del culto.

 
L’attacco contro la preghiera silenziosa nella Messa è anche fortemente contrastato da Ratzinger (3). Esso non è in nessun modo parte della teologia ufficiale della riforma post conciliare, ed in effetti il messale del 1969 contiene non poche preghiere sacerdotali silenziose. E’ nondimeno vero che la riforma e la sua applicazione hanno spostato la pratica della Chiesa latina molto lontano dalle preghiere silenziose e questo ha aperto una polemica teologica in ragione del fatto che tali preghiere escluderebbero erroneamente il fedele della partecipazione liturgica.
Le Osservazioni indicano ai vescovi della Chiesa siro-malabarese di resistere alle tendenze latinizzanti che introdurrebbero preghiere non prescritte nel loro rito, la proclamazione delle Scritture da un leggio invece che dall’altare, processioni offertoriali sovraccariche e preghiere offertoriali spontanee.
Su quest’ultimo tema, nota il documento, in
relazione agli esperimenti liturgici nella Chiesa latina: «Non vi è bisogno di imitare gli errori degli altri».

Un parallelo generale fra le tradizioni liturgiche orientali e il rito romano classico è
l’approccio alla partecipazione che non dipende dal vedere tutte le azioni del celebrante o ascoltare tutte le sue parole. Come notò Giovanni Paolo II: «Il tempo prolungato delle celebrazioni, la ripetuta invocazione, tutto esprime un progressivo immedesimarsi nel mistero celebrato con tutta la persona» (Orientale Lumen, 11).


Il ruolo dell’usus antiquior del rito romano.
Le polemiche teologiche correnti contro
aspetti della tradizione liturgica comune della
Chiesa, e contro la stessa nozione di tradizione, minano il programma di conservazione e resistenza indicato dal Concilio vaticano secondo e minano altresì le dichiarazioni di rispetto per le tradizioni dei cristiani orientali che non sono in comunione con Roma. Alle domande che sorgono per i liturgisti e per tutti i cattolici del rito latino (la tradizione liturgica ha pregi? è concetto utile e capace di indirizzare l’azione?) la risposta non può essere «sì» per l’Oriente e «no» per l’Occidente latino.
Come si esprime Il Padre incomprensibile:
Il primo dovere di ogni rinnovamento liturgico
orientale, come accadde anche per la riforma liturgica in Occidente, è quello di riscoprire la piena fedeltà alle proprie tradizioni liturgiche, fruendo della loro ricchezza ed eliminando ciò che ne abbia compromesso l’autenticità.
Questa cura non è subordinata ma precede il cosiddetto aggiornamento (18).

E’ semplicemente impossibile riconoscere con convinzione il valore delle tradizioni liturgiche dell’Oriente e rigettare i loro analoghi occidentali, non solo perché le pratiche liturgiche tradizionali in questione sono nel dettaglio in molti casi identiche, ma perché il concetto stesso di tradizione è in questione.
Papa Giovanni Paolo II indicò che era precisamente qualcosa per la maggior parte perduta in Occidente che è di valore permanente e contemporanea in Oriente:
Spesso oggi ci sentiamo prigionieri del presente; è come se l’uomo avesse smarrito la percezione di far parte di una storia che lo precede e lo segue. A questa fatica di collocarsi tra passato e futuro con animo grato per i benefici ricevuti e per quelli attesi, in particolare le Chiese dell’Oriente offrono uno spiccato senso della continuità, che prende i nomi di Tradizione e di attesa escatologica (Orientale Lumen, 8).
In una risposta a un giornalista russo, Papa Francesco fu ancora più chiaro sul punto:
Nelle chiese ortodosse, hanno mantenuto la precedente liturgia che è così bella. Noi abbiamo perso qualcosa del senso di adorazione. Gli ortodossi lo hanno conservato: Lodano Dio, adorano Dio, cantano, il tempo non conta. Dio è al centro, ed io vorrei dire, visto che lei me lo chiede, che questa è una ricchezza (4).
Solo quando l’usus antiquior trova luogo nell’ordinaria vita liturgica delle parrocchie e diocesi, con il sostegno visibile di vescovi e preti, i principi teologici male intesi che abbiamo ricordato, possono essere separati, agli effetti pratici, dall’indirizzo ufficiale della Chiesa. Di più, quando i cattolici hanno esperienza di quelle forme del rito romano essi sono molto più capaci di comprendere il valore dei riti orientali, la natura della partecipazione del laicato in essi e il valore della tradizione liturgica in sé. 

Come segnalava Papa Benedetto XVI nella sua Lettera ai vescovi del 2017:
Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto.
Lo stabilimento di comunità di cattolici di rito non latino in Stati ove domina l’eredità del rito latino dà ulteriore forza a queste considerazioni. In quel contesto, Papa Giovanni Paolo II raccomandava che i cattolici di rito latino prendessero familiarità con la liturgia dei loro fratelli orientali:
Credo che un modo importante per crescere nella comprensione reciproca e nell’unità consista proprio nel migliorare la nostra conoscenza gli uni degli altri. I figli della Chiesa cattolica già conoscono le vie che la Santa Sede ha indicato perché essi possano raggiungere tale scopo: conoscere la liturgia delle Chiese d’Oriente
(Orientale Lumen, 24).
La liturgia latina tradizionale può in molti modi essere il ponte per raggiungere la comprensione che egli desiderava.


In questo contesto, non sorprende che Summorum Pontificum fosse ben ricevuta dall’allora patriarca di Mosca, Alessio II. Come riferì l’agenda Zenit all’epoca:
L’impulso di Benedetto XVI per permettere una più ampia celebrazione del Messale romano del 1962 ha ricevuto una positiva reazione del patriarca di Mosca Alessio II. «Il recupero e la valorizzazione dell’antica tradizione liturgica è un fatto che salutiamo positivamente», ha detto Alessio II al quotidiano italiano «Il Giornale». La lettera apostolica di Benedetto XVI Summorum Pontificum emanata in luglio contiene nuove norme che permettono l’uso del messale del 1962 come forma straordinaria della celebrazione liturgica.
«Noi teniamo con molta forza alle tradizioni», ha continuato Alessio II. «Senza la fedele custodia della tradizione liturgica, la chiesa ortodossa russa non avrebbe potuto resistere alla persecuzione».
I cattolici di rito latino non possono attendersi di essere presi sul serio quando professano il valore delle antiche tradizioni dei riti orientali, se essi non accordano un eguale rispetto alla loro propria tradizione.


Titolo originale: Position Paper: Eastern Churches, in «Gregorius Magnus», 13, Summer 2022, pp. 44-46;

NOTE

(1) Pio X usò la frase nella prima parte del 1911 in un’udienza privata con Natalia Ushakova, riferendosi alle proposte di latinizzazione che erano discusse nella comunità cattolica russa.

(2) Ratzinger, Spirit of the Liturgy, 80-81.

(3) Ratzinger, Spirit of the Liturgy, 213-16

(4) Papa Francesco, Viaggio apostolico a Rio de Janeiro, 28ª giornata mondiale della gioventù, conferenza stampa nel
viaggio di ritorno, 28 luglio 2013

 

venerdì 11 ottobre 2024

IL LATINORUM (padre Pellegrino Santucci)

IL LATINORUM 

Di Pellegrino Santucci
Tratto da: "Il lievito dei Farisei. Una polemica del nostro tempo"
Legal Editrice 1977


«Se i misteri sono nascosti ai sapienti e sono svelati invece ai piccoli e ai lattanti è meglio cercare con ardore l’irragionevolezza e l'ignoranza. La grande trovata di Cristo è quella di aver nascosto ai saggi il raggio della scienza per svelarlo alle persone insensate ed infantili».

(Porfirio)


«Non assistevo a una messa da almeno un quarto di secolo... E poiché era la prima volta che la sentivo in italiano, mi abbandonai a riflessioni sulla Chiesa, la sua storia, il suo destino. E cioé il suo passato splendore, il suo squallido presente, la sua inevitabile fine. Sotto specie estetica, credevo: ma c'era invece in quel che andavo disordinatamente pensando, qualcosa di più remoto ed oscuro; qualcosa di più pericoloso. Un fondo di disagio, di apprensione: come in chi, partendo, appena partito, sente di aver dimenticato o smarrito qualcosa, e non sa precisamente che. Ma a voler confessare pienamente e magari in eccesso, quello stato d'animo: mi sentivo un po’ defraudato e sperduto. Quell’immobile macigno cui mi ero, nemico, affilato per anni; quel macigno di superstizioni e di paure, di intolleranza, di latino: eccolo friabile e povero, come la zolla più povera. Ricordavo ancora (a diecî anni avevo servito messa) certi passi della messa în latino: e li confrontavo all'italiano cul erano stati ridotti: propriamente ridotti, e anche nel senso di quando si dice com'è ridotto il tale: “L'acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di Colui che ha voluto assumere la nostra natura umana”. Che insulsa dicitura, da far pensare a quegli esseri insulsi che a tavola allungano il vino con l'acqua.

« “Deus, qui humanae substantiae dignitatem mirabiliter condidisti, et mirabilius reformasti: da nobis per huius aquae et vini mysterium, eius divinitatis esse consortes, qui bumanitatis nostrae fieri dignatus est particeps, Jesus Christus Filius tuus Dominus noster: Qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus: per omnia saecula saeculorum": dov'era ormai il senso di queste parole e, al di qua al di là del senso, il mistero?» 

(Leonardo Sciascia - «Todo Modo» -  Torino - 1974, pag. 24-25).

A Sciascia su « La voce del CNADSI » (A. XIII) fa eco Luigj Alfonsi:

..."Il latino era per la Chiesa uno degli elementi del mistero divino, senza cui Essa non è tale, sì da sollecitare contro di sé l'apertura delle “portae inferi”».
«Il latino, come ben sintetizzò quel grandissimo latinista ebreo — “anima plus quam christiana” — che fu E. Norden, è la lingua della preghiera sobria, precisa, responsabile e insieme consapevole dell’abisso del mistero».
«Come vedere nello scolorito italiano le grandi tremende parole latine, piene di storia e di “mistero” dignitas, divinitas, humanitas, evocanti il destino dell'uomo ‘‘ascendente’’? ».

Nel suo severo e profondo studio «Lingua e Fede», il latinista Giov. Battista Pighi precisa il discorso in termini di storicità e di fede vissuta:

«L'antica Messa, orante e adorante, aveva bisogno, non già d'una lingua che il popolo capisse, com'è stato disonestamente detto, ma d'una lingua che parlasse a Dio; ossia che, con la sua arcaica gravità e novità rispetto alla parlata d'ogni giorno, rendesse l'idea della riverenza che la creatura deve al suo Creatore. Per ragioni storiche, la Chiesa cattolica usava il latino, il siriano, il greco bizantino, l’armeno, lingue tutte entrate molto anticamente nell'uso liturgico, e perciò incomprensibili per i moderni fedeli di rito latino, maronita, greco e armeno. Inoltre l'antica Messa del silenzio mistico e della fede aveva, per quanto riguarda il fedele, un bisogno limitato della parola, ch'era affidata al celebrante. Il quale poi, quando durante il rito doveva rivolgersi liberamente ai fedeli, usava senz'altro la lingua volgare. E di ciò la Chiesa aveva preso atto, non già per merito dei moderni riformatori, ma per decisione del concilio di Tours dell'813: “visum est ut omelias quisque aperte transferre studeat in rusticam Romanam linguam aut Thiotiscam, quo facilius cuncti possint intelligere quae dicuntur

«È invece perfettamente logico che la nuova Messa, didattica, a cui l'assemblea partecipa, in cui la preghiera è atto umano, da cui il silenzio è bandito, abbia bisogno d'una lingua che tutti capiscano, o almeno credano di capire. Ed è altrettanto logico che l'antica musica, sia monodica sia polifonica, sia popolare sia dotta, in cui la parola si dissolve per diventare una mera forza spirituale come via ascetica al puro pensiero, sia stata esclusa dai nuovi riti; e che questi preferiscano, semmai, i ritmi orchestrici, fragorosi e ossessivi, che diventano una mera forza fisiologica come via ascetica all'annullamento del pensiero».

«Non cè dubbio che contro il latino (ma non contro il siriaco, il greco bizantino e l'armeno) abbiano combattuto altre tendenze e forze; non contro le lingue dei riti cattolici orientali, preservate finora a causa degli stretti rapporti che le congiungono con le grandi culture asiatiche (Islam, India, ecc.), le quali non banno mai rinunziato alle loro lingue sacre».

«Il latino invece è stato abbandonato per la seconda volta in cinque secoli. Ora, come la prima volta, in seguito a una “conversione”, ossia cambiamento di fede. Le due conversioni sono storicamente connesse tra lore, ma totalmente diverse. La conversione protestantica produsse un'antitesi feconda nell'ambito della cultura cristiana, che si definiva romanzo-germanica e continuava direttamente la cultura cristiana greco-romana. La moderna conversione, nonostante i suoi falsi scopi (l'unione con fratelli separati è uno dei più vistosi e ingannevoli), in realtà mira a creare le condizioni necessarie a nuove convivenze: e queste sono estranee e spesso ostili alla cultura europea (e quindi americana e australiana). Perciò la nuova fede, inconciliabile con l'antica lingua del. l'ecumenismo cattolico, s'è disancorata dalla cultura cristiana».


Quando Paolo VI ripete fino all’ossessione «torniamo alla saggezza del Concilio» ricordando come la decisione unanime dei Padri di conservare («SERVETUR») il latino nella messa (1) è stata drasticamente e inspiegabilmente annullata, devo concludere, se logica è logica, che quella non fu una decisione saggia, anche se l'approvarono oltre 2.000 Padri ed ebbe il crisma della sacralità con la conferma e la promulgazione del Papa e la sanzione ambita del sigillo della SS. Trinità.

Certo, la «congrua parte» riservata alle lingue volgari era prevista dal Concilio; chi cambiò le carte in tavola (ed oggi sappiamo «chi e come») frodò lo Spirito Santo, in barba a decreti perentori e non suscettibili di manipolazioni. E non è forse anche per questo che il Papa nel discorso del 14/X/1968 (A.A.S. 1968 pag. 735) accusò di arbitrio gli stessi vescovi? (2)

In decine di articoli, di dibattiti ed anche nel mio libro «La Repubblica di Pilato» ho difeso ad oltranza questa saggezza conciliare: un armonioso connubio di latino e di volgare (distinguendo la parte didattica da quella sacramentale e sacrificale) avrebbe accontentato tutti e salvato la liturgia e la fede (sì, anche la fede) da tutte le aberrazioni a cui, inorriditi, abbiamo assistito, di cui hanno parlato scandalizzati i giornali di mezzo mondo e che le stesse autorità religiose hanno dovuto riconoscere alfine, anche se hanno fin troppo tollerato, per non dire incoraggiato.

L'abolizione del latino (secondo alcuni era un diaframma, l’ultimo diaframma che si opponeva alla promozione del popolo — disse Mons. Bugnini) per i lestofanti che spingevano il carro era solo fobia della tradizione, della romanità, delle «bardature» costantiniane che andavano a tutti i costi rimosse.

Bisognava trovarne la motivazione pastorale, ed eccola pronta: la partecipazione del popolo!...

«Non illudiamoci — scriveva per i cattolici riformisti, dell'Inghilterra riformata, B. Marshall — non sarà la liturgia in volgare a far venire gl'invitati al festino di nozze. La Chiesa anglicana canta il più bell’inglese davanti ai banchi più vuoti, mentre il cattolico più ignorante in latino, intende benissimo ciò che fanno i monaci di Solesmes».

Se i riformatori — dico meglio — i devastatori si ponessero l'angosciosa domanda: «quanti fedeli, disgustati, abbiano perduto la fede per colpa di riforme non volute e non previste dalla Chiesa», capirebbero meglio anche loro cosa significhi rifiutare la «saggezza» a cui accennava Paolo VI.

«La mia chiesa è un deserto. I giovani non si vedono più. Se ne sono andati tutti» (Un sacerdote francese a «L'Osservatore Toscano» del 2/8/70). È vero: oggi si accusano i tradizionalisti perché antidiluviani e fuori dalla realtà e non si pensa che la collera di Dio venne agli uomini col diluvio e non prima.

Ma ormai il dado è tratto e credo che indietro non si torni, che non si possa tornare; sappiano però i giacobini che le vittime della loro rivoluzione sono tante, fra i laici come fra il clero; in alto come in basso. Sappiano che la mietitura del diavolo ancora imperversa sulle ali del riformismo.

Hanno violato una tradizione di oltre 1.500 anni, senza serie giustificazioni. I motivi per cui la Chiesa (a differenza dei Protestanti) ha tenuto duro su questo, sono troppi: non c'è trattato liturgico che non li confermi.

Si sono posti decisamente e consapevolmente contro il Concilio di Trento che volle la garanzia del dogma «nella precisione delle formule e della lingua», contro i pericoli di una chiesa «nazionale», contro gli svicolamenti del volgare, contro le aggressioni all'unità della Chiesa, contro ogni corruzione della dottrina originale, per il sostegno della fede, per la sacralità dei riti, per la romanità della Chiesa.

Il problema della partecipazione dei fedeli era già vivo al tempo del Concilio di Trento; ma fin da allora si capì che era meglio non capire e stare uniti (ma intendiamoci una buona volta su questo «capire»!) che capire e trovarsi divisi come lo si è oggi e lo si è tanto, che si arriva perfino a parlare di scisma e chi rifiuta lo scisma ha già voltato le spalle. Bei vantaggi!

Hanno rifiutato lo spirito e la lettera dell’Enciclica «Mediator Dei» di Pio XII, un’enciclica rigorosamente liturgica e di recentissima data. Ma il «romano» Pio XII era già in uggia agli untorelli d'oltr'Alpe e ai giacobini di casa nostra che fin dalle prime sedute conciliari cominciarono a «barare», respingendo precise norme di procedura volute dallo stesso Papa Giovanni XXIII.

Hanno sfidato decisioni di Pontefici, specialmente degli ultimi: Pio X, Pio XI, Pio XII e perfino di Papa Giovanni la cui «Veterum Sapientia» è stata fatta subito sparire, per non parlare della «Sacrificium Laudis» dello stesso Paolo VI, così precisa, persuasiva, perentoria e accorta quale solo un Papa tormentato come Lui poteva produrre.

Hanno rotto uno dei tanti possibili ponti verso l’Ecumenismo laico e cattolico. Il mondo è alla ricerca di una lingua unica; la Chiesa l'aveva e l’ha distrutta. In seno alla Chiesa stessa il problema si acuisce, specialmente fra cattolici: al prossimo Concilio non ci sarà più un Padre capace di parlar latino. Durante il Vaticano II, un Padre orientale parlò in greco, ma volutamente, proprio come riaffermazione di ecumenismo pur nella diversità dei riti e lo stesso Patriarca Atenagora (il veneratissimo massone tanto stimato da Paolo VI) vietò drasticamente l'introduzione del volgare nella liturgia ortodossa.

Hanno insidiato l'integrità del dogma offrendo alla teologia, alla filosofia, alla morale (che da secoli si nutrivano della precisione e della concisione del latino) la possibilità di facili evasioni, all'insegna di quelle lingue moderne che il tempo corrompe rapidamente ed espone ai più grossi equivoci.

Hanno incoraggiato il razionalismo. Questa storia del «capire» alla fine ha una sua logica rigorosa. Se si dovesse capir tutto «mestier non era partorir Maria». I fatti testimoniano dei paurosi sbandamenti del neo-razionalismo, del neo modernismo cattolico che sull'altare della ragione fan rogo e strame di Vangeli, di Tradizioni, di Encicliche, di Papi e di Vescovi insieme.

Hanno favorito il nazionalismo proprio nel momento in cui ce n'è meno bisogno. «Roma e l'Occidente si legavano col latino... L’Europa del Medio Evo conobbe un'eccezionale unità sotto l'egida del Papato. Il latino era allora la lingua ufficiale di tutti i paesi, anche di quelli che non avevano fatto parte dell'impero romano... È con emozione che si leggono tanti documenti d'archivio che dall'Inghilterra all'Ungheria, dalla Frigia alla Spagna, dagli Urali al Mediterraneo proclamavano in testa di leggi, di contratti, di giudizi la stessa fede cattolica: “In nomine sanctissimae Trinitatis. Amen”».

«Durante diversi secoli, l'Europa unita che noi sogniamo, fu nel Medio Evo una realtà. Non c'era problema di lingua per gli intellettuali, gli studiosi, i sapienti, d'Italia, di Francia, di Spagna, d'Inghilterra, di Allemagna e anche di Russia. Chiunque poteva viaggiare all'estero senza provare difficoltà a farsi comprendere; gli studenti potevano iscriversi a Università di loro scelta. È sufficiente leggere la storia del Medio Evo, che fu “l'età dell'oro della latinità” o/e biografie dei grandi santi che si potrebbero chiamare “Europei” come S. Domenico o S. Bernardo, per essere convinti di queste verità...

...Fino a dieci anni fa ancora, la cattolicità era una realtà vivente: i preti di qualunque paese potevano comprendersi fra loro, e celebrare la loro messa ovunque si trovassero... E in nessuna chiesa cattolica i fedeli si sentivano spaesati, anche se avevano difficoltà a comprendere il sermone, essi capivano, intendevano almeno ovunque una messa identica con parole a loro familiari. Era una situazione di fatto: latinità e cattolicità erano, praticamente, sempre sinonimi...» (B. Lécureux - «Le Latin langue de l'Eglise» - pag. 73/76).

Hanno violentato la volontà dei fedeli che, prima stupefatti, incuriositi, allibiti, poi passivi e rassegnati, hanno assistito e assistono alle bordate traumatiche del post-Concilio. Gianni Franceschi in «La religione comoda» (Volpe - Editore, 1969) riporta alle pagine 76/79 una documentata inchiesta fra 40.000 fedeli deglì Stati Uniti, in cui la stragrande maggioranza (come del resto ad imitazione dei Padri del Concilio) si dice contraria a tutte le innovazioni che ormai, pur con arbitrio, sono legge. Non accenno nemmeno alla «supplica» dei 100 intellettuali a Paolo VI, fra cui due Nobel, perché il gregge è allergico alle élites. Tralascio i vari movimenti in difesa del latino che vanno sotto il nome di «Una voce» diffusi in tutto il mondo (e oggi sono legioni) perché questi sono «reazionari» (?!?) e basta...

Hanno inferto un colpo micidiale col cosiddetto «pluralismo», uno dei grandi «segni» del nostro tempo. Tutti i riti sono permessi e incoraggiati: al solo rito latino si dà l’ostracismo! E questo contro il paragrafo 4 della Costituzione sulla Sacra Liturgia che precisa: «Infine il Sacro Concilio, in fedele ossequio alla Tradizione, dichiara che la Santa Madre Chiesa considera su una stessa base di diritto e di onore “tutti i riti legittimamente riconosciuti”, e vuole che in avvenire essi siano conservati ed in ogni modo incrementati, e desidera che, ove sia necessario, vengano prudentemente e integralmente riveduti nello spirito della Santa Tradizione». Così anche quest'articolo, chiarissimo, è passato sotto le forche dei giustizieri!

L'ineffabile Bugnini ci tiene a raggirare il prossimo quando proclama che «Il latino non è abolito. Resta di diritto e di fatto. La celebrazione senza popolo sarà in latino, certe messe etc...». Capolavoro di ipocrisia! Di diritto e di fatto restano solo le teste d’uovo!... La realtà — malgrado i ripetuti richiami del Papa e della C.E.l. — è triste e sconsolante: per avere una messa latina bisogna sudare sette camicie, chiedere il permesso che viene dato con fatica, o spesso anche negato, sfidare l’impopolarità, passare da cretini, reazionari, ecc...

Infine, ma solo perché voglio finire, hanno sfidato, violato, soppresso l'Art. 36 della Costituzione liturgica del Vaticano Il che, a dispetto dei giacobini, resta tuttora valido e che io cito, si può dire, in ogni mio scritto «ad perpetuam rei infamiam».

Art. 36/I - L'uso della lingua latina «sia conservato net riti latini» - «SERVETUR» - «SI CONSERVI» (3).

Mons. Luigi Maria Carli — Vescovo di Segni — nel suo libro «Nova et Vetera» (Ed.ne Mediterranea) a pag. 94 scrive: «Alla luce di queste considerazioni è facile dare risposta ad un rimprovero che taluni tradizionalisti hanno mosso alla Santa Sede. Si sono lamentati che il “Consilium ad exequendam Constitutionem de sacra Liturgia” avrebbe, in certi punti della riforma, oltrepassato la lettera della Costituzione liturgica. ‘“Sacrosanctum Concilium”. Anch'io, personalmente, sono dello stesso parere; anzi, penso che l'esito della votazione dei Padri conciliari su quei punti sarebbe risultato ben diverso se si fosse conosciuta in anticipo l'attuazione che ne avrebbe fatta il “Consilium”. Però mi affretto ad aggiungere che il Sommo Pontefice, o in persona o tramite gli organismi da lui costituiti, ha la potestà, in forza del suo primato giurisdizionale, di oltrepassare i limiti di un documento conciliare, in materia non attinente alla Fede o alla Morale, tutte le volte che egli lo ritenga opportuno. Ma, “ex adverso”, bisogna riconoscere al Sommo Pontefice uguale potestà, nelle materie di cui sopra, di restringere o annullare un documento conciliare. Ciò andava detto a certi avversari dei tradizionalisti i quali si permettono di teorizzare una pretesa irreversibilità della riforma del Vaticano Il, e puntano il canocchiale della loro intransigenza di vestali del Concilio sull'operato del Santo Padre Paolo VI per scorgervi e denunziare — secondo loro — cedimenti, involuzioni, insabbiamenti, ritorni di fiamma dell'integrismo ecc!».

Mi piace questa pagina di Mons. Carli che ha magistralmente trattato il problema «Tradizione e progresso nella Chiesa dopo il Vaticano II...». Mi piace, ma non mi convince. La violazione della volontà dei Padri è palese; le «Istruzioni» che hanno annullato la Costituzione non hanno valore giuridico pari alla stessa Costituzione: in foro laico si inoltrerebbe ricorso alla Corte Costituzionale. Nella Chiesa non si può fare perché l'aborrito (?) Codice di Diritto Canonico statuisce: «Summus Pontifex a nemine judicatur». D'altra parte, tutta una serie di «contesti» (l'accusa di Paolo VI al «Consilium», la Sua lamentela contro le Conferenze Episcopali, il costante richiamo a «ritornare alla saggezza del Concilio», la decisione della S.C.d.R. di obbligare le Basiliche, i Conventi, le Cattedrali, i Santuari ad almeno una messa in latino, ecc...) mi pongono dubbi angosciosi...


A questo punto mi domando se anch'io non sono cretino: perché angosciarmi? Tanto coi profeti e coi carismatici non c'è possibilità di dialogo. Questi vivon fra le nuvole e quando scendono a terra hanno ancora i glutei umidi.

La liturgia è sempre stata il pallino degli zeloti. Oggi è il pallone di pretini e pretoni che vi giostrano con la spericolatezza dei divi del calcio. Ecco perché certe riforme assomigliano alle toppe che il ciabattino mette alle scarpe rotte: al primo acquazzone ti buschi una polmonite. La Chiesa primitiva garantì il Vangelo coi suoi Martiri: Pietro crocifisso, Paolo decapitato, Giovanni decollato, Lorenzo arrostito, Giovanni Evangelista bollito, Bartolomeo scorticato. La Chiesa di oggi si affida alle riforme e si rifugia nelle assemblee. Anche la Messa è diventata assemblea dove le chiacchiere soffocano spesso la parola di Dio. È la fede che crea i martiri e i santi; le assemblee creano i venditori di fumo. Forse per questo, dopo ore e ore di dialogo e di assemblearismo, restano solo cicche, cenere e fumo.

Padre Bugnini me l’assicura: «Il latino non è abolito. Resta di diritto e di fatto». Ve n'eravate accorti, voi lettori? Questa è solo violenza alla buona creanza.

Ben a ragione poteva scrivere Pierre Debray in «Abbasso la tonaca rossa» (Volpe - Editore 1969). «Quando sento dei Vescovi condannare virtuosamente l'impiego della violenza, mi domando e dico di chi si fanno beffa. Il giorno in cui d'un colpo di penna mi hanno soppresso quelle messe latine che mi erano fonte di grande gioia e spiritualità, non dico che hanno commesso un'ingiustizia, ma una violenza sì» (pag. 129). Io aggiungo: anche un'ingiustizia, perché hanno defraudato il popolo di Dio di quanto essi gli avevano concordemente e solennemente largito. Il fatto stesso poi che sulla loro bocca ci sia sempre e solo «Concilio, Concilio, Concilio» alla fine mi sa anche di irrisione. «Il Concilio — scrive ancora Mons. Carli — o si accetta tutto o si rifiuta tutto ». Ma, guarda il caso: proprio là, dove il Concilio è stato chiaro e perentorio, la confusione, l'anarchia, il dispotismo sono legge!

E a proposito di despotismo, si legga quanto ha scritto su «Nation Vaudoise» (10 gennaio 1970) il Dott. Marcel Degamey, protestante: «Dopo il Vaticano Il si poteva pensare che l’uso del volgare sarebbe stato autorizzato, ma non imposto, e così dei cambiamenti nell'ordine della messa e nei testi. Non è senza stupore che noi protestanti vediamo nella Chiesa cattolica la rivoluzione liturgica imposta all'insieme dei fedeli... Si strappa, così, ai fedeli il quadro concreto in cui si svolgeva la loro vita spirituale per fabbricargliene un altro... L'autorità istituita per conservare e proteggere il deposito della fede non può, senza essere tirannica, prescrivere per via autoritaria cambiamenti ch'equivalgono a una rivoluzione. Così, come la si contesta nel suo fondamento, “l'autorità si esercita, nella Chiesa cattolica, in maniera tirannica contro i suoi figli più fedeli” ».

Ma chi è il dispotico? Forse il Papa? Per carità! Tre giorni dopo la sentenza con cui si aboliva il latino scongiurava (parlando agli «Amici del latino» che avevano vinto un Concorso): «Date tutta la vostra opera acché tali parole (“Latinae linguae usus in ritibus latinis servetur”) sian fedelmente poste in atto, come non cesseremo mai di esortarvene» («L'Osservatore Romano» 1 aprile 1969).

A questo punto, visti i fatti, gli antefatti e i post-fatti, anch'io sono costretto a pensare, a credere che il Papa è prigioniero di dirottatori maldestri e spregiudicati, disposti a barare nella fede come i sensali barano al mercato delle bestie (4). L'ho già documentato ne «La Repubblica di Pilato» con le rivelazioni del Card. Benno Gut quando, nella franca e indimenticabile intervista («Doc. Cathol.» n. 1551, 16 nov. 1969, pag. 1048, col. 2) affermava, circa la malattia degli esperimenti... «che il Papa nella sua grande bontà e saggezza spesso deve cedere suo malgrado».

Non è una novità: l'aveva già scritto Pascal: «Tutte le volte che i Gesuiti sorprenderanno la buona fede dei Papi, si renderà spergiura l’intera cristianità.».

«Il Papa è esposto ad essere ingannato a causa delle molte sue occupazioni e della fiducia che ha nei Gesuiti; e i Gesuiti sono capacissimi d'ingannare a causa della calunnia, cioè della giustificazione della calunnia». E chiaro che per Gesuiti, forse in questa specifica faccenda i più assenti, io intendo tutti i birboni che si sono prestati al gioco della falsificazione.

Volete un altro esempio banale, ma illuminante? Cito ancora Tito Casini: fatti e non frottole. Questa volta c'è di mezzo il problema della Comunione in piedi (poi verrà quello della Comunione nella mano!).

«Turbato dalle abusive iniziative dilaganti nella Chiesa, forte di tutta la tradizione cristiana, Benno Gut va dal Papa e lo scongiura in ginocchio — dicendogli che non s'alzerà finché non ne abbia avuto bromessa — di non legittimare quest'altro cedimento al protestantesimo che già con la comunione in piedi intese di negare, nell'ostia, la presenza divina e rifiutarle di conseguenza l'adorazione. Il Papa promette, infatti, e Gut se ne ritorna contento; ma Bugnini avverte Suenens: Suenens, subito accorso, va a sua volta dal Papa, il Papa rimette la cosa ai Vescovi, i Vescovi interrogati, rispondono, con la soverchiante maggioranza dî 1215, NO, “Non placet”, e il Papa, tenuto conto, fra l’altro, che “la maniera di distribuire la santa comunione ha dietro di sé una tradizione multisecolare”, ch’‘‘essa esprime il rispetto dei fedeli verso l'Eucaristia”, conclude: ‘‘Perciò la Santa Sede esorta vivamente i vescovi, i sacerdoti e i fedeli a osservare la legge in vigore, confermata pur di recente dall’episcopato cattolico, a bene comune della Chiesa”. Di lì a poco, sul “Giornale del Papa” si possono leggere queste parole di un vescovo: "Quanto al modo di ricevere la Comunione, ai fedeli è lasciata piena libertà. Potete riceverla come avete fatto fino ad oggi, sulla lingua, oppure nella mano... Nessuno può prescrivervi o proibirvi l'uno o l’altro rito”».

Ne volete un terzo? Eccolo: stessa fonte: Tito Casini («L’ultima messa di Paolo VI» pag. 89-90):

«Meno adottato, non perché meno conveniente, ma perché ancor meno giovareccio, era un quarto “rito della comunione” inventato dai riformisti, o meglio, applicato da questi alla cresima, essendo già in uso con tutela dell'igiene e della decenza, nei bar per la consumazione del coca-cola o altre bibite, come fra amici nei paesi del Sud America per la bevuta del “maté”: la comunione “per succiata”, o “con la cannuccia”, così detta e descritta nel testo ufficiale del nuovo “Rito della messa” “promulgato da Papa Paolo VI”, “edizione tipica per la liturgia italiana" «più che volentieri», "perlibenter”, approvata dalla Congregazione del Culto Divino e pubblicata dalla “Conferenza Episcopale Italiana” (con riserva dei diritti, “Copyright by Edizioni pastorali italiane")».

La comunione con la cannuccia si svolge in questo modo: Il celebrante principale prende la cannuccia dicendo: “Il Sangue di Cristo mi custodisca per la vita eterna”, beve il Sangue del Signore e immediatamente purifica la cannuccia sorseggiando un po' d'acqua da un recipiente a suo tempo collocato sull'altare, e depone la cannuccia su un'apposita patena. Vicino al calice si pone (perciò) anche un recipiente con l'acqua per la purificazione delle cannucce, e una patena sopra la quale vengono deposte le cannucce. I concelebranti, uno dopo l’altro, si accostano all'altare, prendono la cannuccia e bevono il Sangue del Signore, quindi purificano la cannuccia sorseggiando un po' d'acqua € depongono la cannuccia sopra l'apposita patena... Cannuccia, cannuccia, cannuccia... e tanto piace, con l'invenzione, la parola (che a no! ricorda, ahi! la pipa dei nostri vecchi) che ci si fa un gusto a ripeterla (come quelli di succiarla, anche a vuoto, e ricordiamo come friggeva e gocciolava! ) così passando dalla comunione dei sacerdoti ‘“concelebranti” a quella dei fedeli concomunicanti: “Rito della comunione sotto le due specie con la cannuccia”. Anche il concelebrante si serve della cannuccia per comunicarsi al Sangue del Signore... Successivamente il comunicando si porta davanti al diacono, il quale dice: “Il Sangue di Cristo”; il comunicando risponde: “Amen”, e con la cannuccia che il ministro gli presenta, beve dal calice il Sangue del Signore. Quindi, facendo attenzione a non lasciar scorrere qualche goccia, con la medesima cannuccia sorseggia un po’ d'acqua dal recipiente che il ministro tiene in mano: poi depone la cannuccia în un altro recipiente. Se non è presente il diacono... il celebrante medesimo presenta il calice a ciascuno dei comunicandi, e un ministro accanto a lu recipiente con l'acqua per purificare la cannuccia».

Non dispiaccia al lettore se nella logica di queste premesse se ne traggono le legittime deduzioni.

Lo Schneider scrive: «La crisi attuale nella vita religiosa non avrebbe mai raggiunto l'ampiezza odierna se una teologia razionalista non avesse preso il sopravvento e se si fosse approfondita la vita della fede accettando il simbolo senza troppi fronzoli intellettuali; poiché soltanto l'esperienza può persuadere della potenza orientatrice propria del simbolo » (pag. 113).

Il commento migliore a queste parole lo traggo da quelle di un altro grande pensatore — Michele Federico Sciacca — la cui Opera in quantità e qualità dovrebbe pur pesare sui fatiscenti randelli della stalla post-conciliare.

«Tutte le civiltà corrotte e in via di decomposizione (Ellenismo, Romanesimo ec.) sono edonistiche in senso orgiastico, magico, pseudo-profetico e pseudo-mistico; il piacere come orgia, magia, visione, evasione estatica; la contemplazione a rovescio: “stare per non vedere”, oscuramento totale dell'intelligenza e anche della ragione per eccesso di “cerebralismo”. E l'orgia e la pornografia, l'erotismo, sono costruzioni cerebrali in scatenamento dell'immaginazione, alla conquista di un piacere costruito e artificiale, complicato ed inedito per la visione abnorme di paradisi sconosciuti ».

«Tale cerebralismo si esercita a ripetere meccanicamente il “primitivo”, non per amore di recupero o per nostalgia di un'innocenza perduta i della natura spontanea adulterata dalla civiltà, ma per eccesso di corruzione ».

« Non c'è epoca che non abbia conosciuto i fenomeni di corruzione e di malcostume, ma oggi queste cose si ritengono una conquista, un progresso, e la corruzione è elevata a principio di felicità» (da «Oscuramento dell'intelligenza »).

L'eccesso di cerebralismo ha contagiato la teologia cattolica fino all’assurdo: per essa ormai tutto è morto (?); demitizzare la religione significa svuotarla di tutte le sovrastrutture che la deturpano incominciando dalla Bibbia, dal Vangelo che, alla maniera protestante, vengono interpretati soggettivamente; significa svestirla di quell’alone di mistero che faceva dire a Salomone: «Chi può interpretare le meraviglie del Signore?»; significa adorare altri miti già fuori corso da tempo, come quello cartesiano che Schneider definiva: « caricatura dello spirito » (8); significa quella che Giorgio de Santillana chiama «la dittatura della banalità». E la più vistosa di queste banalità è la proletarizzazione, la volgarizzazione, la razionalizzazione del linguaggio liturgico, ultima trovata dell'industria democratica: il latino divide, è la lingua delle persone colte, di una casta privilegiata. Basta dunque con le truffe e gli inganni, mai ne abbiamo visti tanti come oggi e proprio in un settore in cui prudenza, serietà, severità, controllo, fede e tradizione esigevano ben altri riformatori, diversi dai lanzichenecchi che con le bardature dell’ipocrisia, ammantata di zelo e di modernità, hanno dato i più squallidi esempi di demagogia oltreché di incultura.

Concludo questa scorribanda tutt'altro che illogica appellandomi ancora una volta a testimoni «laici», gli unici, pare, che abbiano ancora un po' di credito fra i «clerici vagantes» (9) di quella rivoluzione culturale che tante lacrime sta costando ai.cattolici di sempre.

“Dissento profondamente — scriveva Luigi Einaudi — da coloro i quali desiderano che, la messa sia celebrata in volgare e che in volgare si risponda o si canti ogni qual volta le regole liturgiche comandano l’uso della lingua latina....No. Quella lingua nella quale parlavano i pretori, i giudici e i centurioni del tempo di Cristo non è morta. Ogni qualvolta entriamo in chiesa e ascoltiamo le parole sublimi dei mirabili canti intoriati dai cori, sentiamo che quelle parole, ripetute le centinaia e le migliaia di volte, sono sentite da chi le pronuncia. Che importa se il senso letterario sfugge?” ..."La parola di Cristo è viva in noi non perché sia stata scritta sulle pergamene e nei libri stampati. Sarebbe morta, se fosse così. Ma ognuno di noi l'ha sentita dalle labbra della mamma e della nonna. Mettiamoli in fila questi uomini e queste donne che in ogni famiglia hanno trasmesso gli uni agli altri i comandamenti divini: amatevi gli uni gli altri, non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi stessi. Non sono molti: da venti a trenta persone bastano a ricondurre la tradizione trasmessa ad ognuno di noi da un antenato, il quale viveva al tempo del Messia”.

A questo punto il problema del «latinorum» lascia il tempo che trova: «barbari et Barberini» han fatto ormai man bassa di tutto; chierici e laici hanno gareggiato inforcando il «tandem» della stupidità e della demagogia e noi, sia pure «obtorto collo» ci siamo rassegnati a subire le bordate di questi rissosi padroni dei nostri cervelli che, «mutatis mutandis», ci ripetono con noia fastidiosa gli slogans di un «modus vivendi» tutto impostato a scansare fatiche e a deprimere l'intelligenza. L'«homo sapiens» della filosofia razionalistica cede il posto all’«homo oeconomicus», all'«homo faber» già qualificato da S. Paolo come «animalis homo» e l'«homo cristianus» che anche nel latino («relata refero») vedeva una proiezione della sua personalità, diciamo anche della sua «forma mentis». Oggi si vede contestato da quella stessa Chiesa a cui aveva affidato le sorti della sua esistenza con fede cieca, come «conditio sine qua non» per riscattarsi dal gregge degli integrati. Non è certo questo della Chiesa un «lapsus», ma un imbroglio; non è nemmeno un «alibi» per scoprirsi più democratica in tempi in cui, detto «inter nos», democratici non sono più nemmeno i cani se i padroni ci avvertono perentoriamente: «cave canem!».

Ma ormai il «plenum» o «praesidium» della nostra Repubblichetta ha decretato la morte del latino con legge iniqua, ma valida a tutti gli effetti «erga omnes»: l'«interim», al momento della «vacatio legis» è stato brillantemente coperto da decreti decretini e decretoni che hanno illuminato di vergogna i gestori delle nostre teste, «in alto loco», anzi «excelsior», proprio là dove gli «alibi» sociologici e i sofismi della pastoralità si sono mescolati coi suffragi di plebi incolte e di una gioventù studentesca di tutt'altro preoccupata che di studiare. E, sia ben chiaro, che lo studiare non significa solo declinare «rosa rosae» O «citrullum citrulli», per dirla con Teofilo Folengo. Significa anche questo, ma mi si lasci dire «una tantum et absit injuria verbis» che quando si vogliono giustificare demagogici provvedimenti coi ricorsi alla culcura del facilismo, si rischia il naufragio: ce ne stiamo già rendendo conto: «tamquam tabula rasa» la formazione scolastica di troppa gioventù il cui «curriculum» culturale oscilla fra la «Gazzetta dello Sport» e i fumettoni di Dario Fo. Per questo mi sanno d'ironia certe parole che ancor oggi s'adoperano a iosa, ma che ormai nulla più dicono: «virtus, salus, vis, labor, juventus, et cetera» andavano bene per il Fascio Littorio. Non parliamo poi di «Pro-Patria», ma, «una tantum», confessiamo, che quelle belle parole rispecchiavano anche un clima di pulizia, di laboriosità, di disciplina che oggi darebbero adito soltanto a polemiche o a «qui-pro-quo», rinviando «sine die» lo spinoso problema dell'educazione dei giovani.

«Ergo» lasciamo che la Chiesa continui a gridare «Signore pietà» invece di «Kyrie eleison»: non crescerà di un centimetro la fede dei credenti mentre sicuramente ne cala il numero. Lasciamo anche che lo Stato si sollazzi a beccarci con leggi inique o a tartassarci con imposte assurde: i vessatori si conoscono dallo stile oltreché dalle parole: «una tantum, pro capite, quorum, de cujus» etc. son tutte ricette che anticipano di anni la morte dei condannati che vanno mendicando democrazia, libertà, giustizia sociale da chi ne tradisce le più elementari aspirazioni.

Detto questo, pace al latino, pace alla sintassi, pace ai vivi, pace ai morti: tutti «requiescant în pace», quelli compresi che oggi si vantano di morire «sine lux et sine crux» (?), fregati proprio per questo «în utroque » dallo Stato che gli fa pagare salati i funerali e da quei chierici che si ostinano a cantare «Alleluja» proprio nel momento in cui dovrebbe risuonare il «Dies irae».

Lasciatemi concludere in gloria questo argomento inglorioso. Da un «fascista» come me, forse il lettore non si aspetterebbe questo finale a sorpresa. Ma il gran piacere di prendere il mio prossimo di contropiede è tale e tanto che devo cedere alla tentazione: il post-concilio anticipato da Hitler! Bugnini e Lercaro battuti da Hitler!

Hitler, il demone della moderna malvagità, fino ad oggi non sospetto di nostalgie liturgiche, aveva razzisticamente preceduto i razzisti del post-concilio. «Uno dei primi atti di Hitler, appena prese il potere e volle trasformare il paese che si dava a lui, come una macchina cieca di cui egli avrebbe disposto a sua volontà, fu quello di sopprimere infatti l'insegnamento del latino» (da « Le Figaro littéraire» N. 12 - 1° gennaio 1970).
Anche i barbari sono fratelli. Nelle distruzioni!

NOTE


(1) «Da molti ci è stato domandato che sia conservato per tutti i paesi il canto latino e gregoriano del Gloria, del Credo, del Sanctus, dell'Agnus Dei, del Pater Noster. Dio voglia che così sia!» (Oss.re Rom. 23/8/1973).

(2) «Ragione per cui anche in materia liturgica accade che perfino delle Conferenze episcopali talvolta procedano arbitrariamente più del dovuto». E scusate se è poco!

(3) Le relazioni degli Esperti che spiegarono ai Padri conciliari il significato e la portata della Costituzione liturgica sono di una chiarezza sconcertante e polemica. Sì, anche polemica! Essi, infatti, vedendo e prevedendo le truffe e le evasioni successive si premurarono di chiarire il pensiero dell'assemblea con precisi interventi che ora sono agli atti. Mons. Jesus Enciso Viana, uno dei relatori, scrive: «2) Altri, al contrario, sostengono che tutta la Messa deve essere in lingua volgare. Ma questo voler far scomparire la lingua latina è in contraddizione col già stabilito Art. 36; 3) Ci sembra piuttosto che si debba seguire una via di mezzo, quella che nello schema fu delineata, alla quale molti Padri e di diversa gerarchia, s'avvicinano... Per arrivare a questo: a) volemmo così esprimerci in modo che quelli che desiderano celebrare la Messa tutta în latino, “non impongano agli altri” la loro opinione; e allo stesso modo quelli che “in alcune parti” della Messa vogliono usare îl volgare, non costringano gli altri a far come loro. Perciò, secondo questo statuto dell'art. 36, concediamo al volgare un congruo spazio ("congruum locum") non diciamo che “deve” essere concesso, ma che “si può” concedere ciò che nel già citato Art. 36 è stato formulato (...) “Non dicimus tribuatur, sed tribui possit") A nessuno dunque si chiude la porta cosicché se uno vuole celebrare “tutta” la Messa in latino lo possa fare: e a nessuno si chiude la porta “se in qualche parte” si vuol usare il volgare » («Acta Concilii Vat. II» - Vol. Il - Pars II - 290-291).
Gli stessi concetti espresse l'altro esperto Mons. Giustino Calewaert, Vescovo di Gand, quando il Concilio, nella sua relazione proclamò: «Due parti insieme prevede il nostro Art. (l'Art. 36) e, cioè che il posto principale sia dato alla lingua latina e qualche cosa (‘“aliquod spatium”) al volgare ».
Più chiari di così si muore! Perciò, quando oggi ormai tutti dicono — Paolo VI «în primis» — torniamo al Concilio e poi «impongono» il volgare nella Messa, sanno di mentire. Dopo di che non ci si aspetti ubbidienza filiale, umiltà, sincerità, ecc... da chi è meno virtuoso di loro.
Ho scritto e detto più volte: tutto è ammissibile al mondo, fuorché essere truffati nella fede appellandosi alla legalità.

(4) Ma a proposito di latino e di latinità la Curia Romana non finisce mai di stupire e dà tutta l'impressione di provarci gusto a prendere in giro il prossimo.
Il 30 giugno ‘76, Paolo VI apponeva la sua firma alla fondazione di «LATINITAS» che già a fine novembre veniva presentata a Roma nel palazzo della Cancelleria Apostolica. Per l'occasione Mons. Benelli ha letto un messaggio augurale di Paolo VI che mi rende ancor più dubbioso nei miei dubbi atroci. Mons. Benelli ha ricordato che la Chiesa ha fatto propria la lingua latina per il suo carisma di universalità, di chiarezza, di espressività concisa e forte, virile e soave ad un tempo. L'ha fatta propria «servendosene come strumento di unificazione e di comunicazione universale, di fusione dei geni diversi dei popoli credenti, come l'ha fatta espressione della sua anima orante nella liturgia latina».
«Oggi come non mai  — ha detto ancora il Sostituto della Segreteria di Stato — si sente il bisogno, da parte degli uomini pensosi del futuro della civiltà, di ritornare alle fonti dell'umanesimo classico e cristiano; sî sente il bisogno di risentirci accomunati da quella stessa civilizzazione dalla cui comune matrice è nata la storia d'Europa; di riaffermare i valori dell'uomo e della persona minacciati dalle aberranti ideologie che, come onde distruttrici, si ergono minacciose contro tutti i valori più sacri e intangibili dell'uomo ».

(5) «Mai prima una tesi di così dubbia scientificità era stata scelta come base indiscussa di importanti decisioni spirituali, e c'è da chiedersi se la scimmia non sia stata promossa ad antenato dell'uomo affinché l'uomo potesse essere sostituito a Dio»
(Burckhardt).

(6) «È triste assistere al disfacimento di un patrimonio ultra-millenario, essenziale per la Religione, l'Arte, la Storia della cultura e della civiltà... La Chiesa sta perdendo la sua risonanza “acustica”, che non era estetismo o mera dilettazione artistica; era acustica dell'anima, era mezzo per ben più profondo dialogo. Tutto questo finisce. Insieme al resto. Che dire poi delle canzoncine che si insegnano ai piccoli fedeli? Tralascio i commenti».

(7) Ai conciliatori poi che a tutti i costi vogliono mettere vino vecchio in otri nuovi, ecco la risposta non di oggi, ma di vent'anni fa, che taglia la testa al toro. Dom Gajard, il gregorianista ormai famoso in tutto il mondo, richiesto di un parere in merito alla nuova traduzione latina (dicesi «latina») dei Salmi (anno 1945) o all'eventuale sostituzione degli stessi con la traduzione in lingue moderne, rispondeva nel 1956 alla Sacra Congregazione dei Riti: «L'adattamento delle melodie gregoriane a parole francesi (e quindi di qualsiasi altra lingua) sarebbe, dal solo punto di vista artistico, disastroso. Qualunque tecnico, per poco che conosca le leggi della composizione gregoriana, si rende conto che, per la sua melodia come per il suo ritmo, l'arte gregoriana è esclusivamente latina, nata dall'accentuazione latina, in formale opposizione con la struttura delle lingue moderne... L'altra soluzione proposta, cio la sostituzione dei testi attuali dei canti liturgici con î corrispondenti del nuovo Salterio, è altrettanto nociva, richiedendo un rimaneggiamento dell'intero repertorio latino gregoriano, che resterebbe în gran parte rovinato».

(8) Il suo credo suona: «Concedo realtà soltanto a ciò che comprendo».

(9) Tradotto liberamente potrebbe suonare: «guardie rosse».