IL LATINORUM
Di
Pellegrino Santucci Tratto da: "Il lievito dei Farisei. Una polemica del nostro tempo"
Legal Editrice 1977
«Se i misteri sono nascosti ai sapienti e sono svelati invece ai piccoli e ai lattanti è meglio cercare con ardore l’irragionevolezza e l'ignoranza. La grande trovata di Cristo è quella di aver nascosto ai saggi il raggio della scienza per svelarlo alle persone insensate ed infantili».
(Porfirio)
«Non assistevo a una messa da almeno un quarto di secolo... E poiché era la prima volta che la sentivo in italiano, mi abbandonai a riflessioni sulla Chiesa, la sua storia, il suo destino. E cioé il suo passato splendore, il suo squallido presente, la sua inevitabile fine. Sotto specie estetica, credevo: ma c'era invece in quel che andavo disordinatamente pensando, qualcosa di più remoto ed oscuro; qualcosa di più pericoloso. Un fondo di disagio, di apprensione: come in chi, partendo, appena partito, sente di aver dimenticato o smarrito qualcosa, e non sa precisamente che. Ma a voler confessare pienamente e magari in eccesso, quello stato d'animo: mi sentivo un po’ defraudato e sperduto. Quell’immobile macigno cui mi ero, nemico, affilato per anni; quel macigno di superstizioni e di paure, di intolleranza, di latino: eccolo friabile e povero, come la zolla più povera. Ricordavo ancora (a diecî anni avevo servito messa) certi passi della messa în latino: e li confrontavo all'italiano cul erano stati ridotti: propriamente ridotti, e anche nel senso di quando si dice com'è ridotto il tale: “L'acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di Colui che ha voluto assumere la nostra natura umana”. Che insulsa dicitura, da far pensare a quegli esseri insulsi che a tavola allungano il vino con l'acqua.
« “Deus, qui humanae substantiae dignitatem mirabiliter condidisti, et mirabilius reformasti: da nobis per huius aquae et vini mysterium, eius divinitatis esse consortes, qui bumanitatis nostrae fieri dignatus est particeps, Jesus Christus Filius tuus Dominus noster: Qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus: per omnia saecula saeculorum": dov'era ormai il senso di queste parole e, al di qua al di là del senso, il mistero?»
(Leonardo Sciascia - «Todo Modo» - Torino - 1974, pag. 24-25).
A Sciascia su « La voce del CNADSI » (A. XIII) fa eco Luigj Alfonsi:
..."Il latino era per la Chiesa uno degli elementi del mistero divino, senza cui Essa non è tale, sì da sollecitare contro di sé l'apertura delle “portae inferi”».
«Il latino, come ben sintetizzò quel grandissimo latinista ebreo — “anima plus quam christiana” — che fu E. Norden, è la lingua della preghiera sobria, precisa, responsabile e insieme consapevole dell’abisso del mistero».
«Come vedere nello scolorito italiano le grandi tremende parole latine, piene di storia e di “mistero” dignitas, divinitas, humanitas, evocanti il destino dell'uomo ‘‘ascendente’’? ».
Nel suo severo e profondo studio «Lingua e Fede», il latinista Giov. Battista Pighi precisa il discorso in termini di storicità e di fede vissuta:
«L'antica Messa, orante e adorante, aveva bisogno, non già d'una lingua che il popolo capisse, com'è stato disonestamente detto, ma d'una lingua che parlasse a Dio; ossia che, con la sua arcaica gravità e novità rispetto alla parlata d'ogni giorno, rendesse l'idea della riverenza che la creatura deve al suo Creatore. Per ragioni storiche, la Chiesa cattolica usava il latino, il siriano, il greco bizantino, l’armeno, lingue tutte entrate molto anticamente nell'uso liturgico, e perciò incomprensibili per i moderni fedeli di rito latino, maronita, greco e armeno. Inoltre l'antica Messa del silenzio mistico e della fede aveva, per quanto riguarda il fedele, un bisogno limitato della parola, ch'era affidata al celebrante. Il quale poi, quando durante il rito doveva rivolgersi liberamente ai fedeli, usava senz'altro la lingua volgare. E di ciò la Chiesa aveva preso atto, non già per merito dei moderni riformatori, ma per decisione del concilio di Tours dell'813: “visum est ut omelias quisque aperte transferre studeat in rusticam Romanam linguam aut Thiotiscam, quo facilius cuncti possint intelligere quae dicuntur”
«È invece perfettamente logico che la nuova Messa, didattica, a cui l'assemblea partecipa, in cui la preghiera è atto umano, da cui il silenzio è bandito, abbia bisogno d'una lingua che tutti capiscano, o almeno credano di capire. Ed è altrettanto logico che l'antica musica, sia monodica sia polifonica, sia popolare sia dotta, in cui la parola si dissolve per diventare una mera forza spirituale come via ascetica al puro pensiero, sia stata esclusa dai nuovi riti; e che questi preferiscano, semmai, i ritmi orchestrici, fragorosi e ossessivi, che diventano una mera forza fisiologica come via ascetica all'annullamento del pensiero».
«Non cè dubbio che contro il latino (ma non contro il siriaco, il greco bizantino e l'armeno) abbiano combattuto altre tendenze e forze; non contro le lingue dei riti cattolici orientali, preservate finora a causa degli stretti rapporti che le congiungono con le grandi culture asiatiche (Islam, India, ecc.), le quali non banno mai rinunziato alle loro lingue sacre».
«Il latino invece è stato abbandonato per la seconda volta in cinque secoli. Ora, come la prima volta, in seguito a una “conversione”, ossia cambiamento di fede. Le due conversioni sono storicamente connesse tra lore, ma totalmente diverse. La conversione protestantica produsse un'antitesi feconda nell'ambito della cultura cristiana, che si definiva romanzo-germanica e continuava direttamente la cultura cristiana greco-romana. La moderna conversione, nonostante i suoi falsi scopi (l'unione con fratelli separati è uno dei più vistosi e ingannevoli), in realtà mira a creare le condizioni necessarie a nuove convivenze: e queste sono estranee e spesso ostili alla cultura europea (e quindi americana e australiana). Perciò la nuova fede, inconciliabile con l'antica lingua del. l'ecumenismo cattolico, s'è disancorata dalla cultura cristiana».
Quando Paolo VI ripete fino all’ossessione «torniamo alla saggezza del Concilio» ricordando come la decisione unanime dei Padri di conservare («SERVETUR») il latino nella messa (1) è stata drasticamente e inspiegabilmente annullata, devo concludere, se logica è logica, che quella non fu una decisione saggia, anche se l'approvarono oltre 2.000 Padri ed ebbe il crisma della sacralità con la conferma e la promulgazione del Papa e la sanzione ambita del sigillo della SS. Trinità.
Certo, la «congrua parte» riservata alle lingue volgari era prevista dal Concilio; chi cambiò le carte in tavola (ed oggi sappiamo «chi e come») frodò lo Spirito Santo, in barba a decreti perentori e non suscettibili di manipolazioni. E non è forse anche per questo che il Papa nel discorso del 14/X/1968 (A.A.S. 1968 pag. 735) accusò di arbitrio gli stessi vescovi? (2)
In decine di articoli, di dibattiti ed anche nel mio libro «La Repubblica di Pilato» ho difeso ad oltranza questa saggezza conciliare: un armonioso connubio di latino e di volgare (distinguendo la parte didattica da quella sacramentale e sacrificale) avrebbe accontentato tutti e salvato la liturgia e la fede (sì, anche la fede) da tutte le aberrazioni a cui, inorriditi, abbiamo assistito, di cui hanno parlato scandalizzati i giornali di mezzo mondo e che le stesse autorità religiose hanno dovuto riconoscere alfine, anche se hanno fin troppo tollerato, per non dire incoraggiato.
L'abolizione del latino (secondo alcuni era un diaframma, l’ultimo diaframma che si opponeva alla promozione del popolo — disse Mons. Bugnini) per i lestofanti che spingevano il carro era solo fobia della tradizione, della romanità, delle «bardature» costantiniane che andavano a tutti i costi rimosse.
Bisognava trovarne la motivazione pastorale, ed eccola pronta: la partecipazione del popolo!...
«Non illudiamoci — scriveva per i cattolici riformisti, dell'Inghilterra riformata, B. Marshall — non sarà la liturgia in volgare a far venire gl'invitati al festino di nozze. La Chiesa anglicana canta il più bell’inglese davanti ai banchi più vuoti, mentre il cattolico più ignorante in latino, intende benissimo ciò che fanno i monaci di Solesmes».
Se i riformatori — dico meglio — i devastatori si ponessero l'angosciosa domanda: «quanti fedeli, disgustati, abbiano perduto la fede per colpa di riforme non volute e non previste dalla Chiesa», capirebbero meglio anche loro cosa significhi rifiutare la «saggezza» a cui accennava Paolo VI.
«La mia chiesa è un deserto. I giovani non si vedono più. Se ne sono andati tutti» (Un sacerdote francese a «L'Osservatore Toscano» del 2/8/70). È vero: oggi si accusano i tradizionalisti perché antidiluviani e fuori dalla realtà e non si pensa che la collera di Dio venne agli uomini col diluvio e non prima.
Ma ormai il dado è tratto e credo che indietro non si torni, che non si possa tornare; sappiano però i giacobini che le vittime della loro rivoluzione sono tante, fra i laici come fra il clero; in alto come in basso. Sappiano che la mietitura del diavolo ancora imperversa sulle ali del riformismo.
Hanno violato una tradizione di oltre 1.500 anni, senza serie giustificazioni. I motivi per cui la Chiesa (a differenza dei Protestanti) ha tenuto duro su questo, sono troppi: non c'è trattato liturgico che non li confermi.
Si sono posti decisamente e consapevolmente contro il Concilio di Trento che volle la garanzia del dogma «nella precisione delle formule e della lingua», contro i pericoli di una chiesa «nazionale», contro gli svicolamenti del volgare, contro le aggressioni all'unità della Chiesa, contro ogni corruzione della dottrina originale, per il sostegno della fede, per la sacralità dei riti, per la romanità della Chiesa.
Il problema della partecipazione dei fedeli era già vivo al tempo del Concilio di Trento; ma fin da allora si capì che era meglio non capire e stare uniti (ma intendiamoci una buona volta su questo «capire»!) che capire e trovarsi divisi come lo si è oggi e lo si è tanto, che si arriva perfino a parlare di scisma e chi rifiuta lo scisma ha già voltato le spalle. Bei vantaggi!
Hanno rifiutato lo spirito e la lettera dell’Enciclica «Mediator Dei» di Pio XII, un’enciclica rigorosamente liturgica e di recentissima data. Ma il «romano» Pio XII era già in uggia agli untorelli d'oltr'Alpe e ai giacobini di casa nostra che fin dalle prime sedute conciliari cominciarono a «barare», respingendo precise norme di procedura volute dallo stesso Papa Giovanni XXIII.
Hanno sfidato decisioni di Pontefici, specialmente degli ultimi: Pio X, Pio XI, Pio XII e perfino di Papa Giovanni la cui «Veterum Sapientia» è stata fatta subito sparire, per non parlare della «Sacrificium Laudis» dello stesso Paolo VI, così precisa, persuasiva, perentoria e accorta quale solo un Papa tormentato come Lui poteva produrre.
Hanno rotto uno dei tanti possibili ponti verso l’Ecumenismo laico e cattolico. Il mondo è alla ricerca di una lingua unica; la Chiesa l'aveva e l’ha distrutta. In seno alla Chiesa stessa il problema si acuisce, specialmente fra cattolici: al prossimo Concilio non ci sarà più un Padre capace di parlar latino. Durante il Vaticano II, un Padre orientale parlò in greco, ma volutamente, proprio come riaffermazione di ecumenismo pur nella diversità dei riti e lo stesso Patriarca Atenagora (il veneratissimo massone tanto stimato da Paolo VI) vietò drasticamente l'introduzione del volgare nella liturgia ortodossa.
Hanno insidiato l'integrità del dogma offrendo alla teologia, alla filosofia, alla morale (che da secoli si nutrivano della precisione e della concisione del latino) la possibilità di facili evasioni, all'insegna di quelle lingue moderne che il tempo corrompe rapidamente ed espone ai più grossi equivoci.
Hanno incoraggiato il razionalismo. Questa storia del «capire» alla fine ha una sua logica rigorosa. Se si dovesse capir tutto «mestier non era partorir Maria». I fatti testimoniano dei paurosi sbandamenti del neo-razionalismo, del neo modernismo cattolico che sull'altare della ragione fan rogo e strame di Vangeli, di Tradizioni, di Encicliche, di Papi e di Vescovi insieme.
Hanno favorito il nazionalismo proprio nel momento in cui ce n'è meno bisogno. «Roma e l'Occidente si legavano col latino... L’Europa del Medio Evo conobbe un'eccezionale unità sotto l'egida del Papato. Il latino era allora la lingua ufficiale di tutti i paesi, anche di quelli che non avevano fatto parte dell'impero romano... È con emozione che si leggono tanti documenti d'archivio che dall'Inghilterra all'Ungheria, dalla Frigia alla Spagna, dagli Urali al Mediterraneo proclamavano in testa di leggi, di contratti, di giudizi la stessa fede cattolica: “In nomine sanctissimae Trinitatis. Amen”».
«Durante diversi secoli, l'Europa unita che noi sogniamo, fu nel Medio Evo una realtà. Non c'era problema di lingua per gli intellettuali, gli studiosi, i sapienti, d'Italia, di Francia, di Spagna, d'Inghilterra, di Allemagna e anche di Russia. Chiunque poteva viaggiare all'estero senza provare difficoltà a farsi comprendere; gli studenti potevano iscriversi a Università di loro scelta. È sufficiente leggere la storia del Medio Evo, che fu “l'età dell'oro della latinità” o/e biografie dei grandi santi che si potrebbero chiamare “Europei” come S. Domenico o S. Bernardo, per essere convinti di queste verità...
...Fino a dieci anni fa ancora, la cattolicità era una realtà vivente: i preti di qualunque paese potevano comprendersi fra loro, e celebrare la loro messa ovunque si trovassero... E in nessuna chiesa cattolica i fedeli si sentivano spaesati, anche se avevano difficoltà a comprendere il sermone, essi capivano, intendevano almeno ovunque una messa identica con parole a loro familiari. Era una situazione di fatto: latinità e cattolicità erano, praticamente, sempre sinonimi...» (B. Lécureux - «Le Latin langue de l'Eglise» - pag. 73/76).
Hanno violentato la volontà dei fedeli che, prima stupefatti, incuriositi, allibiti, poi passivi e rassegnati, hanno assistito e assistono alle bordate traumatiche del post-Concilio. Gianni Franceschi in «La religione comoda» (Volpe - Editore, 1969) riporta alle pagine 76/79 una documentata inchiesta fra 40.000 fedeli deglì Stati Uniti, in cui la stragrande maggioranza (come del resto ad imitazione dei Padri del Concilio) si dice contraria a tutte le innovazioni che ormai, pur con arbitrio, sono legge. Non accenno nemmeno alla «supplica» dei 100 intellettuali a Paolo VI, fra cui due Nobel, perché il gregge è allergico alle élites. Tralascio i vari movimenti in difesa del latino che vanno sotto il nome di «Una voce» diffusi in tutto il mondo (e oggi sono legioni) perché questi sono «reazionari» (?!?) e basta...
Hanno inferto un colpo micidiale col cosiddetto «pluralismo», uno dei grandi «segni» del nostro tempo. Tutti i riti sono permessi e incoraggiati: al solo rito latino si dà l’ostracismo! E questo contro il paragrafo 4 della Costituzione sulla Sacra Liturgia che precisa: «Infine il Sacro Concilio, in fedele ossequio alla Tradizione, dichiara che la Santa Madre Chiesa considera su una stessa base di diritto e di onore “tutti i riti legittimamente riconosciuti”, e vuole che in avvenire essi siano conservati ed in ogni modo incrementati, e desidera che, ove sia necessario, vengano prudentemente e integralmente riveduti nello spirito della Santa Tradizione». Così anche quest'articolo, chiarissimo, è passato sotto le forche dei giustizieri!
L'ineffabile Bugnini ci tiene a raggirare il prossimo quando proclama che «Il latino non è abolito. Resta di diritto e di fatto. La celebrazione senza popolo sarà in latino, certe messe etc...». Capolavoro di ipocrisia! Di diritto e di fatto restano solo le teste d’uovo!... La realtà — malgrado i ripetuti richiami del Papa e della C.E.l. — è triste e sconsolante: per avere una messa latina bisogna sudare sette camicie, chiedere il permesso che viene dato con fatica, o spesso anche negato, sfidare l’impopolarità, passare da cretini, reazionari, ecc...
Infine, ma solo perché voglio finire, hanno sfidato, violato, soppresso l'Art. 36 della Costituzione liturgica del Vaticano Il che, a dispetto dei giacobini, resta tuttora valido e che io cito, si può dire, in ogni mio scritto «ad perpetuam rei infamiam».
Art. 36/I - L'uso della lingua latina «sia conservato net riti latini» - «SERVETUR» - «SI CONSERVI» (3).
Mons. Luigi Maria Carli — Vescovo di Segni — nel suo libro «Nova et Vetera» (Ed.ne Mediterranea) a pag. 94 scrive: «Alla luce di queste considerazioni è facile dare risposta ad un rimprovero che taluni tradizionalisti hanno mosso alla Santa Sede. Si sono lamentati che il “Consilium ad exequendam Constitutionem de sacra Liturgia” avrebbe, in certi punti della riforma, oltrepassato la lettera della Costituzione liturgica. ‘“Sacrosanctum Concilium”. Anch'io, personalmente, sono dello stesso parere; anzi, penso che l'esito della votazione dei Padri conciliari su quei punti sarebbe risultato ben diverso se si fosse conosciuta in anticipo l'attuazione che ne avrebbe fatta il “Consilium”. Però mi affretto ad aggiungere che il Sommo Pontefice, o in persona o tramite gli organismi da lui costituiti, ha la potestà, in forza del suo primato giurisdizionale, di oltrepassare i limiti di un documento conciliare, in materia non attinente alla Fede o alla Morale, tutte le volte che egli lo ritenga opportuno. Ma, “ex adverso”, bisogna riconoscere al Sommo Pontefice uguale potestà, nelle materie di cui sopra, di restringere o annullare un documento conciliare. Ciò andava detto a certi avversari dei tradizionalisti i quali si permettono di teorizzare una pretesa irreversibilità della riforma del Vaticano Il, e puntano il canocchiale della loro intransigenza di vestali del Concilio sull'operato del Santo Padre Paolo VI per scorgervi e denunziare — secondo loro — cedimenti, involuzioni, insabbiamenti, ritorni di fiamma dell'integrismo ecc!».
Mi piace questa pagina di Mons. Carli che ha magistralmente trattato il problema «Tradizione e progresso nella Chiesa dopo il Vaticano II...». Mi piace, ma non mi convince. La violazione della volontà dei Padri è palese; le «Istruzioni» che hanno annullato la Costituzione non hanno valore giuridico pari alla stessa Costituzione: in foro laico si inoltrerebbe ricorso alla Corte Costituzionale. Nella Chiesa non si può fare perché l'aborrito (?) Codice di Diritto Canonico statuisce: «Summus Pontifex a nemine judicatur». D'altra parte, tutta una serie di «contesti» (l'accusa di Paolo VI al «Consilium», la Sua lamentela contro le Conferenze Episcopali, il costante richiamo a «ritornare alla saggezza del Concilio», la decisione della S.C.d.R. di obbligare le Basiliche, i Conventi, le Cattedrali, i Santuari ad almeno una messa in latino, ecc...) mi pongono dubbi angosciosi...
A questo punto mi domando se anch'io non sono cretino: perché angosciarmi? Tanto coi profeti e coi carismatici non c'è possibilità di dialogo. Questi vivon fra le nuvole e quando scendono a terra hanno ancora i glutei umidi.
La liturgia è sempre stata il pallino degli zeloti. Oggi è il pallone di pretini e pretoni che vi giostrano con la spericolatezza dei divi del calcio. Ecco perché certe riforme assomigliano alle toppe che il ciabattino mette alle scarpe rotte: al primo acquazzone ti buschi una polmonite. La Chiesa primitiva garantì il Vangelo coi suoi Martiri: Pietro crocifisso, Paolo decapitato, Giovanni decollato, Lorenzo arrostito, Giovanni Evangelista bollito, Bartolomeo scorticato. La Chiesa di oggi si affida alle riforme e si rifugia nelle assemblee. Anche la Messa è diventata assemblea dove le chiacchiere soffocano spesso la parola di Dio. È la fede che crea i martiri e i santi; le assemblee creano i venditori di fumo. Forse per questo, dopo ore e ore di dialogo e di assemblearismo, restano solo cicche, cenere e fumo.
Padre Bugnini me l’assicura: «Il latino non è abolito. Resta di diritto e di fatto». Ve n'eravate accorti, voi lettori? Questa è solo violenza alla buona creanza.
Ben a ragione poteva scrivere Pierre Debray in «Abbasso la tonaca rossa» (Volpe - Editore 1969). «Quando sento dei Vescovi condannare virtuosamente l'impiego della violenza, mi domando e dico di chi si fanno beffa. Il giorno in cui d'un colpo di penna mi hanno soppresso quelle messe latine che mi erano fonte di grande gioia e spiritualità, non dico che hanno commesso un'ingiustizia, ma una violenza sì» (pag. 129). Io aggiungo: anche un'ingiustizia, perché hanno defraudato il popolo di Dio di quanto essi gli avevano concordemente e solennemente largito. Il fatto stesso poi che sulla loro bocca ci sia sempre e solo «Concilio, Concilio, Concilio» alla fine mi sa anche di irrisione. «Il Concilio — scrive ancora Mons. Carli — o si accetta tutto o si rifiuta tutto ». Ma, guarda il caso: proprio là, dove il Concilio è stato chiaro e perentorio, la confusione, l'anarchia, il dispotismo sono legge!
E a proposito di despotismo, si legga quanto ha scritto su «Nation Vaudoise» (10 gennaio 1970) il Dott. Marcel Degamey, protestante: «Dopo il Vaticano Il si poteva pensare che l’uso del volgare sarebbe stato autorizzato, ma non imposto, e così dei cambiamenti nell'ordine della messa e nei testi. Non è senza stupore che noi protestanti vediamo nella Chiesa cattolica la rivoluzione liturgica imposta all'insieme dei fedeli... Si strappa, così, ai fedeli il quadro concreto in cui si svolgeva la loro vita spirituale per fabbricargliene un altro... L'autorità istituita per conservare e proteggere il deposito della fede non può, senza essere tirannica, prescrivere per via autoritaria cambiamenti ch'equivalgono a una rivoluzione. Così, come la si contesta nel suo fondamento, “l'autorità si esercita, nella Chiesa cattolica, in maniera tirannica contro i suoi figli più fedeli” ».
Ma chi è il dispotico? Forse il Papa? Per carità! Tre giorni dopo la sentenza con cui si aboliva il latino scongiurava (parlando agli «Amici del latino» che avevano vinto un Concorso): «Date tutta la vostra opera acché tali parole (“Latinae linguae usus in ritibus latinis servetur”) sian fedelmente poste in atto, come non cesseremo mai di esortarvene» («L'Osservatore Romano» 1 aprile 1969).
A questo punto, visti i fatti, gli antefatti e i post-fatti, anch'io sono costretto a pensare, a credere che il Papa è prigioniero di dirottatori maldestri e spregiudicati, disposti a barare nella fede come i sensali barano al mercato delle bestie (4). L'ho già documentato ne «La Repubblica di Pilato» con le rivelazioni del Card. Benno Gut quando, nella franca e indimenticabile intervista («Doc. Cathol.» n. 1551, 16 nov. 1969, pag. 1048, col. 2) affermava, circa la malattia degli esperimenti... «che il Papa nella sua grande bontà e saggezza spesso deve cedere suo malgrado».
Non è una novità: l'aveva già scritto Pascal: «Tutte le volte che i Gesuiti sorprenderanno la buona fede dei Papi, si renderà spergiura l’intera cristianità.».
«Il Papa è esposto ad essere ingannato a causa delle molte sue occupazioni e della fiducia che ha nei Gesuiti; e i Gesuiti sono capacissimi d'ingannare a causa della calunnia, cioè della giustificazione della calunnia». E chiaro che per Gesuiti, forse in questa specifica faccenda i più assenti, io intendo tutti i birboni che si sono prestati al gioco della falsificazione.
Volete un altro esempio banale, ma illuminante? Cito ancora Tito Casini: fatti e non frottole. Questa volta c'è di mezzo il problema della Comunione in piedi (poi verrà quello della Comunione nella mano!).
«Turbato dalle abusive iniziative dilaganti nella Chiesa, forte di tutta la tradizione cristiana, Benno Gut va dal Papa e lo scongiura in ginocchio — dicendogli che non s'alzerà finché non ne abbia avuto bromessa — di non legittimare quest'altro cedimento al protestantesimo che già con la comunione in piedi intese di negare, nell'ostia, la presenza divina e rifiutarle di conseguenza l'adorazione. Il Papa promette, infatti, e Gut se ne ritorna contento; ma Bugnini avverte Suenens: Suenens, subito accorso, va a sua volta dal Papa, il Papa rimette la cosa ai Vescovi, i Vescovi interrogati, rispondono, con la soverchiante maggioranza dî 1215, NO, “Non placet”, e il Papa, tenuto conto, fra l’altro, che “la maniera di distribuire la santa comunione ha dietro di sé una tradizione multisecolare”, ch’‘‘essa esprime il rispetto dei fedeli verso l'Eucaristia”, conclude: ‘‘Perciò la Santa Sede esorta vivamente i vescovi, i sacerdoti e i fedeli a osservare la legge in vigore, confermata pur di recente dall’episcopato cattolico, a bene comune della Chiesa”. Di lì a poco, sul “Giornale del Papa” si possono leggere queste parole di un vescovo: "Quanto al modo di ricevere la Comunione, ai fedeli è lasciata piena libertà. Potete riceverla come avete fatto fino ad oggi, sulla lingua, oppure nella mano... Nessuno può prescrivervi o proibirvi l'uno o l’altro rito”».
Ne volete un terzo? Eccolo: stessa fonte: Tito Casini («L’ultima messa di Paolo VI» pag. 89-90):
«Meno adottato, non perché meno conveniente, ma perché ancor meno giovareccio, era un quarto “rito della comunione” inventato dai riformisti, o meglio, applicato da questi alla cresima, essendo già in uso con tutela dell'igiene e della decenza, nei bar per la consumazione del coca-cola o altre bibite, come fra amici nei paesi del Sud America per la bevuta del “maté”: la comunione “per succiata”, o “con la cannuccia”, così detta e descritta nel testo ufficiale del nuovo “Rito della messa” “promulgato da Papa Paolo VI”, “edizione tipica per la liturgia italiana" «più che volentieri», "perlibenter”, approvata dalla Congregazione del Culto Divino e pubblicata dalla “Conferenza Episcopale Italiana” (con riserva dei diritti, “Copyright by Edizioni pastorali italiane")».
La comunione con la cannuccia si svolge in questo modo: Il celebrante principale prende la cannuccia dicendo: “Il Sangue di Cristo mi custodisca per la vita eterna”, beve il Sangue del Signore e immediatamente purifica la cannuccia sorseggiando un po' d'acqua da un recipiente a suo tempo collocato sull'altare, e depone la cannuccia su un'apposita patena. Vicino al calice si pone (perciò) anche un recipiente con l'acqua per la purificazione delle cannucce, e una patena sopra la quale vengono deposte le cannucce. I concelebranti, uno dopo l’altro, si accostano all'altare, prendono la cannuccia e bevono il Sangue del Signore, quindi purificano la cannuccia sorseggiando un po' d'acqua € depongono la cannuccia sopra l'apposita patena... Cannuccia, cannuccia, cannuccia... e tanto piace, con l'invenzione, la parola (che a no! ricorda, ahi! la pipa dei nostri vecchi) che ci si fa un gusto a ripeterla (come quelli di succiarla, anche a vuoto, e ricordiamo come friggeva e gocciolava! ) così passando dalla comunione dei sacerdoti ‘“concelebranti” a quella dei fedeli concomunicanti: “Rito della comunione sotto le due specie con la cannuccia”. Anche il concelebrante si serve della cannuccia per comunicarsi al Sangue del Signore... Successivamente il comunicando si porta davanti al diacono, il quale dice: “Il Sangue di Cristo”; il comunicando risponde: “Amen”, e con la cannuccia che il ministro gli presenta, beve dal calice il Sangue del Signore. Quindi, facendo attenzione a non lasciar scorrere qualche goccia, con la medesima cannuccia sorseggia un po’ d'acqua dal recipiente che il ministro tiene in mano: poi depone la cannuccia în un altro recipiente. Se non è presente il diacono... il celebrante medesimo presenta il calice a ciascuno dei comunicandi, e un ministro accanto a lu recipiente con l'acqua per purificare la cannuccia».
Non dispiaccia al lettore se nella logica di queste premesse se ne traggono le legittime deduzioni.
Lo Schneider scrive: «La crisi attuale nella vita religiosa non avrebbe mai raggiunto l'ampiezza odierna se una teologia razionalista non avesse preso il sopravvento e se si fosse approfondita la vita della fede accettando il simbolo senza troppi fronzoli intellettuali; poiché soltanto l'esperienza può persuadere della potenza orientatrice propria del simbolo » (pag. 113).
Il commento migliore a queste parole lo traggo da quelle di un altro grande pensatore — Michele Federico Sciacca — la cui Opera in quantità e qualità dovrebbe pur pesare sui fatiscenti randelli della stalla post-conciliare.
«Tutte le civiltà corrotte e in via di decomposizione (Ellenismo, Romanesimo ec.) sono edonistiche in senso orgiastico, magico, pseudo-profetico e pseudo-mistico; il piacere come orgia, magia, visione, evasione estatica; la contemplazione a rovescio: “stare per non vedere”, oscuramento totale dell'intelligenza e anche della ragione per eccesso di “cerebralismo”. E l'orgia e la pornografia, l'erotismo, sono costruzioni cerebrali in scatenamento dell'immaginazione, alla conquista di un piacere costruito e artificiale, complicato ed inedito per la visione abnorme di paradisi sconosciuti ».
«Tale cerebralismo si esercita a ripetere meccanicamente il “primitivo”, non per amore di recupero o per nostalgia di un'innocenza perduta i della natura spontanea adulterata dalla civiltà, ma per eccesso di corruzione ».
« Non c'è epoca che non abbia conosciuto i fenomeni di corruzione e di malcostume, ma oggi queste cose si ritengono una conquista, un progresso, e la corruzione è elevata a principio di felicità» (da «Oscuramento dell'intelligenza »).
L'eccesso di cerebralismo ha contagiato la teologia cattolica fino all’assurdo: per essa ormai tutto è morto (?); demitizzare la religione significa svuotarla di tutte le sovrastrutture che la deturpano incominciando dalla Bibbia, dal Vangelo che, alla maniera protestante, vengono interpretati soggettivamente; significa svestirla di quell’alone di mistero che faceva dire a Salomone: «Chi può interpretare le meraviglie del Signore?»; significa adorare altri miti già fuori corso da tempo, come quello cartesiano che Schneider definiva: « caricatura dello spirito » (8); significa quella che Giorgio de Santillana chiama «la dittatura della banalità». E la più vistosa di queste banalità è la proletarizzazione, la volgarizzazione, la razionalizzazione del linguaggio liturgico, ultima trovata dell'industria democratica: il latino divide, è la lingua delle persone colte, di una casta privilegiata. Basta dunque con le truffe e gli inganni, mai ne abbiamo visti tanti come oggi e proprio in un settore in cui prudenza, serietà, severità, controllo, fede e tradizione esigevano ben altri riformatori, diversi dai lanzichenecchi che con le bardature dell’ipocrisia, ammantata di zelo e di modernità, hanno dato i più squallidi esempi di demagogia oltreché di incultura.
Concludo questa scorribanda tutt'altro che illogica appellandomi ancora una volta a testimoni «laici», gli unici, pare, che abbiano ancora un po' di credito fra i «clerici vagantes» (9) di quella rivoluzione culturale che tante lacrime sta costando ai.cattolici di sempre.
“Dissento profondamente — scriveva Luigi Einaudi — da coloro i quali desiderano che, la messa sia celebrata in volgare e che in volgare si risponda o si canti ogni qual volta le regole liturgiche comandano l’uso della lingua latina....No. Quella lingua nella quale parlavano i pretori, i giudici e i centurioni del tempo di Cristo non è morta. Ogni qualvolta entriamo in chiesa e ascoltiamo le parole sublimi dei mirabili canti intoriati dai cori, sentiamo che quelle parole, ripetute le centinaia e le migliaia di volte, sono sentite da chi le pronuncia. Che importa se il senso letterario sfugge?” ..."La parola di Cristo è viva in noi non perché sia stata scritta sulle pergamene e nei libri stampati. Sarebbe morta, se fosse così. Ma ognuno di noi l'ha sentita dalle labbra della mamma e della nonna. Mettiamoli in fila questi uomini e queste donne che in ogni famiglia hanno trasmesso gli uni agli altri i comandamenti divini: amatevi gli uni gli altri, non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi stessi. Non sono molti: da venti a trenta persone bastano a ricondurre la tradizione trasmessa ad ognuno di noi da un antenato, il quale viveva al tempo del Messia”.
A questo punto il problema del «latinorum» lascia il tempo che trova: «barbari et Barberini» han fatto ormai man bassa di tutto; chierici e laici hanno gareggiato inforcando il «tandem» della stupidità e della demagogia e noi, sia pure «obtorto collo» ci siamo rassegnati a subire le bordate di questi rissosi padroni dei nostri cervelli che, «mutatis mutandis», ci ripetono con noia fastidiosa gli slogans di un «modus vivendi» tutto impostato a scansare fatiche e a deprimere l'intelligenza. L'«homo sapiens» della filosofia razionalistica cede il posto all’«homo oeconomicus», all'«homo faber» già qualificato da S. Paolo come «animalis homo» e l'«homo cristianus» che anche nel latino («relata refero») vedeva una proiezione della sua personalità, diciamo anche della sua «forma mentis». Oggi si vede contestato da quella stessa Chiesa a cui aveva affidato le sorti della sua esistenza con fede cieca, come «conditio sine qua non» per riscattarsi dal gregge degli integrati. Non è certo questo della Chiesa un «lapsus», ma un imbroglio; non è nemmeno un «alibi» per scoprirsi più democratica in tempi in cui, detto «inter nos», democratici non sono più nemmeno i cani se i padroni ci avvertono perentoriamente: «cave canem!».
Ma ormai il «plenum» o «praesidium» della nostra Repubblichetta ha decretato la morte del latino con legge iniqua, ma valida a tutti gli effetti «erga omnes»: l'«interim», al momento della «vacatio legis» è stato brillantemente coperto da decreti decretini e decretoni che hanno illuminato di vergogna i gestori delle nostre teste, «in alto loco», anzi «excelsior», proprio là dove gli «alibi» sociologici e i sofismi della pastoralità si sono mescolati coi suffragi di plebi incolte e di una gioventù studentesca di tutt'altro preoccupata che di studiare. E, sia ben chiaro, che lo studiare non significa solo declinare «rosa rosae» O «citrullum citrulli», per dirla con Teofilo Folengo. Significa anche questo, ma mi si lasci dire «una tantum et absit injuria verbis» che quando si vogliono giustificare demagogici provvedimenti coi ricorsi alla culcura del facilismo, si rischia il naufragio: ce ne stiamo già rendendo conto: «tamquam tabula rasa» la formazione scolastica di troppa gioventù il cui «curriculum» culturale oscilla fra la «Gazzetta dello Sport» e i fumettoni di Dario Fo. Per questo mi sanno d'ironia certe parole che ancor oggi s'adoperano a iosa, ma che ormai nulla più dicono: «virtus, salus, vis, labor, juventus, et cetera» andavano bene per il Fascio Littorio. Non parliamo poi di «Pro-Patria», ma, «una tantum», confessiamo, che quelle belle parole rispecchiavano anche un clima di pulizia, di laboriosità, di disciplina che oggi darebbero adito soltanto a polemiche o a «qui-pro-quo», rinviando «sine die» lo spinoso problema dell'educazione dei giovani.
«Ergo» lasciamo che la Chiesa continui a gridare «Signore pietà» invece di «Kyrie eleison»: non crescerà di un centimetro la fede dei credenti mentre sicuramente ne cala il numero. Lasciamo anche che lo Stato si sollazzi a beccarci con leggi inique o a tartassarci con imposte assurde: i vessatori si conoscono dallo stile oltreché dalle parole: «una tantum, pro capite, quorum, de cujus» etc. son tutte ricette che anticipano di anni la morte dei condannati che vanno mendicando democrazia, libertà, giustizia sociale da chi ne tradisce le più elementari aspirazioni.
Detto questo, pace al latino, pace alla sintassi, pace ai vivi, pace ai morti: tutti «requiescant în pace», quelli compresi che oggi si vantano di morire «sine lux et sine crux» (?), fregati proprio per questo «în utroque » dallo Stato che gli fa pagare salati i funerali e da quei chierici che si ostinano a cantare «Alleluja» proprio nel momento in cui dovrebbe risuonare il «Dies irae».
Lasciatemi concludere in gloria questo argomento inglorioso. Da un «fascista» come me, forse il lettore non si aspetterebbe questo finale a sorpresa. Ma il gran piacere di prendere il mio prossimo di contropiede è tale e tanto che devo cedere alla tentazione: il post-concilio anticipato da Hitler! Bugnini e Lercaro battuti da Hitler!
Hitler, il demone della moderna malvagità, fino ad oggi non sospetto di nostalgie liturgiche, aveva razzisticamente preceduto i razzisti del post-concilio. «Uno dei primi atti di Hitler, appena prese il potere e volle trasformare il paese che si dava a lui, come una macchina cieca di cui egli avrebbe disposto a sua volontà, fu quello di sopprimere infatti l'insegnamento del latino» (da « Le Figaro littéraire» N. 12 - 1° gennaio 1970).
Anche i barbari sono fratelli. Nelle distruzioni!
NOTE
(1) «Da molti ci è stato domandato che sia conservato per tutti i paesi il canto latino e gregoriano del Gloria, del Credo, del Sanctus, dell'Agnus Dei, del Pater Noster. Dio voglia che così sia!» (Oss.re Rom. 23/8/1973).
(2) «Ragione per cui anche in materia liturgica accade che perfino delle Conferenze episcopali talvolta procedano arbitrariamente più del dovuto». E scusate se è poco!
(3) Le relazioni degli Esperti che spiegarono ai Padri conciliari il significato e la portata della Costituzione liturgica sono di una chiarezza sconcertante e polemica. Sì, anche polemica! Essi, infatti, vedendo e prevedendo le truffe e le evasioni successive si premurarono di chiarire il pensiero dell'assemblea con precisi interventi che ora sono agli atti. Mons. Jesus Enciso Viana, uno dei relatori, scrive: «2) Altri, al contrario, sostengono che tutta la Messa deve essere in lingua volgare. Ma questo voler far scomparire la lingua latina è in contraddizione col già stabilito Art. 36; 3) Ci sembra piuttosto che si debba seguire una via di mezzo, quella che nello schema fu delineata, alla quale molti Padri e di diversa gerarchia, s'avvicinano... Per arrivare a questo: a) volemmo così esprimerci in modo che quelli che desiderano celebrare la Messa tutta în latino, “non impongano agli altri” la loro opinione; e allo stesso modo quelli che “in alcune parti” della Messa vogliono usare îl volgare, non costringano gli altri a far come loro. Perciò, secondo questo statuto dell'art. 36, concediamo al volgare un congruo spazio ("congruum locum") non diciamo che “deve” essere concesso, ma che “si può” concedere ciò che nel già citato Art. 36 è stato formulato (...) “Non dicimus tribuatur, sed tribui possit") A nessuno dunque si chiude la porta cosicché se uno vuole celebrare “tutta” la Messa in latino lo possa fare: e a nessuno si chiude la porta “se in qualche parte” si vuol usare il volgare » («Acta Concilii Vat. II» - Vol. Il - Pars II - 290-291).
Gli stessi concetti espresse l'altro esperto Mons. Giustino Calewaert, Vescovo di Gand, quando il Concilio, nella sua relazione proclamò: «Due parti insieme prevede il nostro Art. (l'Art. 36) e, cioè che il posto principale sia dato alla lingua latina e qualche cosa (‘“aliquod spatium”) al volgare ».
Più chiari di così si muore! Perciò, quando oggi ormai tutti dicono — Paolo VI «în primis» — torniamo al Concilio e poi «impongono» il volgare nella Messa, sanno di mentire. Dopo di che non ci si aspetti ubbidienza filiale, umiltà, sincerità, ecc... da chi è meno virtuoso di loro.
Ho scritto e detto più volte: tutto è ammissibile al mondo, fuorché essere truffati nella fede appellandosi alla legalità.
(4) Ma a proposito di latino e di latinità la Curia Romana non finisce mai di stupire e dà tutta l'impressione di provarci gusto a prendere in giro il prossimo.
Il 30 giugno ‘76, Paolo VI apponeva la sua firma alla fondazione di «LATINITAS» che già a fine novembre veniva presentata a Roma nel palazzo della Cancelleria Apostolica. Per l'occasione Mons. Benelli ha letto un messaggio augurale di Paolo VI che mi rende ancor più dubbioso nei miei dubbi atroci. Mons. Benelli ha ricordato che la Chiesa ha fatto propria la lingua latina per il suo carisma di universalità, di chiarezza, di espressività concisa e forte, virile e soave ad un tempo. L'ha fatta propria «servendosene come strumento di unificazione e di comunicazione universale, di fusione dei geni diversi dei popoli credenti, come l'ha fatta espressione della sua anima orante nella liturgia latina».
«Oggi come non mai — ha detto ancora il Sostituto della Segreteria di Stato — si sente il bisogno, da parte degli uomini pensosi del futuro della civiltà, di ritornare alle fonti dell'umanesimo classico e cristiano; sî sente il bisogno di risentirci accomunati da quella stessa civilizzazione dalla cui comune matrice è nata la storia d'Europa; di riaffermare i valori dell'uomo e della persona minacciati dalle aberranti ideologie che, come onde distruttrici, si ergono minacciose contro tutti i valori più sacri e intangibili dell'uomo ».
(5) «Mai prima una tesi di così dubbia scientificità era stata scelta come base indiscussa di importanti decisioni spirituali, e c'è da chiedersi se la scimmia non sia stata promossa ad antenato dell'uomo affinché l'uomo potesse essere sostituito a Dio»
(Burckhardt).
(6) «È triste assistere al disfacimento di un patrimonio ultra-millenario, essenziale per la Religione, l'Arte, la Storia della cultura e della civiltà... La Chiesa sta perdendo la sua risonanza “acustica”, che non era estetismo o mera dilettazione artistica; era acustica dell'anima, era mezzo per ben più profondo dialogo. Tutto questo finisce. Insieme al resto. Che dire poi delle canzoncine che si insegnano ai piccoli fedeli? Tralascio i commenti».
(7) Ai conciliatori poi che a tutti i costi vogliono mettere vino vecchio in otri nuovi, ecco la risposta non di oggi, ma di vent'anni fa, che taglia la testa al toro. Dom Gajard, il gregorianista ormai famoso in tutto il mondo, richiesto di un parere in merito alla nuova traduzione latina (dicesi «latina») dei Salmi (anno 1945) o all'eventuale sostituzione degli stessi con la traduzione in lingue moderne, rispondeva nel 1956 alla Sacra Congregazione dei Riti: «L'adattamento delle melodie gregoriane a parole francesi (e quindi di qualsiasi altra lingua) sarebbe, dal solo punto di vista artistico, disastroso. Qualunque tecnico, per poco che conosca le leggi della composizione gregoriana, si rende conto che, per la sua melodia come per il suo ritmo, l'arte gregoriana è esclusivamente latina, nata dall'accentuazione latina, in formale opposizione con la struttura delle lingue moderne... L'altra soluzione proposta, cio la sostituzione dei testi attuali dei canti liturgici con î corrispondenti del nuovo Salterio, è altrettanto nociva, richiedendo un rimaneggiamento dell'intero repertorio latino gregoriano, che resterebbe în gran parte rovinato».
(8) Il suo credo suona: «Concedo realtà soltanto a ciò che comprendo».
(9) Tradotto liberamente potrebbe suonare: «guardie rosse».