domenica 13 ottobre 2024

Come si concilia il professare il valore delle antiche tradizioni orientali con il non accordare un uguale rispetto alle proprie?

Le Chiese orientali

La conservazione e la promozione in Occidente dell’antica tradizione liturgica occidentale ha rilevante importanza per i cristiani di altre antiche tradizioni liturgiche, sia di quelle che sono in piena comunione con la Santa Sede sia di quelle che non lo sono. Il rispetto per il rito romano classico e il suo continuo uso è un necessario corollario pratico della costante politica ufficiale della Santa Sede di rispetto per la tradizione delle Chiese orientali.


La promozione dell’unità e il rispetto per le tradizioni orientali.
Papa Leone XIII chiarì e sottolineò l’attitudine appropriata di rispetto per i riti orientali, specialmente nella sua enciclica Orientaliun Dignitas (1894). Parlando della Santa Sede in relazione alle Chiese orientali, egli dichiara:
Né trascurò mai di vigilare affinché in quei popoli si conservassero sempre integre le consuetudini loro proprie e le forme dei sacri riti, che essa nella sua sapienza e potestà aveva riconosciute legittime.
E ancora:
In quanto la conservazione dei riti orientali è più importante di quanto si creda. In verità la veneranda antichità, onde quelle varie forme di liturgia si nobilitano, torna di grande ornamento a tutta la Chiesa, e afferma la divina unità della fede cattolica. Infatti, mentre sempre più si comprova l’origine apostolica delle principali Chiese d’Oriente, appare contemporaneamente e risplende l’intima unione che le strinse fin dai primordi con la Chiesa Romana.

 
Le disposizioni concrete dell’enciclica sono volte a invertire il processo di “latinizzazione” dei cattolici orientali sia con la sostituzione totale o parziale di riti orientali con il rito latino sia con l’assorbimento di singoli o gruppi di cattolici di rito orientale nel rito latino, procedure che talora, in passato, erano state approvate dalla Santa Sede.
Come più di recente ha osservato la Congregazione per le Chiese orientali:
Questi interventi risentivano di mentalità e convinzioni proprie del tempo, secondo le quali si percepiva una certa subordinazione delle liturgie non latine alla liturgia del rito latino che veniva considerato “ritus praestantior”. Ciò può aver comportato interventi sui testi liturgici orientali che oggi, alla luce degli studi e del cammino teologico, abbisognano di revisione, nel senso di un  ritorno alle avite tradizioni (Istruzione Il Padre incomprensibile, 24).


Il linguaggio di Papa Leone XIII trova uno stretto parallelismo nel  decreto Orientalium Ecclesiarum del Concilio vaticano secondo che va oltre, prevedendo una purificazione dei riti orientali dagli elementi latini che li hanno colonizzato, con risultati infelici :
Tutti gli orientali sappiano con tutta certezza che possono sempre e devono conservare i loro legittimi riti e la loro disciplina, e che non si devono introdurre mutazioni, se non per ragione del proprio organico progresso. Pertanto, tutte queste cose devono essere con somma fedeltà osservate dagli stessi orientali, i quali devono acquistarne una conoscenza sempre più profonda e una pratica più perfetta; qualora, per circostanze di tempo o di persone, fossero indebitamente venuti meno ad esse, procurino di ritornare alle avite tradizioni (Orientalium ecclesiarum, 6).

Il Concilio, inoltre, riconobbe che le diverse tradizioni dell’Oriente preservavano visioni teologiche valide per la Chiesa intera:

Ciò che sopra è stato detto circa la legittima diversità deve essere applicato anche alla diversa enunciazione delle dottrine teologiche. Effettivamente nell’indagare la verità rivelata in Oriente e in Occidente furono usati metodi e cammini diversi per giungere alla conoscenza e alla confessione delle cose divine. Non fa quindi meraviglia che alcuni aspetti del mistero rivelato siano talvolta percepiti in modo più adatto e posti in miglior luce dall’uno che non dall’altro, cosicché si può dire che quelle varie formule teologiche non di rado si completino, piuttosto che opporsi (Unitatis redintegratio, 17). 

Gli stessi sentimenti e linea di azione furono ripetuti da Papa Giovanni Paolo II nella sua appassionata lettera apostolica Orientale Lumen, emanata nel centenario di Orientalium Dignitas. Egli chiedeva: «pieno rispetto dell’altrui dignità, senza ritenere che il complesso degli usi e consuetudini della Chiesa latina fosse più completo o più adatto a mostrare la pienezza della retta dottrina» (Orientale Lumen, 20).

L’importanza di questa linea per le relazioni con le chiese ortodosse fu sottolineata dal Concilio vaticano secondo. Orientalium Ecclesiarum disponeva che i cattolici orientali promuovessero l’unità con le altre chiese cristiane orientali, con, fra le altre cose, «la religiosa fedeltà alle autentiche tradizioni orientali» (24).

Ciò fu ripetuto dall’istruzione della Congregazione per le Chiese orientali Il Padre incomprensibile del 1996:
In ogni sforzo di rinnovamento liturgico si dovrà pertanto tenere conto della prassi dei fratelli Ortodossi, conoscendola, stimandola ed allontanandosene il meno possibile per non accrescere le separazioni esistenti (21).

Questo passaggio richiama una ben nota espressione di Papa Pio X: la liturgia dei cattolici di rito non latino a seguito del ritorno
alla piena comunione con la sede di Pietro non avrebbe dovuto essere «né più, né meno, né diversamente» (nec plus, nec minus, nec aliter) (1) .

La riforma liturgica latina.
La riforma liturgica che ebbe luogo dopo il Concilio vaticano secondo modificò il rapporto con i riti orientali.
Le persistenti tendenze alla latinizzazione avrebbero dovuto basarsi, da allora in poi, sui riti riformati che in diversi modi si erano ancor più allontanati dagli autentici principi liturgici orientali oltre all’antica tradizione liturgica latina.

Inoltre, le motivazioni teologiche comunemente date a sostegno della riforma e la forza della convinzione  con cui venivano sostenuti molti abusi liturgici ad occidente furono spesso tali da far intendere più che chiaramente che si riteneva che fossero le pratiche orientali tradizionali ad essere gravemente errate o difettose.
Per esempio, la riforma latina vide il quasi universale abbandono della tradizione dell’orientamento liturgico, cioè della celebrazione della  Messa con il sacerdote che si rivolge all’oriente liturgico: il che comporta che (tranne un minimo numero di chiese che fanno eccezione) il celebrante sia rivolto nella stessa direzione dei fedeli ("ad orientem").
La promozione di questo cambiamento, che non era stato discusso dal Concilio vaticano secondo e non è mai stato obbligatorio nella Chiesa latina, è stato accompagnato da una polemica contro la pratica tradizionale che venne sprezzantemente descritta come «il prete che dà le spalle al popolo». Questa polemica non è sostenuta nei documenti ufficiali della chiesa ed è stata spesso criticata, in modo rilevante da Joseph Ratzinger (2).

Essa è nondimeno molto diffusa ed è chiaramente applicabile alla tradizione della celebrazione ad orientem nei riti orientali.
La Congregazione delle Chiese orientali ha ritenuto necessario affrontare l’argomento:
Non si tratta in questo caso, come spesso viene ripetuto, di presiedere la celebrazione volgendo le spalle al popolo, ma di guidare il popolo nel pellegrinaggio verso il Regno, invocato nella preghiera sino al ritorno del Signore. Tale prassi, minacciata in non poche Chiese orientali cattoliche per un nuovo, recente influsso latino, ha dunque un valore profondo e va salvaguardata come fortemente coerente con la spiritualità liturgica orientale (Il Padre incomprensibile, 107).


In modo simile, la stessa istruzione trova necessario difendere la tradizione orientale di far distribuire la s. comunione da parte dei chierici; un digiuno eucaristico più lungo che quello in vigore oggi nella Chiesa latina; un orientamento penitenziale della liturgia; l’uso dell’arte sacra e delle forme architettoniche tradizionali per le chiese. Tutte queste sono caratteristiche della tradizione liturgica latina che sono state oggetto di critiche, disprezzo ed anche di messa in ridicolo nel corso del dibattito sulla riforma liturgica.

Un documento precedente della Congregazione delle Chiese orientali, l’istruzione Osservazioni su «L’ordine della santa Messa della Chiesa di rito siro malabarese 1981» del 1984, offre ancora altri esempi dello stesso fenomeno. Si fa riferimento alla diffusa critica teologica della preghiera silenziosa nella liturgia:
Si è detto talora che ogni preghiera liturgica dovrebbe essere pronunciata ad alta voce così che ognuno possa sentirla. Questo principio è falso sia storicamente sia liturgicamente. Alcune preghiere sono destinate specificamente ad essere pronunziate durante il canto, o in processione, o durante altre azioni del popolo, oppure sono apologie per il celebrante. Così come il clero non deve contare tutto quello che conta il popolo, anche il popolo non deve udire tutte le preghiere. Invero, recitare ad alta voce tutte le preghiere interrompe il fine proprio della struttura del culto.

 
L’attacco contro la preghiera silenziosa nella Messa è anche fortemente contrastato da Ratzinger (3). Esso non è in nessun modo parte della teologia ufficiale della riforma post conciliare, ed in effetti il messale del 1969 contiene non poche preghiere sacerdotali silenziose. E’ nondimeno vero che la riforma e la sua applicazione hanno spostato la pratica della Chiesa latina molto lontano dalle preghiere silenziose e questo ha aperto una polemica teologica in ragione del fatto che tali preghiere escluderebbero erroneamente il fedele della partecipazione liturgica.
Le Osservazioni indicano ai vescovi della Chiesa siro-malabarese di resistere alle tendenze latinizzanti che introdurrebbero preghiere non prescritte nel loro rito, la proclamazione delle Scritture da un leggio invece che dall’altare, processioni offertoriali sovraccariche e preghiere offertoriali spontanee.
Su quest’ultimo tema, nota il documento, in
relazione agli esperimenti liturgici nella Chiesa latina: «Non vi è bisogno di imitare gli errori degli altri».

Un parallelo generale fra le tradizioni liturgiche orientali e il rito romano classico è
l’approccio alla partecipazione che non dipende dal vedere tutte le azioni del celebrante o ascoltare tutte le sue parole. Come notò Giovanni Paolo II: «Il tempo prolungato delle celebrazioni, la ripetuta invocazione, tutto esprime un progressivo immedesimarsi nel mistero celebrato con tutta la persona» (Orientale Lumen, 11).


Il ruolo dell’usus antiquior del rito romano.
Le polemiche teologiche correnti contro
aspetti della tradizione liturgica comune della
Chiesa, e contro la stessa nozione di tradizione, minano il programma di conservazione e resistenza indicato dal Concilio vaticano secondo e minano altresì le dichiarazioni di rispetto per le tradizioni dei cristiani orientali che non sono in comunione con Roma. Alle domande che sorgono per i liturgisti e per tutti i cattolici del rito latino (la tradizione liturgica ha pregi? è concetto utile e capace di indirizzare l’azione?) la risposta non può essere «sì» per l’Oriente e «no» per l’Occidente latino.
Come si esprime Il Padre incomprensibile:
Il primo dovere di ogni rinnovamento liturgico
orientale, come accadde anche per la riforma liturgica in Occidente, è quello di riscoprire la piena fedeltà alle proprie tradizioni liturgiche, fruendo della loro ricchezza ed eliminando ciò che ne abbia compromesso l’autenticità.
Questa cura non è subordinata ma precede il cosiddetto aggiornamento (18).

E’ semplicemente impossibile riconoscere con convinzione il valore delle tradizioni liturgiche dell’Oriente e rigettare i loro analoghi occidentali, non solo perché le pratiche liturgiche tradizionali in questione sono nel dettaglio in molti casi identiche, ma perché il concetto stesso di tradizione è in questione.
Papa Giovanni Paolo II indicò che era precisamente qualcosa per la maggior parte perduta in Occidente che è di valore permanente e contemporanea in Oriente:
Spesso oggi ci sentiamo prigionieri del presente; è come se l’uomo avesse smarrito la percezione di far parte di una storia che lo precede e lo segue. A questa fatica di collocarsi tra passato e futuro con animo grato per i benefici ricevuti e per quelli attesi, in particolare le Chiese dell’Oriente offrono uno spiccato senso della continuità, che prende i nomi di Tradizione e di attesa escatologica (Orientale Lumen, 8).
In una risposta a un giornalista russo, Papa Francesco fu ancora più chiaro sul punto:
Nelle chiese ortodosse, hanno mantenuto la precedente liturgia che è così bella. Noi abbiamo perso qualcosa del senso di adorazione. Gli ortodossi lo hanno conservato: Lodano Dio, adorano Dio, cantano, il tempo non conta. Dio è al centro, ed io vorrei dire, visto che lei me lo chiede, che questa è una ricchezza (4).
Solo quando l’usus antiquior trova luogo nell’ordinaria vita liturgica delle parrocchie e diocesi, con il sostegno visibile di vescovi e preti, i principi teologici male intesi che abbiamo ricordato, possono essere separati, agli effetti pratici, dall’indirizzo ufficiale della Chiesa. Di più, quando i cattolici hanno esperienza di quelle forme del rito romano essi sono molto più capaci di comprendere il valore dei riti orientali, la natura della partecipazione del laicato in essi e il valore della tradizione liturgica in sé. 

Come segnalava Papa Benedetto XVI nella sua Lettera ai vescovi del 2017:
Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto.
Lo stabilimento di comunità di cattolici di rito non latino in Stati ove domina l’eredità del rito latino dà ulteriore forza a queste considerazioni. In quel contesto, Papa Giovanni Paolo II raccomandava che i cattolici di rito latino prendessero familiarità con la liturgia dei loro fratelli orientali:
Credo che un modo importante per crescere nella comprensione reciproca e nell’unità consista proprio nel migliorare la nostra conoscenza gli uni degli altri. I figli della Chiesa cattolica già conoscono le vie che la Santa Sede ha indicato perché essi possano raggiungere tale scopo: conoscere la liturgia delle Chiese d’Oriente
(Orientale Lumen, 24).
La liturgia latina tradizionale può in molti modi essere il ponte per raggiungere la comprensione che egli desiderava.


In questo contesto, non sorprende che Summorum Pontificum fosse ben ricevuta dall’allora patriarca di Mosca, Alessio II. Come riferì l’agenda Zenit all’epoca:
L’impulso di Benedetto XVI per permettere una più ampia celebrazione del Messale romano del 1962 ha ricevuto una positiva reazione del patriarca di Mosca Alessio II. «Il recupero e la valorizzazione dell’antica tradizione liturgica è un fatto che salutiamo positivamente», ha detto Alessio II al quotidiano italiano «Il Giornale». La lettera apostolica di Benedetto XVI Summorum Pontificum emanata in luglio contiene nuove norme che permettono l’uso del messale del 1962 come forma straordinaria della celebrazione liturgica.
«Noi teniamo con molta forza alle tradizioni», ha continuato Alessio II. «Senza la fedele custodia della tradizione liturgica, la chiesa ortodossa russa non avrebbe potuto resistere alla persecuzione».
I cattolici di rito latino non possono attendersi di essere presi sul serio quando professano il valore delle antiche tradizioni dei riti orientali, se essi non accordano un eguale rispetto alla loro propria tradizione.


Titolo originale: Position Paper: Eastern Churches, in «Gregorius Magnus», 13, Summer 2022, pp. 44-46;

NOTE

(1) Pio X usò la frase nella prima parte del 1911 in un’udienza privata con Natalia Ushakova, riferendosi alle proposte di latinizzazione che erano discusse nella comunità cattolica russa.

(2) Ratzinger, Spirit of the Liturgy, 80-81.

(3) Ratzinger, Spirit of the Liturgy, 213-16

(4) Papa Francesco, Viaggio apostolico a Rio de Janeiro, 28ª giornata mondiale della gioventù, conferenza stampa nel
viaggio di ritorno, 28 luglio 2013