sabato 15 giugno 2024

Essere figli di Dio significa essere liberi in Lui nella Legge dell'amore (don Dolindo Ruotolo)

Il capitolo 8° costituisce come il centro della lettera di san Paolo ai Romani, e parla del quarto frutto della giustificazione, ossia della felicità dell'uomo rigenerato in Gesù Cristo per mezzo del Battesimo. 
L'uomo così giustificato, ha la grazia in questa vita (1-11) e la gloria nella vita futura (12-27). Tutto questo per l’infinita bontà di Dio verso l’uomo (28-39). 
 

 
« 1 Nessuna condanna v'è dunque ora per quelli che sono in Cristo Gesù, e non camminano secondo la carne»
 
L’Apostolo comincia col dire che con la nuova Legge, ossia nello stato dell’uomo rigenerato, non v'è alcuna condanna per quelli che sono in Gesù Cristo e non camminano secondo la carne. 
Chi è rigenerato in Gesù Cristo per il Battesimo è liberato dal peccato originale, e per l’eccesso della divina misericordia anche dai peccati attuali. 
Se egli morisse in quello stato, andrebbe diritto al Paradiso, come vi vanno i bambini innocenti, liberati dal peccato originale. 
Dunque, in lui non v’è più alcuna macchia, non v'è condanna, non v'è pena eterna. 
È libero dall'ira di Dio e dal peccato, è libero dalla Legge, perché vive nel compimento della Legge, vive di Gesù Cristo, incorporato a Lui, membro del suo Corpo mistico, tralcio vivo unito alla vera vite (Gv 14,19-20). 
 
Questo ineffabile dono è conservato da lui se non cammina secondo la carne, cioè se non perde l'innocenza con peccati attuali. Stando ancora nella prova del pellegrinaggio terreno, la grazia che riceve non lo rende impeccabile e quindi, se cammina nella carne, viene a rinunciare ai frutti della rigenerazione.
 
« 2 Poiché la legge dello Spirito di vita in Cristo Gesù mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte.»
 
San Paolo chiarisce come avviene che l’uomo rigenerato nel Battesimo è liberato dalla condanna del peccato: nell'unione con Gesù Cristo la legge dello Spirito di vita, cioè lo Spirito Santo che vive nell’anima rigenerata, le comunica la vita soprannaturale per i meriti di Gesù Cristo, nell'atto stesso nel quale l’anima è liberata dal peccato e dalla morte eterna. 
 
« 3 Infatti, ciò che era impossibile alla Legge, in quanto era impotente a causa della carne, lo fece Dio »
 
Quest'opera ammirabile di rigenerazione la Legge non poteva farla, perché era data ad anime ancora macchiate di colpa e schiave del peccato. La legge dava il precetto, ma era impotente, a causa della carne, essa veniva come paralizzata per la guasta natura dell’uomo che dava la prevalenza alla carne.
 
« 3 Infatti, ciò che era impossibile alla Legge, in quanto era impotente a causa della carne, lo fece Dio che mandò il suo proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato »
 
Ciò che non poteva fare la Legge, lo fece Dio, compiendo quello che la Legge prefigurava e annunciava, e mandando il suo proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato; in Lui compì l’espiazione del peccato e la resurrezione dell’umanità, condannando il peccato nella carne innocente, santissima e divina di suo Figlio. 
 
« mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne »
 
Non diede a suo Figlio una carne di peccato, ma volle che il suo Corpo divino fosse formato per opera dello Spirito Santo nel seno di una Vergine Immacolata. 
Da un ramo incontaminato della radice di lesse, volle che spuntasse il suo Fiore divino, perché una carne macchiata non avrebbe potuto espiare i peccati degli uomini. Il Verbo Incarnato quindi era veramente Uomo come era veramente Dio, ma la carne assunta era in tutto come la nostra, fuori che il peccato. 
 
« 4 affinché ciò che la Legge dichiara giusto si compisse in noi che non camminiamo secondo la carne ma secondo lo spirito.»
 
Egli si caricò dei peccati di tutti, e in Lui Dio condannò il peccato, affinché ciò che la Legge dichiara giusto, ossia i suoi precetti di santificazione, si compisse in noi che, rigenerati dal Battesimo e uniti a Gesù Cristo, non camminiamo secondo la carne ma secondo lo spirito. 
La grazia dataci per Gesù Cristo ci fa adempire i precetti, ed essi si adempiono in noi, ossia con la nostra cooperazione.

« 5 Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace. »

L’Apostolo spiega perché quelli che vivono secondo la carne, e si lasciano dominare da essa, non possono compiere la giustizia della Legge: coloro che vivono secondo la carne, gustano le cose della carne... e le aspirazioni della carne portano alla morte. 
Quelli, invece, che vivono secondo lo spirito, sentono le cose dello Spirito... e le aspirazioni dello spirito sono vita e pace. 
 
Sta in questa grande verità il segreto della malvagità umana e dell’avversione di tanti infelici a Dio; sta in questo contrasto tra la came e lo spirito la vera ragione dell’implacabile guerra che i malvagi fanno alla Chiesa. 
Le teorie, i sistemi filosofici, le utopie politiche, la falsa scienza, il criticismo razionalista, e tutto il pesante bagaglio, più o meno ideali dei perversi, non sono che l’orpello per celare o giustificare gli obbrobri e le degenerazioni della carne.
Basterebbe considerare la recentissima storia di famosi dittatori moderni, per scorgere immediatamente, sotto l’ingannevole verdeggiare ideale, un pantano d’impurità. 
 
« 7 Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero. 8 Quelli che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio.»
 
L‘aspirazione della carne, infatti -- soggiunge l’Apostolo — è nemica di Dio, non essendo soggetta alla Legge di Dio, e non essendone capace. Non accetta la Legge di Dio e vi si oppone con aperta ribellione; non è capace di accettarla, perché nella sua degradazione giunge a tale abisso d’iniquità che non può salire al di sopra della propria miseria. 
 
Quando si vede, dunque, uno che contrasta alla Legge di Dio, ci si trova sempre innanzi ad un essere avvilito al disotto dei bruti, come si può facilmente constatare negli infelicissimi senza Dio, e in generale nei comunisti, che sono sempre quanto di più infelice abbia mai avuto l’umanità.

Si deve notare che quando san Paolo parla di carne, intende parlare del peccato in genere e di tutte le concupiscenze dei sette peccati mortali. Siccome, però, la maledetta impurità è la concupiscenza che emerge e domina su tutte le altre, le sue parole possono riferirsi, e si riferiscono, infatti, a questo peccato che può chiamarsi causa ed effetto di tutti gli altri. Persino l’idolatria dei pagani, che aveva l’apparenza di religiosità, sia pure traviata e avvilita, nasceva dall’impurità e produceva impurità. 

Per questo san Paolo conclude: Quelli che sono carnali non possono piacere a Dio; essi rifuggono da Dio e Dio li abomina, perché Dio è infinitamente puro e santo; abominandoli, il Signore li ricaccia da sé e li condanna alla morte eterna. 

« 9 Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene »

Rivolgendosi in modo particolare ai Romani, ai quali scrive, san Paolo applica loro ciò che ha detto, e si consola della grazia che li santifica e li eleva, in contrasto col mondo pagano nel cui centro essi vivevano: Voi, però --  egli esclama -- non siete carnali ma spirituali; lo siete per la vostra vocazione e per l’incorporamento a Cristo, e continuerete ad esserlo se conservate in voi lo Spirito Santo che vi ha uniti a Gesù Cristo e santificato. 
 
Lo Spirito Santo è lo Spirito di Cristo, poiché per Lui fu formato il suo Corpo nel seno di Maria, ed Egli ricolmò di grazie e di doni l'umanità assunta dal Verbo incarnato; ora, chi vive di carne e non di Spirito Santo non appartiene a Gesù Cristo. perché si distacca da Lui, e non vive della vita della quale Egli visse, essendo la carne diametralmente opposta allo Spirito Santo.
 
Se uno, poi, non vive di carne, ma di Spirito Santo, santificato e guidato dall’ Amore divino, Cristo è in lui, sia per concomitanza, essendo inseparabili le tre divine Persone, e sia perché lo Spirito Santo glielo dona e lo forma in lui.  

« 10 E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione. »

Il corpo allora è morto, cioè è ancora soggetto alla morte per il peccato originale, ma lo spirito vive a ragione della giustizia, ossia, come dice il testo greco, della giustificazione comunicata dallo Spirito Santo nel Battesimo. 
 
San Paolo dice che lo spirito vive, cioè che l’anima adorna di grazia e unita allo Spirito Santo vive di una vita soprannaturale, nonostante che il corpo sia morto, ossia sia sottoposto ancora alla morte e muoia di fatto. 
Egli non dice che il corpo morirà, ma lo considera per anticipazione come già morto, dato che la vita mortale è un continuo cammino verso la morte, e che il mondo vede continuamente la morte passare da trionfatrice tra gli uomini.
La morte, però, non è padrona dell’uomo rigenerato nello spirito che per poco tempo, e quindi, strettamente parlando, non può considerarsi quasi come un fallimento dell’opera redentrice del Cristo: se lo Spirito di Colui che risuscitò Gesù dalla morte abita in voi per la grazia da voi ricevuta, Egli che risuscitò Gesù Cristo dalla morte, vivificherà anche i vostri corpi mortali, a ragione del suo Spirito abitante in voi. 
 
Gesù Cristo, come Dio, risuscitò per virtù propria, ma come Uomo risuscitò per l’onnipotenza di Dio, e quindi del Padre, al quale si riferiscono le opere dell’onnipotenza. 
 
« 11 E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.»
 
San Paolo espone questo argomento per dimostrare che anche il corpo mortale di uno, rigenerato dalla grazia dello Spirito Santo e incorporato a Gesu Cristo, risorgerà: se lo Spirito del Padre, che risuscitò dalla morte Gesù Cristo, abita per la grazia nell’anima cristiana, questa, insieme col proprio corpo, è tempio vivo dello Spirito Santo, ed il Padre ne farà risorgere anche il corpo, santificato dalla presenza dello Spirito Santo. 
San Paolo considera qui solo la resurrezione dei giusti, perché questa è vera risurrezione; quella dei peccatori è una seconda morte, e se essi risorgono anche per divina potenza, questo non avviene perché sono tempio dello Spirito Santo, ma perché debbono presentarsi innanzi ai Giudizio di Dio, e pagare anche col corpo le proprie colpe.
 
« 12 Così dunque fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne; 13 poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l'aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete.»

Da tutto quello che ha detto, san Paolo trae come conclusione che noi, pur vivendo nella carne mortale, non dobbiamo vivere di carne, anzi dobbiamo darle la morte con la penitenza e mortificazione, negandole tutte quelle soddisfazioni che sono contrarie allo spirito. Dunque, o fratelli — egli esclama — noi non siamo debitori alla carne da dover vivere secondo la carne, perché se vivrete secondo la carne morirete, se poi con lo spirito mortificherete le azioni della carne vivrete. 

La carne non può affacciare su di noi alcun diritto; poiché non è per la carne che siamo capaci dei doni di Dio. Essa, anzi, deve come morire sotto l’impero dello spirito, e dev’essere con questa santa mortificazione strumento dello spirito. 

« 14 Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. »

Noi non viviamo per questa misera terra, ma aspiriamo ad essere figli di Dio, per essere poi eredi dell’eterna gloria; ora, chi non vive di carne ma è mosso dallo Spirito Santo, questi è chiamato figlio di Dio, perché per la grazia dello Spirito Santo è incorporato a Gesù Cristo, è membro del suo Corpo mistico, e partecipa in Lui alla sua filiazione.

Essere figli di Dio significa essere liberi in Lui nella Legge dell'amore; essere uomini carnali significa invece essere schiavi dei sensi e ritornare ad essere pagani, nella legge dell’oppressione e del timore. 

« 15 E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!». 16 Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio.»

Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito di schiavitù, né i convertiti dal paganesimo hanno lasciato l’idolatria per passare nel dominio della Legge dell’ Antico Patto dove il bene si compiva per timore, ma noi in Gesù Cristo abbiamo ricevuto lo spirito di adozione, per il quale ci rivolgiamo a Dio come figli, e lo chiamiamo affettuosamente Padre.

San Paolo cita una parola aramaica, Abbà, che egli stesso traduce: O Padre!, indicando il principio dell'’orazione insegnataci da Gesù: Padre nostro che sei nei: cieli, ecc. 

E non solo noi preghiamo Dio chiamandolo Padre, ma, per la grazia santificante donataci dallo Spirito Santo, sentiamo per Dio la fiducia di figli, e sospiriamo alla gloria eterna come a nostra eredità futura. 
 
« 17 E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.»
 
Se siamo figli, siamo anche eredi, e se sospiriamo all’eredità eterna per Gesu Cristo che in Lui ci ha dato il diritto di eredi facendoci suoi coeredì, noi intendiamo di essere figli di Dio. 
Né le pene della vita possono oscurare la nostra fiducia filiale in Dio, perché, essendo coeredi in Cristo dell’eterna gloria, noi intendiamo che dobbiamo partecipare ai suoi dolori per partecipare alla sua eredità.

Don Dolindo Ruotolo
Commento alla Lettera ai Romani (8,1-17) da "Lettere di San Paolo Apostolo" (pagg 171-178)

 

Dalla lettera ai Romani 8,1-17

8 Ora, dunque, non c'è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. 2Perché la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte. 3Infatti ciò che era impossibile alla Legge, resa impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, 4perché la giustizia della Legge fosse compiuta in noi, che camminiamo non secondo la carne ma secondo lo Spirito.
5Quelli infatti che vivono secondo la carne, tendono verso ciò che è carnale; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, tendono verso ciò che è spirituale. 6Ora, la carne tende alla morte, mentre lo Spirito tende alla vita e alla pace. 7Ciò a cui tende la carne è contrario a Dio, perché non si sottomette alla legge di Dio, e neanche lo potrebbe. 8Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio.
9Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 10Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. 11E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.
12Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, 13perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. 14Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: "Abbà! Padre!". 16Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. 17E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.


domenica 9 giugno 2024

Lettere del Card. Giuseppe Siri ai suoi sacerdoti

Brevi estratti dal libro PATERNITÀ SPIRITUALE DEL CARD. GIUSEPPE SIRI 
Lettere personali ai suoi sacerdoti (1946-1987)
Ed. Cantagalli


AL LETTORE

Il 2 maggio 1989 chiudeva gli occhi a questa esistenza terrena il Cardinale Giuseppe Siri [vescovo di Genova dal 1946 al 1987].

Dei 99 scatoloni contenenti i suoi scritti, sono state pubblicate parte delle lettere che il Cardinale era solito scrivere ai suoi sacerdoti, in particolare quelle per l’initio muneris [inizio dell'apostolato sacerdotale].

Queste lettere rivelano la premura del Vescovo per i suoi preti, la sua delicatezza, la sua paternità, la sua profonda conoscenza delle anime e delle situazioni. Tali lettere sono edificanti per tutti: mostrano intelligenza, intensa spiritualità, animo pastorale unito a grande pazienza.

Terminato di riflettere sulle pagine che compongono questo testo, nel lettore si saranno formate due convinzioni:

- quando il Cardinale, nella sua esistenza terrena, era in mezzo a noi, dietro a un'immagine austera e rigorosa, nel suo cuore nascondeva pudicamente sentimenti teneri e affettuosi;

- il suo episcopato si può considerare un’epoca tra le più luminose e feconde per il calore e la certezza della fede che sapeva comunicare, per la concretezza della carità cristiana, per la capacità di rispondere alle interpellanze dei tempi, non con cedimenti o mimetismi, ma attingendo al patrimonio inalienabile della verità. 

Il mistero della Comunione dei Santi ci offre questa certezza: il nostro “antico” Arcivescovo, nella sua ininterrotta conversazione celeste, prega per l'amata Chiesa di Genova affinché resti fedele al Signore Gesù di sempre!

Genova, 1° novembre 2023 Solennità di Tutti i Santi

(Dalla prefazione di Mons. Mario Grone)


 


Genova, 25 dicembre 1959


Mio caro Don Pedemonte,

oggi, Natale, ho pregato per te. Questo vale l'augurio: accoglilo collo stesso animo col quale ti è porto. 

Vengo a trattenermi alquanto con te, perché penso che trascorso il primo periodo della tua esperienza sacerdotale meglio posso darti alcuni consigli, che vorrei ti accompagnassero sempre nella vita. 

Sei nel momento in cui si soffia il vetro e tutte le impronte o modanature diventano dirimenti per il futuro. Se vuoi che la tua vita abbia il massimo di merito, il massimo di fecondità operativa, il minimo di dolori inutili, lasciala sempre guidare dalla umile ed interiore obbedienza. 

Questo è il segreto della maggior benedizione di Dio, del maggiore aiuto suo nelle difficoltà nostre e della più intensa e corroborante pace e gioia interiori. Tu sai che i portatori della obbedienza di Dio sono persone e fatti. Tra i primi ci sono tutti i tuoi Superiori dai più vicini ai più lontani, nei secondi ci sono le Leggi e i casi della vita indicatori di quello che Dio dispone. Vorrei che questa impronta ben profonda conferisse alla tua vita in ogni momento e nelle più disparate circostanze il criterio della saggezza calma, operante, invincibile. 

Ciò non accadrà senza luce e la luce è la pietà. Sai benissimo che cosa significhi questa parola. Lascia io ti ricordi che più faraì Operando se più avrai preparato pregando. 

E della preghiera la maggiore è quella mentale, ossia la meditazione.
Vorrei anche dirti che per mantenere nella tua pietà quell'aspetto quasi umano di confidenza e di afflato, devi darle una grande impronta Eucaristica e alimentarla col molto tempo speso, quanto e quando puoi, davanti al Santissimo Sacramento. 

Se vuoi avere intero il merito di quello che fai, abbi nel cuore il sufficiente distacco anche dalle persone che diventano oggetto del tuo apostolato ed abbi sempre la direttiva di volgerle piuttosto a Dio che non di legarle a te stesso. 

Qui si ha veramente quella elevatezza di ministero che lo difende da ogni strettezza ed egoismo e che permette anche il massimo di concordia con confratelli e collaboratori. 

Sai anche che un sacerdote ha bisogno, più di tutti gli altri, delle virtù dette di relazione (che sono la umiltà, la pazienza, la generosità, la sincerità ed infine la carità). Infatti egli è il “viaggiatore di Dio”, egli deve allacciare rapporti per stringere legami tra le anime e Dio, deve agire su di loro, deve elettrizzarle, etc. Senza doti di relazione, che quando non si hanno naturalmente sono magnificamente supplite dalle virtù acquisite, il sacerdote diventa un torsolo a mercato finito. 

Nelle doti di relazione, vi sono particolari, che possono parere minuscoli e che invece sono decisivi, anche perché a realizzarli occorrono delle virtù sostanziali. Eccone alcuni, che raccomando molto alla tua attenzione: non parlare mai male di nessuno, non incitare mai altri a far pettegolezzi con noi, sforzarsi di giudicare sempre bene anche contro le apparenze, ben sapendo che è meglio se mai sbagliare qualche volta per eccesso che per difetto, non alimentare mai la animosità di nessuno. 
Tu conquisterai molte volte l’anima di coloro che, anche non meritandolo, avranno avuto il dono di un tuo giudizio buono tollerante e paterno. 
A dire tutto questo mi spinge l'ambiente pure nel quale tu vivi oggi, perché [...] ha una storia lunga dove il pettegolezzo e la chiacchera hanno parti maggiori che altrove e dove la pace ha dovuta essere tutelata più che altrove, anche se oggi le cose volgono decisamente al meglio.

Tu hai particolari doti nel lavoro colla gioventù: fa che si sviluppino sempre nella linea di una maggiore spiritualità e interiorità. Noi dobbiamo preparare dei Santi e delle Tempre per il domani della Chiesa e non solamente delle fronde verdi da adornare in modo effimero qualche parata e qualche palcoscenico. 

Per il tempo in cui tu dovrai rimanere costì, breve o lungo che sia, guarda di essere sempre una cosa sola col tuo Parroco.

Non posso escludere che questo consiglio possa a chiunque in qualche momento costare, ma l’amore di Dio ti fornirà la energia necessaria ad osservarlo, ben sapendo che le cose noi si fanno per superiori motivi. La Santa Vergine, figlio mio, ti conduca per mano sempre! 

In qualunque momento trovassi qualche difficoltà, ricordati che al tuo fianco ci sono io. Incoraggio e benedico cordialmente.

+ Giuseppe Card. Siri



Genova, 15 aprile 1959

Mio caro Prevosto,

ricevo la Sua lettera [Sacerdote anziano ha difficoltà a lasciare la parrocchia, in cui è da 34 anni - NdC] Io non ho alcuna voglia di disturbare la Sua quiete o comunque di metterla in vero disagio.

La prego tuttavia di riflettere, già che questa Sua lettera me ne dà inopinatamente la occasione, che io ho timore di lasciare entrare i sacerdoti nell’età avanzata, rimanendo essi dove sono soli, dove non hanno aiuto di confratelli cooperatori e dove possono sentire troppo, ad un certo momento, il peso degli anni. Desidero che tutti, prima di toccare un certo varco di età vengano a trovarsi in posizione più umana e più adeguata alla loro condizione e più rispettosa dei loro eventuali bisogni. 

Mio caro Prevosto, come vede la mia preoccupazione è veramente fondata. Ella non potrà sempre fare la vita meritoria e faticosa che fa ora con due Chiese ed un tale dislivello. La supplico: ci pensi.

Questo dico per Lei e non per me, Ella dà tale buon esempio che di Lei posso mostrare l'esempio sacerdotale integentissimo, semplice, sacrificato e contento di poche soddisfazioni. Ma la prego, ci pensi. 

Gli anni passano presto, purtroppo e la fatica potrebbe penarle. Di sacerdoti non ne potremo mandare, perché anche quelli che mi aiuteranno per la Liturgia, ruberanno qualche ora alle loro parrocchiali e non parrocchiali occupazioni. 

Coraggio, affettuosi saluti e benedizione

+ Giuseppe Card. Siri



Genova, 19 agosto 1953

Mio caro Don [...],

ho saputo casualmente, ma provvidenzialmente, che il tuo primo approccio con la sede di lavoro a te assegnata, ha avuto una certa ombra ed ha manifestata una certa durezza. 
Ne ho avuto gran pena e pertanto scrivo immediatamente, affinché - se possibile — la pena ti sia lenita e sappia che il tuo Vescovo ti è vicino.

Sono certo che la accoglienza, rivelatasi poco incoraggiante, non ha mostrato il vero carattere di Chi l’ha fatta. Egli, in realtà, ha eccellenti doti e buon cuore; forse bisogna dire soltanto che non è stato felice; tuttavia mi rendo ben conto che il seminarista di ieri non può essere di colpo adusato a tutte le dure carezze. Figlio mio, coraggio e fiducia! 

Ho anche saputo che costì non hai il trattamento adeguato. Anche questo mi ha addolorato e sento di dovere intervenire. Ti faccio pertanto obbligo di informarmi circa quanto ti è stato corrisposto nel primo mese, affinché possa farmi una idea esatta ed intervenire. Siamo tutti poveri, ma non posso tollerare che eventualmente qualcuno debba diventare addirittura misero. 

Le prime schermaglie della vita non ti abbattano! Non permettere che esse diventino occhiale colorante tutta la realtà: ti metteresti nel falso. Giudica bene chi ti tratta meno bene e a poco a poco scoprirai che il mondo è migliore. 

Per qualunque cosa scrivimi confidenzialmente. Le tue lettere, come quelle degli altri, le vedrò solamente io. Anche questa mia lettera è confidenziale ed è esclusivamente per te. 

Approfitto della presente per raccomandarti di far sempre e bene ogni giorno la tua meditazione e di dare somma importanza in genere alla preghiera, che è il vero insostituibile fondamento della nostra azione. 

Affettuosamente vicino, Ti benedico ed attendo un tuo ri scontro, pur nella attesa di vederti qualche volta.

[Nota marginale a mano: “è venuto lui” - NdC].

+ Giuseppe Card. Siri



Genova, 5 gennaio 1964 

Caro Don Boggi, 

ho voluto che tu avessi una strada aperta per penetrare nella facoltà di filosofia e, domani, di magistero. 

Cerca di avere molto metodo nella distribuzione del tuo tempo per poter attendere ai tuoi attuali doveri (non più la morale fondamentale) in modo da non diminuire i doveri che sono stati aggiunti. Tieni ben presente questo. 

La battaglia più grave della Chiesa la si combatte sul fronte della cultura. Tra le molte ragioni per dimostrare questo c'è il Concilio. 

È dunque necessario per il bene delle anime che noi si conosca, si penetri, si agisca in quel campo con preparazione e strumenti degni. Cerchiamo di guardare lontano. 

Il materialismo sta permeando tutto e tutti; questo materialismo cerebrale, sotto la forma di esagerata ammirazione per la scienza cosmica, tenta di entrare anche tra i Cristiani, anzi tra i maestri, se ciò è mai possibile. La organizzazione del male e dell'errore ha raggiunto punte finora sconosciute, sottili, debitamente anestetizzate. 

Noi siamo sicuri del traguardo, ma nella via Dio permette che le cose vadano anche a modo loro, chiede allora sofferenza e virile difesa. 

La tua destinazione alla Università non è un atto solito e burocratico, no. Esso fa parte di una visione chiara e di un programma generale non meno chiaro. Il canto della sirena si è fatto così armonioso e seducente da indurre in errore talvolta "persino gli Eletti". È nella vecchia sede filosofica, ancorata tenacemente ai dati del buon senso comune, che sempre fu ed al quale sempre si ritorna, che si fanno i veri uomini di cultura e i veri difensori della sua purezza e della sua missione.

Coraggio adunque. Il cammino è lungo, ma bisogna sapere dove si vuole andare. Buon anno e benedizione affettuosa. 

+ Giuseppe Card. Siri

 



Caro Don Manarolo,

ricevo la tua lettera di ieri e mi preoccupo subito di metterti in perfetta pace. 

lo non farò nulla, mai, che ti possa dare sofferenza ed ho solo il desiderio di sistemarti nel modo che più si confà alla tua salute ed al tuo stato d'animo. Quale sia questo modo non so ancora; lo saprò solo dopo che avremo tranquillamente parlato insieme. Quando questo sarà accaduto, potrò mettermi alla ricerca, è dunque utile che ci si veda presto. 

Per la parte economica non sarà mai che io lasci un sacerdote alla deriva. Ti basti questa assicurazione generale. I particolari verranno certamente dopo il discorso di cui ho detto sopra. 

Tanto meno ho intenzione, in questa tua e sua situazione, di separarti da tua madre. 

Vivi dunque tranquillo. A Regina Pacis provvederò. 

Ed ora vengo ad un discorso assai più importante. 

Prego il Signore perché ti doni luce e grazia per comprendere queste cose: 

- la preziosità della tua situazione purché accetti la volontà del Signore in questa delimitazione della tua attività;

- la preziosità della tua opera e la fecondità che viene data ad essa dalla sofferenza fisica e morale; 

- la indefinita dilatabilità dell'amor di Dio, comunque di troviamo e qualunque cosa ci sia impedita di fare; 

- la utilità di questo tuo stato per la Diocesi intera. Credo che "un giorno” capirai di avere avuta una vocazione di “elezione”. 

Ringraziane Dio!

Vedi tutto può essere sereno, anzi meraviglioso e in tutto questo non ci sono limiti fino a che si è in terra. Dio rende preziosa la nostra vita in molti modi.

Auguro buona Pasqua a te e a tua Madre. Sia felice, perché è come la tua malattia, segno e principio di redenzione. Benedico con tutto il cuore.  


+ Giuseppe Card. Siri




Genova, 24 marzo 1970

Mio caro Prevosto, naturalmente ringrazio degli auguri e li contraccambio pasquali a te e a tutti. Possiate avere la gioia nella pace del Signore. 

Ritengo tuttavia che alla tua impegnativa lettera io debba dare una risposta, perché si tratta di argomento serio.

In primo luogo prendo atto con riconoscenza a Dio per le ottime notizie, che mi dai circa i risultati del vostro lavoro. 

Bisogna che il vostro lavoro non vi consumi. So bene che il caso di Don [...] ha le radici in ragioni sussistenti in modo indipendente dal lavoro parrocchiale. Però il suo caso è un campanello di allarme. Il suo collega, chiunque sia, potrà avere buon fisico e nervi normalissimi, ma avrà certamente dei limiti, come li hai tu.

Sarebbe doloroso e dannoso che ad un certo momento crollaste tutti per un lavoro disordinato, pesante e senza respiro. 

Ecco in proposito i miei consigli. 

1. Esamina bene quello che è pleonastico in tutta la tua organizzazione e, se ne trovi, sfronda. 

2. Cura che ci sia ordine: affastellare non giova a nessuno, consuma e riduce prima o poi al silenzio. 

3. Stabilisci per te e per tutti ore “intoccabili”. Esse rappresentano la valvola di sicurezza e di ricupero. 

4. Sii severo nell’esigere che le radunanze serotine non si prolunghino. È una malatria quella di non saper concludere alla sera. 

5. Lavora sempre in ordine a trovare e formare laici degni, esemplari, discussi da nessuno, sui quali rovesciare parte del vostro lavoro. Considera la opportunità, a tale effetto, di avere, secondo un consiglio dato più di 20 anni innanzi, un segretario parrocchiale, che vi liberi da cose inutili.

6. Se troverai un Cappellano che stia in Chiesa a servire i fedeli e confessare i penitenti, accoglilo come un inviato da Dio. 

Il resto a voce. Felicissima Pasqua. Non correre troppo: anche tu hai avuto e puoi tornare ad avere dei limiti: l’ottimo talvolta è nemico del bene. Benedico.

+ Giuseppe Card. Siri

 


Genova, 3 dicembre 1957

Caro Don [...] hai fatto bene a scrivermi; quando hai dubbi fallo sempre con piena libertà. 

Se puoi vieni a parlarmi di quello che in questo momento evidentemente o ti impressiona o ti preoccupa. Ci sono venerdì, poi lunedì, martedì e mercoledì della prossima settimana e, quando vieni, dì al Segretario che mi avverta subito.

Se non puoi venire (e può essere meglio, ove il venire creasse qualche ombra) scrivi con sicurezza e libertà. Dico: “con sicurezza”, perché la posta la vedo io solo ed i Segretari non leggono se non quello che do io a loro per eseguire pratiche. Ciò ti dice che non c'è da temere delle indiscrezioni.

Ho detto: “con libertà”, perché tutto puoi dire, salvo il segreto di Confessione e puoi stare tranquillo sulla mia capacità di tacere, se tacere è necessario e conveniente.

Resto in attesa e cordialmente ti benedico. 

+ Giuseppe Card. Siri



Genova, 24 giugno 1959

Caro Don[...], non sarà mai che io mi opponga alla chiamata del Signore [vocazione missionaria — NdC], quando questa risultasse certa. Pertanto, se sei veramente chiamato, va “in nomine Domini” e possa servire pienamente Dio. 
 
Ti ricordo solo che io Ti avevo ordinato per questa Diocesi, in questo momento provata per il suo crescere e per la troppa immigrazione. Ti ricordo ancora che nelle presenti distrette per la tua partenza un posto resterà certamente vuoto. 
 
Con questo ho detto tutto e credo di aver fatto tutto il mio dovere. Non posso dire di più, non posso dire di meno. 
 
Non assumo responsabilità oltre quella di dichiarare che, se sei chiamato puoi andare.

Dio ti benedica sempre.

+ Giuseppe Card. Siri


Genova, 6 aprile 1974 
 
Caro don Chiapparo, 
ricevo la tua breve lettera accompagnato da un memoriale. Mi chiedi come regolarti in confessione e nella predicazione. 
 
Lodo il fatto di esserti rivolto al tuo Vescovo e rispondo subito, anche scusandomi della risposta un po’ sommaria, dato l'enorme lavoro di questo tempo pasquale. Se sarà necessario ritornerò, con più quiete, sull’argomento.

Ecco l'argomento formulato, non da te, ma dall’autore del memoriale: “Nella dottrina cattolica circa la indissolubilità del matrimonio ci sono delle contraddizioni. Pertanto come si può dire ora “votate contro il divorzio?”. 
 
Enucleata la questione vengo alla risposta.

Nego antecedens: è falso vi siano contraddizioni.

[scritto interrotto, perché giunse al Cardinale la notizia dell'incendio che aveva devastata la chiesa parrocchiale di N.S. della Provvidenza ed arsi Don Antonio Acciai (a. 50) primo parroco (da 11 anni), sua madre ed il Curato Don Orazio Chiapparo (a. 26) destinatario, appunto, della lettera.

Il Cardinale, infatti, annotò; “Haec epistola non prosequitur, quia destinatarius hac nocte per igne combustus una cum parocho suo et ejusdern parochi matre. Nonis aprilis 1974” (5 aprile 1974) - NdC]
.

+ Giuseppe Card. Siri

 



Genova, 3 ottobre 1975

Mio caro Don Dalla Mutta, 

stai per cominciare l'insegnamento della Liturgia. È la prima volta che questa materia viene affidata ad un Professore avente il titolo qualificato per la stessa. Vorrei darti alcuni orientamenti, ai quali ti prego attenerti, per poter così armoniosamente inserirti nell'organismo della Chiesa Genovese. 

1. Il tuo primo scopo non è quello scientifico, è quello formativo globale dei futuri ministri di Dio. La scienza sia teologica che storica deve essere strumento per coltivare nelle anime il “culto ufficiale del Signore”, ossia la adorazione. La adorazione accoglie i riflessi della “Maestà di Dio”. La “Maestà di Dio” è tale che ama il meglio della creazione, delle anime, delle arti e della bellezza nella materia e nello spirito. 

Questo senso della “Maestà di Dio” non osta all’amore, perché in Dio “Maestà” e “amore” si identificano. 

La perdita di questo senso ha creato la fredda e scostante aridità del Protestantesimo, ed oggi una azione irrazionalmente interpretativa delle sante decisioni della Chiesa tenta di reintrodourre la stessa spoliazione, la stessa freddezza.

2. Il secondo scopo è inoculare la “giustizia” verso Dio. Il culto è infatti un tentativo di piccola restituzione di quello che dobbiamo a Dio, Signore di tutto. Non ci sarà molta giustizia tra gli uomini, se non ci sarà giustizia verso Dio Creatore e Padre. Il debito di questa giustizia è tale, che — salvo il caso della irrazionalità e della superstizione — non può esistere un trionfalismo nel culto dovuto a Dio. 

3. È ovvio che coi due primi punti giungerai a dare una formazione spirituale ed un substrato resistente alla convinzione ed alla devozione liturgica. Ma essa avrà bisogno di molto contenuto teologico ed in questo ti raccomando una grande precisione, lontana dalle vaghe, aberranti mode imperversanti. 

Basta quanto ho detto perché ti sia chiaro come l’insegnamento della Liturgia, pur supponendo altre discipline teologiche assume oggi un ruolo importantissimo nella formazione dei sacerdoti. Noi dobbiamo vivere “di culto a Dio”. 

Faccio assegnamento sulla serietà della quale, anche con sacrificio, hai dato prova in tutte le articolazioni della tua vita e prego la Vergine Santissima di accompagnarti sempre.

Con ogni cordiale benedizione.

+ Giuseppe Card. Siri

 

Quando il sacerdote veramente consola - Don Dolindo Ruotolo


Quando il sacerdote veramente consola e veramente compatisce

Se il mondo capisse questa grande fonte di consolazione che è il sacerdote, non sarebbe così stolto da stare lontano e, peggio, da perseguitarlo. 
E se il sacerdote capisse di dover essere sempre la consolazione dei tribolati, non sarebbe a volte così incosciente da rendersi o vuoto di grazie o causa di dolore agli altri. 
Una tazza di caffè può essere salutare sollievo quando è ben condita di zucchero. Il sacerdote è lo zucchero di ogni amarezza della vita; non può essere altro che dolcezza per le anime, deve completamente dimenticare i suoi nervi, le sue sensibilità, le sue velleità. 
 
 

 
Per questo Gesù Cristo lo ha chiamato luce del mondo e sale della terra. Ogni tenebra dev'essere dissipata dalla sua luce, ogni amarezza dev’essere condita dal suo sale.

Ogni contatto del sacerdote con le anime dev'essere consolazione: le sue tribolazioni debbono essere in lui esperienze per consolare, poiché solo chi soffre sa compatire chi soffre; le sue intime consolazioni spirituali debbono renderlo come frutto dolcissimo che si matura ai raggi del sole per dare dolcezza a chi lo mangia.

Un frutto aspro non giova a nulla, inasprisce la bocca ed amareggia il ventre. Non può concepirsi, non deve concepirsi un sacerdote aspro, poiché egli è dolcificatore e consolatore di quelli che sono tribolati.

Dolorosamente è molto raro trovare dolcezza nelle persone; ognuno ha la sua asprezza e la sua angolosità, per cui è un arduo problema il trattare gli altri, sono i nervi, la stanchezza, i malanni, i dolori morali ché rendono aspri, ma con la grazia di Dio queste miserie possono vincersi e debbono vincersi, soprattutto da un sacerdote. 
 
Nel suo ministero, che è per eccellenza di consolazione, non c’è una cosa più dissolvente dei nervi, non c’è una cosa più scostante che le brutte maniere. 
Chi prende una bevanda per sollevarsi e trova invece un grande amaro, se ne disgusta per sempre. Così avviene alle anime quando si accostano ad un sacerdote e lo trovano aspro, duro, reagente, ipersensibile, intollerante, facile ad offendersi, interessato, litigioso, cupido, ecc.

È un'illusione pericolosa il pensare che con le maniere forti si combatte contro il male; non lo si combatte ma tutto al più si riesce per il momento a farlo dissimulare, salvo poi a farlo esplodere più virulento di prima.

Il male si combatte con la grazia di Dio, e la grazia, che è dolcezza di misericordia divina, non passa per un canale aspro. Se nella tazza c’è un fondo di sale come si può per essa somministrare un cordiale? Il sale lo rende disgustoso. 
Le guerre sono urti d’irruenza terribile tra due popoli, e non conducono mai alla vera pace. Oggi specialmente seminano distruzioni e stragi e lasciano negli animi implacabili odi. L’urto dei nervi è una guerra, è un'incursione di bombe, è un cannoneggiamento con i grossi calibri; ora, nessuna bomba e nessun cannoneggiamento produce un bene.
 

Diffondiamo intorno a noi grazia e pace

Il Signore ci riempia della sua grazia e della sua pace, per diffondere intorno a noi grazia e pace. Che noi siamo per gli altri un perenne sorriso per lenire il pianto della vita, una perenne dolcezza per temperarne le asprezze. 
La dolcezza è come un raggio di sole fra le oscure nubi delle tribolazioni giornaliere, è come uno zefiro fresco tra le opprimenti afe di caldo, è un riflesso del sorriso della divina bontà che c’incoraggia a soffrire in pace, per l’onore di Dio e per suo amore.
San Paolo accenna alle sue grandi tribolazioni sofferte ad Efeso, e riconosce che ne fu liberato per la grazia di Dio, sperando di essere tuttora liberato da altri mali con l’aiuto delle preghiere dei suoi cari fedeli. 
 
Quando non possiamo aiutare gli altri con l’azione, lo possiamo sicuramente con la preghiera, e dobbiamo ricorrere ogni giorno a questo grande mezzo di carità spirituale. Quante amarezze potremo alleviare così, e quanta forza possiamo attirare sulle povere anime tribolate, perché sopportino in pace le loro angustie, e siano liberate da quelle che minacciano la loro vita!

È un atto di carità, un atto nascosto agli uomini e noto solo a Dio; è come rugiada notturna che ristora le pianticelle inaridite, è come un vento fresco che solleva nell’oppressione del caldo, è come una tenue parola di consolazione, che passa su queste onde di spirituale radio, e raggiunge l’anima. Tante ispirazioni, tante schiarite interne nelle anime afflitte sono dovute proprio alla preghiera degli altri, alla nostra preghiera.


Don Dolindo Ruotolo
Commento alla Seconda Lettera ai Corinzi
Lettere di san Paolo apostolo
Pag. 896-898

sabato 8 giugno 2024

Perché nella Chiesa d'oggi c'è una doppia epidemia: quella dei cristiani all'acqua di rose e quella dei falsi veggenti e taumaturghi (Don Dolindo Ruotolo)



Perché oggi mancano miracoli, apostoli, profeti e maestri autentici e autorevoli

Mancano in noi i miracoli perché non vi crediamo più, almeno praticamente; 
mancano le profezie perché il nostro occhio è estremamente miope; 
manca la discrezione degli spiriti, perché la nostra stupida critica ci fa a priori svalutare tutto quello che è soprannaturale. 
Non abbiamo apostoli, perché l’apostasia e il naturalismo ci hanno resi indifferenti alla gioria di Dio e al bene delle anime; 
non abbiamo profeti, ossia uomini di straordinaria pietà o amore di Dio, perché si è raffreddata in noi la carità; 
non abbiamo veri maestri, come nei primi tempi della Chiesa, ma poveri e gelati raffazzonatori di pensieri umani ed oziosi, che infarciscono la mente di ricerche più o meno critiche e, più che illuminarla, la oscurano nei sublimi campi della fede. 
Non abbiamo forti organizzatori del bene o persone di vero e saldo governo, perché siamo disorientati dall’interesse materiale e dalla prudenza della carne.
 
 
Masolino da Panicale, Guarigione dello storpio e la Resurrezione di Tabita
Storie di San Pietro, 1424. Affresco.
Firenze, Santa Maria del Carmine, Cappella Brancacci.

 
Come potremmo guarire gli infermi, se pei malanni abbiamo fiducia più in un povero medico, magari ateo ed immorale, che nella grazia e nella misericordia di Dio? 
 
Sono dolorose verità queste, che non hanno bisogno di essere dimostrate, perché si toccano con mano da tutti nell'ambiente della nostra vita cristiana e civile. 
È vero, Dio non manca mai nella Chiesa, e lo Spirito Santo non cessa di formare in essa anche oggi i suoi santi e di arricchirli a volte dei suoi particolari doni; ma è un fatto innegabile che la nostra generazione, in ogni suo strato, preferisce una santità normale, che più si avvicini alla vita ordinaria; ed è tanto contraria alle manifestazioni straordinarie dello Spirito Santo, da perseguitare nelle più spietate maniere quelli che ne sono arricchiti, fino a considerarli come esseri pericolosi e stravaganti, fino a toglierli dal sacro ministero o a tenerli d'occhio come vigilati speciali, fino a colmarli di obbrobrio nella loro vita mortale, salvo poi fare ad essi dei monumenti di gloria dopo la loro morte, più per orgoglio che per glorificare in essi i doni di Dio, proprio come gli scribi e farisei elevavano monumenti a quelli che in vita avevano lapidato. 

La critica, causa della povertà dei doni soprannaturali

Anche nel riconoscere la santità, lunghi anni dopo la morte dei santi, e quando, si direbbe, la loro figura non dà più fastidio a questa stupida generazione, noi abbiamo delle riserve, e vediamo affrettate le cause dei santi che non hanno avuto doni straordinari nella loro vita, e ritardate se non addirittura bocciate quelle di coloro che ne sono stati ricchi.

Vediamo persino mutilate per il pubblico le vite di questi santi, di modo che la loro vera e completa storia rimane di dominio privato di poche persone, quasi potesse essere pericolosa. E così che noi abbiamo, per esempio, una vita di san Giovanni Bosco per il pubblico e una vita più completa per i suoi religiosi; una vita del beato Antonio Maria Claret per il comune dei fedeli, e una vita particolare per i suoi figli.

Quando fu beatificata santa Gemma Galgani, è un fatto storico, il promotore della fede mons. Traglia volle togliere ad ogni costo dalla circolazione la vita di lei, stampata già per la solenne circostanza, perché in qualche illustrazione si era dato rilievo a qualche fatto straordinario.

Siamo costretti ad accennare a questi fatti non per voler osare di fare appunti a chi sta a capo della Chiesa, ma per mostrare in quale abisso siamo caduti, e come è difficile, per non dire impossibile, che in questo ambiente di gelo, di diffidenza e di miscredenza lo Spirito Santo possa effondersi nelle anime con i suoi doni particolari.

Questo atteggiamento di criticismo e naturalismo dolorosamente lo abbiamo un po' tutti, ed è questa la ragione per la quale la santità prospera così poco nelle anime.

Non vogliamo dire che la santità consista in questi doni gratis dati ma vogliamo dire che l’animo, col suo arteggiamento di critica, pone ostacolo alle effusioni della grazie, di qualunque natura esse siano, e rimane tutta nel suo naturalismo, immeschinendosi nelle cose terrene.

Il meditare fa un gran bene all'anima, ma il cavillare la essicca miseramente. Quando essa cavilla e vuole ragionare su tutto a modo suo, non sente più ragioni, non si lascia dirigere, crede infallibile il proprio giudizio e si smarrisce miseramente nei suoi pensieri. 
Se umilmente crede, spera ed ama, vola nelle altezze celesti; se invece vuol ragionare, diventa pessimista, e il suo cuore è totalmente incapace di amare, perché è abbandonato alle proprie forze.

La fede è per essa un’ala potente, la ragione cavillosa è appena un contorcimento da rettile, che a mala pena rende possibile un povero spostamento sulla medesima terra. 

Questa una grande verità che dobbiamo scolpirci bene nell’anima se vogliamo veramente fare progresso nella via di Dio. Lo spirito moderno tenta di farci adulti, e questa supposta maturità non ci giova, perché sta scritto che se non ci facciamo come fanciulli non entriamo nel regno dei Cieli.

Noi ci perdiamo miseramente appresso a quisquilie filologiche, per esempio, nell’interpretare le Sacre Scritture, e non prestiamo a Dio l’orecchio per ascoltare la sua Parola. Ci fermiamo su tante questioni accidentali che a nulla giovano e che acuiscono il nostro spirito critico, invece di raccoglierci con profonda umiltà innanzi a Dio, affinché Egli ci parli. Troviamo da ridire su tutto, e siamo come quelli ricercati nei pranzi, che non gustano nulla, e sono la disperazione di quelli che loro preparano da mangiare.

Il proprio giudizio, falsa pista dello spirito 

Non c'è per noi un nemico più pericoloso nelle vie dello spirito, quanto il nostro giudizio; e questo è una falsa pista per l’anima che vuol seguire il Signore, poiché il fondamento di questa via è tutto nelle parole di Gesù: Rinneghi se stesso. Il proprio giudizio è in perfetta antitesi col rinnegamento di sé. 
 
L'opposizione alla Parola di Dio comincia contro questo o quell’amico, dottore o superiore, e sembra semplicemente una discrepanza di pareri. Dagli uomini, l'opposizione passa molto facilmente verso il Signore, e l’anima comincia a non persuadersi o a non vedere più la verità di certe massime. 
Essa tenta un’interpretazione tutta personale e soggettiva delle parole di Dio, e così cade nel lassismo; trova giuste le massime del mondo, e a poco a poco diventa laicista se non addirittura miscredente. 
È così che noi abbiamo tante anime bisognose di aiuto, che viceversa non lo domandano, perché si credono in perfetto ordine, e continuano nella loro vuota esistenza. 
 
Tra i cristiani di Corinto c’era l'emulazione dei doni dello Spirito Santo, e san Paolo giustamente la riprova, perché era suggerita dal desiderio di gloria terrena, o era causa di dissensioni e di mancanze di carità. 
Tra i tanti cristiani moderni, dolorosamente c’è l’emulazione dello spirito del mondo, e tra tanti altri il desiderio di cose straordinarie a scapito dell’esercizio della virtù, e soprattutto dell’umiltà.

E così che abbiamo una doppia epidemia, quella dei cristiani all’acqua di rose, e quella dei falsi profeti o taumaturghi, che non raramente infesta la Chiesa, a scapito dei veri doni dello Spirito Santo.


Don Dolindo Ruotolo
Commento alla Seconda Lettera ai Corinzi
Lettere di san Paolo apostolo
Pag.747 - 752

 

mercoledì 5 giugno 2024

Canonizzazione e infallibilità - Brunero Gherardini

di Mons. Brunero Gheradini
Saggio sulla canonizzazione, pubblicato su tre diversi numeri della rivista Chiesa Viva nel 2003: 354 (ottobre), 355 (novembre) e 356 (dicembre)
Con Note


Mons. Brunero Fiorello Gherardini
(Prato, 10 febbraio 1925 -
Santa Marinella (Roma), 22 settembre 2017)


Da qualche tempo se ne parla di nuovo. Non c’è dubbio che l’argomento sia molto interessante. Nulla, però, faceva pensare, fin a poco fa, che la posizione definitivamente acquisita con Benedetto XIV (1). sarebbe stata nuovamente discussa. A dire il vero, gli ultimi interventi hanno proposto ben poco di nuovo; han solo richiamato l’attenzione al rapporto tra infallibilità papale e canonizzazione. Non nuova è stata la posizione dubitativa o addirittura negativa, non nuova quell’affermativa. D’ambo le parti si son ripetuti ragionamenti del passato ed irrilevante è stato, forse con l’unica eccezione di D. Ols (2)(2), il loro contributo per una più profonda conoscenza del problema ed una fondazione critica della soluzione proposta.

Poiché anch’io sono stato sfiorato dal “demone” della curiosità e del ripensamento, ne raccolgo qui, in forma quasi provocatoria, i punti essenziali. Chissà, mi son detto, che qualcuno non m’aiuti a capir meglio!
Mi sembra superfluo dichiarare che il mio ripensamento parte dalla concreta situazione d’una “verità” dogmaticamente non definita, con un conseguente margine di libertà che alcune “note teologiche” limitano, sì, ma non soffocano del tutto. Ed è sottinteso che la mia “provocazione” resta all’interno di codesti limiti.

1 - LA DOTTRINA COMUNE

Né il Denzinger (3), né il CJC del 1983 (4), né il Catechismo della Chiesa Cattolica (5) la espongono: segno evidente che essa è estranea all’ambito di ciò che la Chiesa dichiara e promulga “definitorio modo”. Pertanto, la dottrina comune della canonizzazione va ricercata altrove, e precisamente nel magistero ecclesiastico non “ex cathedra”, nelle stesse Bolle di canonizzazione, in altri interventi ecclesiastici non dogmatici e nel dibattito teologico.
Ne parlerò in seguito.

1.1 - La loro analisi permette di definire così la canonizzazione: «Un atto mediante il quale il Sommo Pontefice, con giudizio inappellabile e sentenza definitiva, inscrive formalmente e solennemente un Servo di Dio, precedentemente beatificato, nell’albo (o canone) dei Santi». Tale definizione si completa, ordinariamente, con la precisazione che il Papa intende dichiarare con essa la presenza del canonizzato nel seno del Padre, cioè nella gloria eterna, nonché la sua esemplarità per tutta la Chiesa ed il dovere d’onorarlo ovunque con il culto dovuto ai Santi.

Va peraltro tenuto presente, al fine di determinarne più esattamente la natura, che la canonizzazione si specifica in formale ed equipoIlente: è formale, quando si siano espletate tutte le procedure di norma; equipollente quando un Servo di Dio venga dichiarato Santo in forza d’una venerazione secolare (“ab immemorabili”) (6).

Si canonizza, dunque, generalmente e formalmente parlando, un Beato. L’elemento discriminante tra beatificazione e canonizzazione è riconoscibile nel fatto che l’una prepara l’altra e questa - dal punto di vista formale - non prescinde da quella. Ma mentre la canonizzazione estende il culto del novello Santo a tutta la Chiesa, la beatificazione lo permette soltanto in sede locale - una diocesi, una provincia, una nazione, un Ordine religioso o una Congregazione -. Risulta, infatti, dalle formule abitualmente usate (7) che, canonizzando un Beato, l’intenzione del Papa è quella d’estenderne il culto a livello universale. Inequivoci son al riguardo i verbi di pragmatica: “statuere, decernere, mandare, constituere, velle”, dai quali nettamente si distinguono quelli relativi alle semplici beatíficazioni: “indulgere, licentiam concedere”.

Né si può ignorare che nelle “bolle” di canonizzazione, a conferma della differenza formale tra canonizzazione e beatificazione, si leggono espressioni di volontà non solo precettiva, ma anche minatoria: «Si quis... temerario ausu contrarie tentaverit, sciat se... anathematis vinculo innodatum» (8).

1.2 - Non soltanto dall’estensione del culto a tutta la Chiesa con conseguente coinvolgimento di tutti i fedeli, ma anche dalla dichiarata esemplarità del nuovo canonizzato e dall’implicita assicurazione che costui è nella gloria dei cieli, la dottrina comune ha dedotto l’infallibilità del canonizzante.

Va immediatamente rilevato che i fautori della detta infallibilità la inducono con un ragionamento - direi - per assurdo: «Sarebbe intollerabile se il Papa, in una tale dichiarazione che implica tutta la Chiesa, non fosse infallibile» (9). È dunque infallibile perché sarebbe intollerabile che non lo fosse! Ovviamente, non mancano ragioni teologiche che ad “intollerabile” sostituiscono “non possibile”: la promessa dell’assistenza divina al magistero della Chiesa, quindi la guida dello Spirito Santo e la connessione delle canonizzazioni con le verità di fede e di Costume, cioè con l’oggetto specifico dell’infallibilità papale (10).
Su tale connessione, tuttavia, c’è più d’un motivo per discutere.

Tutto ciò apre un ventaglio di riflessioni storico-teologiche sulla tesi in esame; in particolare, sulla vera nozione di magistero ecclesiastico e d’infallibilità papale, nonché sulle implicazioni ecclesiologiche della distinzione sostanziale tra beatificazione e canonizzazione. Son proprio siffatte riflessioni che o mancano, o son prive di specifica rilevanza, tanto negli Autori favorevoli quanto in quelli contrari. La monotona ripetizione di motivi non sufficientemente ragionati, ma anche di quelli collegati con fatti concreti - il Nepomuceno, p. es., e la Goretti, in passato, altri nel presente - che parrebbero mettere in discussione, se non addirittura escludere l’infallibilità della canonizzazione, non darà né al sì, né al no le ali per volare molto in alto.


2 - IL MAGISTERO ECCLESIASTICO

«È il potere conferito da Cristo alla sua Chiesa, avvalorato dal carisma dell’infallibilità, in virtù del quale la Chiesa docente è costituita unica depositaria ed autentica interprete della Rivelazione divina, da proporre autoritativamente agli uomini come oggetto di fede per la vita eterna» (11).
Non mi si chieda la dimostrazione teologica dell’assunto; non è questa la sede per farlo.

È peraltro ben noto ad ogni cultore di teologia che tale magistero riposa su non equivoche asserzioni neo-testamentarie (Mt. 16,16-20; 28,18), dalle quali risulta che Cristo ne fece lo strumento vivo per la diffusione e la tutela del suo messaggio, concentrandolo soprattutto in Pietro (Mt. 16,18-20; Lc. 22,32; Gv. 21,15-18). In lui previde, ovviamente, la catena ininterrotta dei legittimi successori, caratterizzando, in tal modo, il magistero stesso con le note dell’universalità, della perpetuità e dell’infallibilità (Mt. 16,18-20; 18,18.20).

La Tradizione della Chiesa, esplicitamente o no, ha sempre considerato in Pietro e nei suoi legittimi successori, nonché nel collegio degli Apostoli e nei vescovi che loro subentrano nel governo della Chiesa in comunione col Papa e mai contro, o senza, o al di sopra del Papa, i titolari di tale magistero. Esso, pertanto, si pone davanti alla coscienza del singolo e della Chiesa tutta come la “regula fidei proxima”. Anzi, il Vaticano I, seguito in ciò dal Vaticano II, parve identificare primato e magistero, anche se formalmente l’uno attiene più all’ambito dei rapporti interecclesiastici e l’altro all’ambito della fede: «Ipso autem Apostolico primatu, quem Romanus Pontifex tamquam Petri principis Apostolorum successor in universam Ecclesiam obtinet, supremam quoque magisterii potestatem comprehendi, haec Sancta Sedes semper tenuit, perpetuus Ecclesiae usus comprobat, ipsaque, oecumenica Concilia, ea imprimis in quibus Oriens cum Occidente in fidei caritatisque unionem conveniebat, declaraverunt» (12).

La logica interna alla fede, ben salda sulla roccia della Rivelazione divina, può quindi guardare al magistero ecclesiastico come al perenne ed infallibile carisma della verità cristiana.

2.1 - Il magistero non si esprime univocamente; non è un caso che si parli - non sempre, purtroppo, in modo corretto - di magistero solenne, straordinario, ordinario ed autentico.

La solennità del magistero riguarda la sua forma ed il massimo della solennità è raggiunto dal Concilio ecumenico. Anche il Papa può solennemente riprovare un errore e proclamare una dottrina o una canonizzazione; ma benché non si dia Concilio se non convocato, diretto - «per se vel per alios» - e confermato dal Papa, la solennità dell’atto papale non raggiunge quella conciliare; questa è data dall’autoritativa sinergia dei vescovi che, in comunione col Papa, son essi pure «subiectum supremae ac plenae potestatis in universam Ecclesiam» (LG 22b), che autenticamente rappresentano e per la quale collegialmente operano. La pienezza del potere magisteriale, infatti, oltre che nel Papa, risiede nel “corpus episcoporum” in comunione con Lui. Pertanto, la solennità dell’atto magisteriale s’attua personalmente nel Papa e collegialmente nel Concilio ecumenico; in ambedue i casi è la risposta della Chiesa a circostanze d’eccezione.

Il carattere straordinario, oppure ordinario, del magistero ecclesiastico, dipende dalle modalità con cui s’esprime, nonché dalle circostanze nelle quali e per la quali s’esprime; non dalla sua efficacia ed estensione. Si dà un magistero ordinario del Papa ed uno dei vescovi, sia singolarmente sia collegialmente considerati, in quanto successori degli Apostoli e testimoni qualificati della fede. Mentre il magistero straordinario s’estrinseca mediante le forme del Concilio ecumenico e della “locutio ex cathedra”, quello ordinario è il magistero di gran lunga più frequente attraverso modalità d’intervento né conciliari né cattedratiche. L’esercita il Papa mediante una gamma d’interventi privi di forma solenne e straordinaria, in risposta ad importanti ma non straordinarie circostanze; l’esercitano i vescovi, in comunione di fede e d’insegnamento col Papa, nelle Conferenze Episcopali, nelle singole diocesi, con l’insegnamento scritto ed orale, con i Sinodi diocesani, con la composizione e l’approvazione dei catechismi, con lo svolgimento d’una oculata vita liturgica. Ma, nel caso dei vescovi, nessuno di essi può nutrire pretese d’infallibilità. La loro infallibilità è soltanto collegiale, nel contesto, p. es., d’un Concilio ecumenico.

Si è soliti parlare anche d’un magistero autentico, riconoscibile in interventi papali o vescovili di cui si voglia certificare o l’indubbia appartenenza e la legittimità, o la validità dottrinale e disciplinare. La LG del Vaticano II ne parla tre volte: in 25/a, a proposito dei vescovi, che vengono definiti «doctores authentici seu auctoritate Christi praediti»; ancora in 25/a, con riferimento al Papa, per raccomandare «religiosum voluntatis et intellectus obsequium singolari ratione praestandum... Romani Pontificis authentico magisterio, etiam cum non ex cathedra loquitur»; ed in 51/a, per affermare «authenticum Sanctorum cultum non tam in actuum exteriorum multiplicitate quam potius in intensitate amoris nostri actuosi consistere».

Donde si deduce che:
a) autentico è il magistero sicuramente ecclesiastico in forza di chi lo pronuncia o della verità pronunciata;
b) tale esso è sempre in ognuna delle sue forme: solenne, straordinaria ed ordinaria;
c) tale può essere anche al di fuori di esse, in interventi papali e vescovili meno specifici, purché collegati con la Rivelazione divina e la dottrina della fede.


3 - L’INFALLIBILITÀ DEL MAGISTERO

Non mi riferisco direttamente al magistero autentico che, per quanto ho sopra indicato, può essere, o no, coperto dal carisma dell’infallibilità. Mi chiedo se, perché e a quali condizioni il magistero, o solenne, o straordinario, o ordinario, sia infallibile.

Stante infatti la già ricordata promessa della divina assistenza, l’infallibilità degl’interventi magisteriali, entro i limiti stessi della promessa, è tra le prerogative del magistero stesso.

3.1 - La divina assistenza è la premessa ineludibile d’ogni discorso sull’infallibilità della Chiesa e del Papa. È la ragione profonda dell’irreformabilità d’ogni autentico intervento magisteríale «in rebus fidei et morum». Ragione profonda, quindi, anche dell’infallibilità papale: con tale assistenza, Dio stesso si compromette - per così dire - con l’asserto papale a garanzia della sua inalterabile verità. Per questo, «Romani Pontificis definitiones ex sese, non autem ex consensu Ecclesiae, irreformabiles sunt» (13).

Che in ciò il Signore si sia davvero compromesso è testimoniato dalla sua stessa parola: dalla sua preghiera per l’indefettibilità di Pietro e della sua missione di maestro universale (Lc. 22, 32); dall’assicurazione della sua compresenza alla Chiesa sin alla fine del mondo (Mt. 28, 20); dall’invio dello Spirito di verità alla Chiesa d’ieri, d’oggi e di domani, perché la introduca in tutta la verità (Gv. 16, 13) e la salvaguardi da ogni errore.

Si tratta d’un’assistenza divina che, stando ai passi neo-testamentari di supporto, non può esser definita soltanto «mere negativa». Dispiace che s’insista ancora su questa limitazione, forse per eludere il pericolo d’un equivoco tra assistenza dello Spirito Santo ed illuminazione o rivelazione privata.
Che l’infallibilità del Papa non debba collegarsi con qualche sua personale illuminazione dall’alto, né con un’altrettanto personale rivelazione, non c’è dubbio: è anch’essa «ad aedificationem fidei» (Ef. 4, 29). In effetti, se la funzione dello Spirito del Padre e del Figlio è quella di condurre la fede della Chiesa e la stessa coscienza cristiana «al possesso di tutta la verità», il limitarla alla pura e semplice preservazione dall’errore (nozione «mere negativa») ne è un suo mortificante avvilimento e priva lo stesso magistero d’una sua capacità propositiva.

3.2 - È giusto il precedente abbinamento tra infallibilità papale ed infallibilità della Chiesa. Giusto, perché conforme alla Tradizione e alla conferma che ne ebbe dal Vaticano I: «Definimus Romanum Pontificem... ea infallibilitate pollere, qua divinus Redemptor Ecclesiam suam... instructam esse voluit» (14). Non son in gioco due infallibilità che si sommino, o s’elidano a vicenda; ma un unico e medesimo carisma, che ha nella Chiesa, nel Papa e nei vescovi collegialmente considerati ed in comunione col Papa i legittimi titolari. Tale carisma s’esprime in forma positiva, prima e forse più che negativa. E all’opera quando il magistero, annunciando la verità cristiana o dirimendo eventuali controversie, resta per esso fedele al «depositum fidei» (1Tm. 6, 20; 2Tm. 1, 4) o ne scopre risvolti nuovi e fin a quel momento inesplorati. Ed è pure all’opera, in modo attivo e passivo, nel c.d. «sensus fidelium», per il quale tutt’il popolo di Dio gode d’una infallibilità non solo di riflesso, ma anche propositiva, sia per la presenza in esso della Chiesa docente, sia per la testimonianza cristiana e profetica dei laici (15).

L’accenno al «mere negativa» sottolinea peraltro una funzione dell’infallibilità, la quale, ben lungi dall’identificarsi con una prerogativa privata, dovuta ad un’intelligenza eccezionale o ad una straordinaria illuminazione dall’alto, in tanto è in quanto dipende dalla già ricordata assistenza divina, cui si deve sia il momento negativo (preserva dall’errore), sia quello positivo (introduce in tutta la verità).

3.3 - Di codest’infallibilità, nei suoi due aspetti negativo e positivo, è indicato titolare anche il Papa fin dai primordi dell’era cristiana. “Indicato” non è lo stesso che “definito”, anche se, in ultim’analisi, conta la cosa, non come la si proponga.

San Clemente s’introduce autoritativamente in questioni di fede insorte a Corinto; Sant’Ignazio è preso d’ammirazione per la Chiesa ch’è a Roma; Sant’Ireneo ne ricerca la comunione; San Cipriano riconosce in essa la radice dell’unità; Sant’Ambrogio è il primo a fondare su Mt. 16, 18 il discernimento della vera Chiesa e Sant’Agostino non esita a dichiarare che, nella Chiesa romana, «semper apostolicae cathedrae viguit principatus» (16), per la ragione che il Signore Gesù «in cathedra unitatis doctrinam posuit veritatis» (17).

Fa parte di codesta testimonianza storico-tradizionale il fatto che i Papi, dopo Clemente Romano, esercitaron sempre, nel corso dei secoli, un potere magisteriale universale ed inappellabile. La grande Scolastica nulla aggiunse, con Tommaso, Bonaventura e Scoto, alla dottrina quasi universalmente acquisita dell’infallibilità papale, se non una maggiore fondazione teologica. Il Vaticano I, infine, ne fece un dogma di fede, senza deificare con ciò un uomo o annullare in esso le prerogative e meno ancora l’essenza della Chiesa.

3.4 - A tale riguardo sembra molto opportuna l’attenta considerazione delle parole del dogma: «Definimus Romanum pontificem, cum ex cathedra loquitur, id est, cum omnium Christianorum pastoris et doctoris munere fungens pro sua suprema Apostolica auctoritate doctrinam de fide vel moribus ab universa Ecclesia tenendam definit, per assistentiam divinam ipsi in beato Petro promissam, ea infallibilitate pollere, qua divinus Redemptor Ecclesiam suam in definienda doctrina de fide vel moribus instructam esse voluit; ideoque huiusmodi Romani pontificis definitiones ex sese, non autem ex consensu Ecclesiae, irreformabiles esse».
Parole soppesate con estremo rigore. Non solo non deificano un essere umano, ma, nell’atto stesso di riconoscergli un carisma di cui nessun altro è in possesso, pongono chiari limiti e rigide condizioni all’esercizio di esso. Il Papa, infatti, «non per il fatto d’esser Papa (simpliciter ex auctoritate papatus) (18), è in assoluto infallibile».
È forse venuto il momento di ripetere con franchezza e fermezza quanto già reiteratamente si dichiarò nel recente e lontano passato circa la necessità di liberare il papato da quella specie di “papolatria”, che non concorre certamente ad onorare il Papa e la Chiesa.
Non tutte le dichiarazioni papali son infallibili, non tutte essendo ad un medesimo livello dogmatico. La maggior parte dei discorsi e dei documenti papali, infatti, anche quando tocca l’ambito dottrinale, contiene insegnamenti comuni, orientamenti pastorali, esortazioni e consigli, che formalmente e contenutisticamente son ben lungi dalla definizione dogmatica. Né questa c’è se non in presenza delle condizioni stabilite dal Vaticano I. Occorre dunque che il Papa parli:

-    «Ex cathedra» (19): l’espressione trae il suo significato dalla funzione esemplare e moderatrice che, fin dall’inizio, fece del Vescovo di Roma il maestro della Chiesa universale e di Roma stessa il “locus magisterii”. In uso già dal II sec. come simbolo della funzione magisteriale del vescovo, la cattedra divenne in seguito il simbolo della funzione magisteriale del Papa (20). Il parlare “ex cathedra” significa, quindi, parlare con l’autorevolezza e la responsabilità di colui che gode di giurisdizione suprema, ordinaria, immediata e piena su tutta la Chiesa e su ognuno dei suoi fedeli, pastori compresi, in materia di fede e di costumi, ma non senza riflessi ed effetti anche disciplinari.

- «Omnium Christianorum pastoris et doctoris munere fungens»: la frase rende esplicito il contenuto di “ex cathedra”. Fonti bibliche neo-testamentarie e documenti della Tradizione confluiscono nella definizione del Vaticano I per affermare che l’infallibilità del magistero papale insorge soltanto quando il Papa insegna a tutti la Rivelazione divina e rende a tutti obbligatorio il suo insegnamento.

- «Pro suprema sua Apostolica auctoritate»: è la ragione formale del suo insegnamento infallibile ed universale. Tale ragione è dovuta alla successione apostolica del Papa a Pietro, che fu quindi il primo, ma non l’unico, vescovo di Roma e Papa in quanto vescovo di Roma. Ad ogni suo successore sulla “cattedra romana” compete, dunque, tutto quanto Cristo aveva dato a Pietro, “ratione officii, non personae”. È pertanto meno corretto dire “infallibilità personale del Papa” invece che “infallibilità papale”. Ma, anche nel caso che si voglia insistere, come fa qualcuno, su “infallibilità personale”, si dovrebbe sempre distinguere nel Papa la “persona publica” da quella “privata”, ricordando che la “persona publica” vien determinata dal suo ufficio.

- «Doctrinam de fide vel moribus»: deve trattarsi, cioè, di verità da credere e qualificanti l’esistenza cristiana, direttamente o no contenute nella divina Rivelazione. Un diverso oggetto dell’insegnamento papale non può pretendere d’esser coperto dal carisma dell’infallibilità, la quale tanto s’estende quanto la Rivelazione stessa.

-    «Per assistentiam, divinam»: non qualunque intervento del Papa, non un suo semplice monito, non un suo qualunque insegnamento, son garantiti dall’assistenza dello “Spirito di verità” (Gv. 14, 17; 15, 26), ma quello soltanto che, in armonia alle verità rivelate, manifesta ciò che il cristiano deve, in quanto tale, credere ed attuare (21).

Solo nel pieno ed assoluto rispetto delle dette condizioni, il Papa è garantito dall’infallibilità; può dunque ad essa appellarsi quando intende obbligare il cristiano nell’ambito della fede e della morale. È anche da aggiungere che, da tutto l’insieme dell’intervento papale e dalle parole che l’esprimono, deve risultare, unitamente al rispetto delle indicate condizioni, la volontà del Papa di definire una verità come direttamente o indirettamente rivelata, oppure di dirimere una questione «de fide vel moribus, con cui tutta la Chiesa dovrà poi uniformare il proprio insegnamento e coordinare la propria prassi.

3.5 - È qui evidente che si ha a che fare non con generiche e plurisignificanti nozioni d’infallibilità, bensì con la nozione rigorosamente teologica di essa. E perfino all’interno di tale delimitazione, l’infallibilità si capisce solo se si rifugge dall’ambiguità lessicale, p. es. d’un Karl Barth (22) che confonde l’infallibilità con l’indefettibilità.
D’altra parte, il concetto non si chiarisce, dal punto di vista teologico, ignorandolo (23), e neanche relegandolo trasversalmente in altri contesti (24) o considerandolo sotto aspetti formali incompleti; si pensi al negativo “Irrtumlosigkeit” (25) certamente non sbagliato, ma impari a testimoniare, dell’infallibilità, il significato positivo, il valore di fondo, la grazia, il carisma che, per volontà di Cristo, arricchisce la Chiesa ed il Papa.

Effettivamente il significato positivo è primario e come tale va sottolineato; esso per un verso dà la garanzia massima («fide divina vel divino-ecclesiastica”) della verità, per un altro salvaguarda la verità stessa da ogni contraffazione o erronea o ereticale. L’infallibilità vien così ad esser infinitamente più che assenza d’errore ed impossibilità di esso; è presenza di verità, è certezza superiore di essa, intimamente ed inscindibilmente congiunta con l’esserci della Chiesa. Un suo errore, in ordine alle verità da credere o alla morale da vivere, si risolverebbe contro la Chiesa stessa, distruggendola (26).

In breve e per tali motivi, l’infallibilità teologica ha un quadro concettuale fortemente condizionato dalla Rivelazione ed ha pertanto ben poco in comune con l’infallibilità filosofica, con quella scientifica e con quella giuridica.


4 - INFALLIBILITÀ E MAGISTERO ORDINARIO.

Prima di chiedersi se la canonizzazione d’un Beato presenti il pieno ed assoluto rispetto delle condizioni sopra segnalate, e goda quindi dell’infallibilità, occorre riprendere il discorso sul magistero ordinario del Papa e verificare se esso pure sia o no infallibile.

Sbaglierebbe chi giudicasse l’aggettivo “ordinario” come sinonimo di “meno importante e meno valido”. Il suo significato si desume dall’ufficio papale e dal suo riferirsi ad una forma certamente autentica di esso, anche se non solenne né straordinaria.

Ora, non essendo tenuto a trattare sempre “de fide vel moribus”, né soltanto in momenti e per motivi straordinari, e neanche a trattarne sempre nella forma solenne della “locutio ex cathedra” - di fatto ciò avviene raramente! - il Papa ne tratta il più delle volte nella forma ordinaria, ricorrendo in particolar modo alla Lettera enciclica, alla Bolla, alla Costituzione e via dicendo.
Nella storia più recente della Chiesa, si conoscono encicliche sicuramente cattedratiche, dall’“Ineffabilis Deus” di Pio IX (27) alla “Miserentissimus Deus” di Pio XII (28), dedicate rispettivamente al dogma dell’Immacolata Concezione e a quello dell’Assunzione; qualcuno (29) annovera tra queste anche la “Humanae vitae” di Paolo VI (30) sulla salvaguardia della vita.
Il Dublanchy (31), non senza qualche eccesso di zelo, riconosce il carattere dogmatico anche ad alcune encicliche di Leone XIII in forza del loro contenuto dottrinario: la dottrina relativa al matrimonio cristiano, nella “Arcanum” del 10.2.1880; l’origine divina del potere anche civile, nella “Diuturnum” del 20.6.1881; la sovrana e nativa indipendenza della Chiesa, nella “Immortale Dei” del 1.11.1885; l’ispirazione ed inerranza della Sacra Scrittura, nella “Providentissimus Deus” del 18.11.1893; il primato del Romano Pontefice e la natura della Chiesa, della “Satis cognitum” del 29.6.1896.

Il fatto è che il carisma dell’infallibilità può connotare anche il magistero ordinario del Papa, pur non rispondendo a tutte le condizioni della definizione cattedratica. Qualora il Papa volesse davvero proclamare una verità come dogma di fede, o determinarne il senso esatto e l’appartenenza alla fede cattolica, la “Locutio ex cathedra” sarebbe la forma più idonea allo scopo; in tal caso, il Papa è anche tenuto a manifestare esplicitamente la sua volontà e consapevolezza di parlare come “pastore e dottore di tutta la Chiesa” e a dichiarare la sua intenzione “definitoria”. Non sempre, però, proclama una verità “definitorio modo”, cioè “ex cathedra”.
Qualora una verità sia già stata definita; o si tratti di verità dedotta da quelle rivelate, o sia con quelle rivelate e definite strettamente collegata; oppure, qualora il tenore dell’intervento papale sia, per circostanze e contenuto, di carattere ordinario, allora l’intervento stesso non oltrepassa il limite del “definitive tenendum”. Nell’uno e nell’altro caso, per l’insorgenza d’evidenti condizionamenti dogmatici, è però in atto il carisma dell’infallibilità papale. Nel “definitorio modo”, lo è direttamente ed immediatamente per il verificarsi in esso di tutte le condizioni alle quali è legato; nel “definitive tenendum”, indirettamente e quasi di riflesso.

Il dato emergente è, comunque, la presenza di tale infallibilità.

Come, infatti, negarla ad un magistero che, sia pure in forma ordinaria, ripropone le verità contenute nel Credo e nelle varie professioni di fede, nel giuramento antimodernistico (della prima e della seconda stesura), nella sacra liturgia ch’è il dogma pregato, e nella vita sacramentale della Chiesa?

La domanda, allora, sullo sfondo di quanto precede, è se una canonizzazione, formale o equipollente, rientri nel quadro dogmatico dell’infallibilità papale e goda perciò di essa.


5 - IL FATTO DOGMATICO

Si noti: dico “fatto”, non verità o dottrina. Ch’esso venga definito dogmatico, non comporta di per sé che si tratti d’un fatto anche soprannaturale. L’Incarnazione del Verbo, la sua passione e morte redentrice, la sua risurrezione ed ascensione al cielo - solo per portare qualche esempio - son senza dubbio dei fatti. Ma la loro emergenza sul piano soprannaturale esclude che possan qualificarsi come dogmatici nel senso inteso dalla teologia postridentina: son essi stessi veri e propri dogmi, verità divinamente rivelate e dalla Chiesa inserite nel suo Credo.

Secondo la teologia postridentina, i fatti dogmatici hanno attinenza alla concretezza delle cose, alla loro realtà fattuale e conoscibilità naturale, pur mantenendo una loro relazione con il mondo della fede. Per analogia, posson rapportarsi alle verità naturali, cioè conosciute con le sole forze della ragione umana, quali l’esistenza di Dio, la spiritualità e l’immortalità dell’anima, la morale naturale: verità naturali che trovano poi conferma nella Rivelazione cristiana e diventano oggetto anche di conoscenza soprannaturale. In effetti, anche i c.d. fatti dogmatici mantengono una connessione del loro ambito naturale con quello soprannaturale. Non sono dei fatti qualunque; la loro stessa fattualità attiene a verità rivelate. S’imparentano dunque col dogma. Donde la loro qualifica di fatti dogmatici.

È peraltro doveroso riconoscere che, in teologia, sui fatti dogmatici non si dà univocità di giudizi. Si può dire soltanto, che negli Autori appare preminente il riferimento ad emergenze concrete - la presenza, p. es., di Pietro come vescovo di Roma, la storia d’un Concilio ecumenico, l’urto delle sue correnti e la dialettica delle sue dottrine - nelle quali sia anche presente, con ogni evidenza, un significato dogmatico in forza d’una loro connessione logica e necessaria con verità contenute nella Rivelazione e dogmaticamente definite.

La questione dei fatti dogmatici esplose quando - era il 31 maggio 1653 - Innocenzo X condannò cinque proposizioni estratte dall’Augustinus di Giansenio. Distinguendo la dottrina delle cinque proposizioni dal fatto della loro appartenenza all’Augustinus, alcuni nulla eccepirono sull’infallibilità della condanna, ma negarono che la dottrina condannata si trovasse effettivamente nell’opera incriminata. La controversia è nota e perciò non c’è ragione d’insistervi: dico solamente che sia il magistero della Chiesa, sia la riflessione teologica dimostrarono l’infondatezza della detta distinzione. In particolare, il grande Bossuet, poi seguito dal Fenelon, mise in evidenza, ben 24 casi nei quali il magistero ecclesiastico s’era autoritativamente e definitoriamente pronunciato, benché si trattasse di fatti, prima o più che di dottrine (32).
Il successivo sviluppo della riflessione teologica collegò i fatti dogmatici con determinate verità di fede definita, grazie alla presenza in essi d’un vincolo, o intrinseco o estrinseco, tra fatti e verità. Intrinseco si disse il vincolo di quei fatti che s’integrano nel dogma: p. es. il peccato originale. Estrinseco, invece, il vincolo che solo dall’esterno congiunge fatti e dogma: p. es. la difesa d’una verità definita, la legittimità dell’elezione d’un Papa, la condanna d’un libro eterodosso o d’una dottrina ereticale (33). Si tratta sempre di «fatti contingenti... in connessione morale necessaria con il fine primario della Chiesa, che è quello di conservare e spiegare il deposito rivelato» (34).

L’attenzione a tali fatti si giustifica, pertanto, non in base ad un interesse puramente storico per essi, ma al loro coinvolgimento nel dogma. E poiché «tra i fatti dogmatici è universalmente annoverata anche la canonizzazione» (35) ineccepibile deve dirsi dal punto di vista formale la conseguenza della sua infallibilità.
Ma basta il punto di vista formale?

Fu soprattutto Fenelon (36) l’assertore dell’infallibilità dei giudizi magisteriali sui fatti dogmatici; ma anch’egli ne dette una giustificazione per assurdo: se non fosse infallibile, il magistero ingannerebbe se stesso e, con sé, la Chiesa tutta.
Egli continuava così, nella sostanza, l’insegnamento costante della Chiesa, almeno da san Bernardo in poi, ed in particolare da san Tommaso d’Aquino, sulle parole del quale mi soffermerò tra breve. Tale insegnamento insiste ancor oggi sulla necessità di riconoscere ai fatti dogmatici una loro intrinseca o estrinseca infallibilità, affinché la Chiesa possa esser in grado di rispondere con sicurezza alla sua missione universale. Un errore in siffatta materia - e riaffiora così il ragionamento per assurdo - avrebbe deleterie ripercussioni sulla vita cristiana.

Altrettante ne avrebbe l’approvazione o disapprovazione d’un ordine religioso, d’una congregazione o d’un istituto, qualora il Papa potesse, in cose di tal genere, cadere in errore. La vita religiosa, p. es., perderebbe la certezza del suo porsi alla coscienza cristiana come strumento di perfezione.

La possibilità d’un tale errore, presa di mira da Melchior Cano (37), già al suo tempo era stata decisamente rifiutata. Sia nel campo delle suddette approvazioni/riprovazioni, sia in quello delle canonizzazioni - e quindi in relazione ad ogni fatto dogmatico - si rivendicò al magistero ordinario del Papa, anche in assenza di definizioni formali, quell’infallibilità che gli si riconosce, di solito, nell’esercizio del magistero straordinario e solenne. Anche nel disciplinare la Chiesa universale, oltre che la Diocesi di Roma, e nell’ammaestrarla come suo pastore e dottore, il Papa gode, infatti, della stessa infallibilità di cui Cristo dotò la sua Chiesa. Tuttavia, perché possa appellarsi a tale infallibilità, è necessario che i suoi interventi sian sempre riconducibili, direttamente o no, alla Rivelazione cristiana.

Ma una canonizzazione lo è? Ecco il problema.


6 - ELABORAZIONE TEOLOGICA

La stragrande maggioranza dei teologi risponde affermativamente; quelli che propendono per una risposta negativa, o anche solo dubitativa, son veramente pochi. La questione, come ho detto all’inizio, è oggi tornata sul tappeto.

6.1 - L’agenzia stampa della Fraternità san Pio X (38) ha messo in dubbio l’infallibilità delle canonizzazioni solo per motivi contingenti: la canonizzazione di questo o di quel candidato. Altri, con ragioni d’indubbio peso teologico e per motivi di fondo, l’avevan preceduta. Fra costoro, p. es., si colloca anche F. A. Sullivan (39), al quale «non è chiaro perché una canonizzazione debba godere dell’infallibilità papale» e consenta al «magistero... di custodire e spiegare il deposito della Rivelazione».
Sul piano della verifica storica e della critica teologica prese posizione negativa anche P. De Vooght (40) con un poderoso saggio in cui lamentò, tra l’altro, «che l’infallibilità della Chiesa e del Papa non ha impedito, ha anzi autorizzato ed incoraggiato per lunghi secoli il popolo cristiano a venerare alcuni Santi, dei quali oggi si sa che non son mai esistiti».
In quel medesimo scorcio di tempo, con l’occhio attento ai fatti concreti, anche A. Delooz (41) pervenne ad analoghe conclusioni. Il De Vooght (42) le esprime, però, con perentorietà inaudita: «L’infaillibilité papale - il faut le proclamer trés haut pour l’honneur de l’eglise - est celle d’un homme qui, aussi en tant que pape, peut se tromper et s’est fréquemment trompé».

Più recentemente è intervenuto sull’argomento il già citato D. Ols, domenicano; la sua conclusione è abbastanza chiara: «Non essendo la canonizzazione... necessaria alla custodia e difesa della fede, non sembra che... sia tale da poter esser soggetta all’infallibilità» (43). A favore, invece, in questi ultimi tempi si son pronunciati F. Ricossa (44) e E. Piacentini (45), in linea con la posizione dell’accennata maggioranza che, nel periodo preconciliare e negli anni immediatamente successivi al Vaticano II, annoverò nel suo seno E. J. Kieda (46), E. Spedalieri (47), U. Betti (48), oltre ai già citati Frutaz, Veraja, Lów, e tanti altri ancora: uno schieramento imponente, a sostegno della dottrina più tradizionale. Per essa, nessun dubbio esiste sulla correlazione, almeno indiretta, tra infallibilità della canonizzazione e Rivelazione cristiana. Non convince, peraltro, il comune palleggiarsi delle ragioni addotte, né l’assenza d’un vero e proprio approfondimento critico o d’elaborazioni personali. Ma altrettanto è da dire anche per gli oppositori.

6.2 - A riprova del nesso tra canonizzazione e Rivelazione s’è soliti distinguere tra oggetto primario ed oggetto secondario dell’infallibilità.

Nell’impossibilità, resa evidente dalla cosa in sé, d’includere la canonizzazione tra gli oggetti primari dell’infalIibilità - non si tratta, infatti, d’un contenuto diretto ed esplicito della Rivelazione - la s’include in quello secondario delle c. d. “verità connesse” e basta una “conclusione teologica” (49) per legittimare la detta inclusione. In tal modo anche la canonizzazione vien a trovarsi coperta dal carisma dell’infallibilità papale - alla stregua dei fatti dogmatici e della stessa legislazione ecclesiastica - perché “connessa” con la Rivelazione da due verità di fede: il culto e la comunione dei Santi. Allacciata così alla Rivelazione, assume di conseguenza un valore universale, del quale il Papa stesso si fa eco durante il rito: canonizzando un Beato, ne propone l’esemplarità a tutta la Chiesa e ne autorizza, se non proprio impera, ovunque la venerazione.

Una tale universalità, che coestende la canonizzazione a tutta la Chiesa in dimensione spazio-temporale, è uno degli elementi sui quali ordinariamente si fa leva per sostenere e difendere l’infallibilità della canonizzazione. Il Papa, si dice, non può sbagliare in ciò che riguarda la Chiesa d’oggi e di domani, qui e dovunque: non può condurla sull’orlo del baratro e nemmeno nutrirla di veleno. Se dunque compie un gesto riguardante la Chiesa intera, scatta con esso ed in esso il carisma della sua “personale” infallibilità. Peraltro, insieme con l’universalità militerebbero a favore anche altre ragioni, così elencate dal Piacentini (50):

  • un’esigenza implicita nel disposto tridentino di venerare i Santi;
  • una conseguenza delle formule in uso e il tenore definitorio di esse;
  • la necessità di modelli universalmente validi da imitare, venerare, invocare;
  • il diretto appello del Papa alla sua infallibilità;
  • la presenza d’una conclusione teologica tratta da due premesse, l’una di fede e l’altra di ragione;
  • la natura della canonizzazione come fatto dogmatico;
  • il culto e la comunione dei Santi come nesso dogmatico della canonizzazione e della sacra Rivelazione.


6.3 - Non mi pare che ragioni siffatte debbano rifiutarsi in blocco ed aprioristicamente; ne avverto anch’io, sia pur minimo ed equivoco, un certo valore. Ma avverto anche il peso di quelle contrarie e particolarmente di quelle derivanti da casi di Santi inesistenti o di Santi non affatto santi. Inutile e poco onesto mi sembra il nascondersi dietro il paravento dei nemici dichiarati della Chiesa, dalla cui denigrazione e da quella soltanto dipenderebbe l’inesistenza storica di questo o di quel Santo o la sua indegnità morale. Casi del genere esistono e la Chiesa, maestra di verità, non ha nulla da temere nel riconoscerli e sconfessarli. Il più recente esempio, a conferma di ciò, s’ebbe con la soppressione postconciliare d’alcune feste di Santi, sui quali la ricerca storica non era stata in grado di far luce. Devo perciò arguirne che non tutte le suddette ragioni presentino un identico inoppugnabile valore. Anzi, anche quelle di maggior peso offrono il fianco a qualche discussione.

Ben venga, allora, questa discussione. Non solo a vantaggio della “subiecta materia”, ma anche per cautelarsi contro la monotonia delle non convinte ed ancor meno convincenti ripetizioni.


7 - OBIEZIONI E RISERVE

Il titolo di questo paragrafo non allude ad una posizione antinfallibilista, per usare un termine di schieramento frequente nella diatriba sull’infallibilità papale prima e dopo il Vaticano I. Si riferisce soltanto ad un aspetto di tale discussione - quello relativo all’infallibilità delle canonizzazioni - e non per dire di no, tout-court, a tale infallibilità, ma per rilevare, secondo il mio personale giudizio, la discutibilità delle ragioni che la suffragano. So bene di pormi insieme con una minoranza (51) e non ignoro il gravissimo giudizio del riconosciuto Maestro in materia (52) contro chi osasse opporsi a questo tipo - meglio sarebbe dire: oggetto - d’infallibilità.

Costui non sfuggirebbe alla nota di “temerario e scandaloso”, ingiurioso dei Santi e favorevole agli eretici; Dio me ne scampi e liberi! Penso, tuttavia, che i già accennati margini di libertà mi consentano di dire perché le ragioni dalle quali si traggono così drastiche conseguenze, non mi sembrano cogenti.

-- Inizio dalla natura della canonizzazione: tutti son concordi nel giudicarla “non immediate de fide”. Per esserlo, dovrebbe coincidere con ciò che il Vaticano I chiama una “locutio ex cathedra” e non eludere nessuna delle sue condizioni. È però evidente che la canonizzazione non definisce nessuna verità rivelata; e quanto alla sua “connessione morale e necessaria” con alcune di tali verità, in forza della quale - e quindi “mediate”- la canonizzazione diventerebbe almeno implicitamente “de fide” mi chiedo se le ragioni desunte da san Tommaso sian rettamente interpretate e suasive.

Dice l’Angelico - e tutti monotonamente ripetono -: «Quia honor quem Sanctís exhibemus, quaedam professio fidei est, qua Sanctorum gloriam credimus, pie credendum est quod nec etiam in hiis iudicium ecclesiae errare possit». Poco sopra aveva dichiarato: «Si consideretur divina providentia quae Ecclesiam suam Spiritu Sancto dirigit ut non erret, ... certum est quod iudicium Ecclesiae universalis errare in hiis quae ad fidem pertinent, impossibile est... In aliis vero sententiis, quae ad particularia facta (il grassetto è mio) pertinent, ut cum agitur de possessionibus vel de criminibus vel de huiusmodi, possibile est iudicium ecclesiae errare propter falsos testes» (53).

L’accortezza di san Tommaso - e lo fa notare anche il p. Ols (54)- - è tale da indurlo a distinguere tra certezza e certezza: quella dogmatica, che si esprime nell’ambito della fede e quella non direttamente dogmatica, che si esprime in ambiti non direttamente collegati con la fede. L’una esclude perentoriamente la possibilità dell’errore («certum est quod impossibile est»), l’altra l’ammette («possibile est»). E motivo di tale ammissione è non solo la fallibilità umana, ma anche l’umana malizia («propter falsos testes»; ed aveva già affermato: «iudicium eorum qui praesunt Ecclesiae errare in quibuslibet, si personae eorum tantum respiciantur, possibile est»). Nonostante che l’Angelico includa anche la canonizzazione nel quadro delle cose alle quali s’estende la promessa della divina assistenza, e per tale ragione ne riconosca l’infallibilità, è doveroso rilevare che per lui la canonizzazione non fa parte de «hiis quae ad fidem pertinent» e che, pertanto, considerata al di fuori della divina assistenza, cioè nel giudizio «eorum qui praesunt Ecclesiae», potrebbe anche andar soggetta all’errore. Non a caso ho sottolineato le parole «particularia facta»: per dire, cioè, che perfino il c. d. fatto dogmatico cui si è soliti assimilare la canonizzazione, in ciò che riguarda la sua singolare concretezza e contingenza potrebb’esser giudicato erroneamente, con grave pregiudizio per la sua connessione con il dogma. Se l’Angelico salva la canonizzazione dall’errore, non è perché non si ricordi che «qui praesunt Ecclesiae errare possunt»; o perché non tenga conto del fatto che la canonizzazione è estranea alla Rivelazione, convinto com’è che non si dà insegnamento infallibile della Chiesa se non in materia di verità rivelate e di cose necessarie alla salvezza eterna. Egli si limita a dire che l’infallibilità papale nel canonizzare qualcuno è oggetto di «pia credenza - pie creditur», in quanto la canonizzazione stessa «quaedam professio fidei est... ad gloriam Sanctorum».

Nulla da eccepire a proposito del nesso tomasiano tra canonizzazione e professione di fede a glorificazione dei Santi. Ma non è certamente un nesso del genere a trasformare una sentenza papale sulla qualità non comune, anzi eroica, d’una testimonianza cristiana, in una verità divinamente, se pur implicitamente ed indirettamente, rivelata. Mancando allora l’oggetto rivelato, sarebbe poco rispettoso del dogma e delle sue esigenze l’assimilare la canonizzazione al detto oggetto, solo:

a.    perché il Papa “non può errare” senza che ciò comporti gravissime conseguenze per tutta la Chiesa;
b.    e perché egli osserva, anche canonizzando, l’intenzionalità universale che guida ogni sua “locutio ex cathedra”.

Questi due punti, ad ogni modo, dovrebbero esser verificati alla luce dei limiti e delle condizioni cui ogni pronunciamento dogmatico soggiace.

-- Un secondo rilievo riguarda la salvezza eterna del canonizzato. Premetto che se l’infallibilità della canonizzazione non è rigorosamente “de fide”, non lo sono nemmeno la “declaratio” e la “praesumptio” dello stato di “comprehensor” nei riguardi d’un canonizzato. Il problema, dunque, sta tutto in quel “rigorosamente di fede”. Se tale fosse, la canonizzazione s’innesterebbe sull’insieme (il “Simbolo”) delle verità da credere. Poiché l’evidenza esclude un tale innesto, s’insiste sul “non immediate de fide”, cioè su una fede di riflesso, indiretta, implicita. Se non che, nel suo complesso, la Rivelazione divina non offre un solo aggancio della canonizzazione a nessuna delle sue verità; e non si vede allora come fondare sulla canonizzazione la deduzione diretta e necessaria d’una conclusione teologica che la colleghi alla fede, sia pure “non immediate”.
L’unico aggancio potrebbe cogliersi nei testi (Mt. 16, 18-19 e 18, 18) che promettono l’avallo divino all’operato del Papa e della Chiesa. Ne deriverebbe non il “de fide divina”, bensì il “de fide ecclesiastica”, fondato su una deduzione magisteriale ed applicazione d’una promessa divina all’esercizio del magistero. La certezza dell’avallo divino è, qui, fuori d’ogni discussione; essa ha dalla sua la realtà della divina promessa e la continuata «testimonianza della Chiesa e del suo Capo visibile, cui Dio promise l’infallibilità» (55). Ma Dio la promise ad un ben delimitato esercizio del potere magisteriale, come risulta da una buona esegesi dei testi sopra indicati e dallo stesso Decreto del Vaticano I. Tale delimitazione esclude che canonizzazione e definizione dogmatica s’equivalgano. Ed esclude pure che l’oggetto immediato della canonizzazione comprenda la gloria eterna del canonizzato in un’unica e medesima espressione “de fide” (56).

Il ruolo decisivo della volontà papale nel beatificare e nel canonizzare qualcuno è ben noto; delimita la beatificazione alle Chiese particolari o a porzioni ben definite del popolo di Dio, e conferisce alla canonizzazione un valore universale, dichiarandola valida se non anche obbligatoria per tutta la Chiesa. È un ruolo che nessun cattolico contesta: lo riconosce infatti saldamente legato alla “potestas clavium”. Non per questo, tuttavia, ne discende il carisma dell’infallibilità. Questo, come s’è visto, vien sempre legittimato con il ragionamento per assurdo: altrimenti la Chiesa insegnerebbe l’errore; altrimenti la Chiesa non sarebbe “Mater et magistra”; altrimenti i fedeli ne sarebbero ingannati.

A me sembra, però, che il carisma dell’infallibilità legato al ragionamento per assurdo perda molto del suo valore e resti difficilmente comprensibile. Non spiega, infatti, come e perché esso scatti in caso di canonizzazione e non di beatificazione. Nessuno, sia ben chiaro, intende limitare la libertà del Papa più di quanto esigano i sacri testi ed il dogma; e nessuno, perciò, è in grado d’impedire al Papa e alla libertà del suo potere primaziale d’estendere l’efficacia d’un suo atto o alla Chiesa universale, o ad una Chiesa particolare. Ma né questa libertà, né l’estensione del suo esercizio implicano o esigono come necessaria la copertura dell’infallibilità. Anzi, ad escludere proprio codesta copertura è una ragione ecclesiologica. La Chiesa, infatti, non è una somma di chiese particolari: «Ecclesiam suam Iesus Christus non talem finxit formavitque, quae communitates plures complecteretur genere similes, sed distinctas neque iis vinculis alligatas, quae Ecclesiam individuam atque unicam efficerent, eo plane modo quo ‘Credo unam... Ecclesiam’ in Simbolo fidei profitemur» (57).

Questa essendo la natura della Chiesa, giustamente LG 26/a ne trae la seguente conclusione: «Haec Christi Ecclesia vere adest in omnibus legitimis fidelium congregationíbus localibus». Ciò significa che anche la più sperduta comunità cristiana, purché legittima, è Chiesa: in essa è la Chiesa cattolica. Dunque, ogni decisione ecclesiastica «in rebus fidei et morum» rivolta ad «una legittima aggregazione particolare di fedeli», la riguarda in quanto Chiesa perché è la Chiesa. Ed ha, almeno implicitamente, un’estensione universale, oltre che particolare. Dalla Chiesa universale, infatti, quella particolare trae la sua legittimazione come Chiesa. Pertanto, questa compattezza unitaria della Chiesa fa sì che ogni decisione magisteriale in linea universale tocchi le singole Chiese; e viceversa, quanto venga ad esse rivolto non sia estraneo alla Chiesa universale. Che senso ha allora l’aver distinto la canonizzazione- infallibile perché universale - dalla beatificazione - non infallibile perché locale? - Se l’una è supportata dal carisma dell’infallibilità, perché non dovrebb’esserlo l’altra? E se la beatificazione non lo è, perché lo è o dovrebbe esserlo la canonizzazione?

Nella storia della Chiesa, anche recente, ci furon Santi discutibili, che prestarono, cioè, e prestano il fianco a rilievi non proprio positivi. Altri, come ho già rilevato, non sono neanche esistiti. Non è mia intenzione di scendere ai particolari, sottoponendo gli uni e gli altri ad un’indagine “super virtutibus” e ad una verifica storica: non scrivo per far polemica. D’altra parte, chi l’ha fatta ha avuto risposte poco convincenti, specie ‘se costruite a spese della storia. Nessuno è autorizzato, nemmeno il Papa né la Chiesa, a porre come santo nella realtà della storia, chi da santo in essa non visse e tanto meno chi non visse affatto perché mai nato. La domanda critica è allora ineludibile: anche la canonizzazione di Santi discutibili o addirittura inesistenti, o anche la sola tolleranza del loro culto ufficiale, avvenne all’insegna dell’infallibilità?
Strettamente collegata al carisma dell’infallibilità, e forse anche più della stessa canonizzazione, può esser considerata la proclamazione d’un nuovo Dottore della Chiesa. Non molto tempo fa ce ne fu una che, in precedenza, era stata nettamente rifiutata da un altro Papa. È vero che il no era stato consegnato non già ad un atto formale, ma ad una decisione informale. Era però una decisione autentica e collegabile, in forza del suo oggetto, con il magistero ordinario. Ed ecco ancora una volta la domanda critica: chi dei due Papi fu infallibile, quello del no o quello del si?
Stando così le cose, interrogativi, perplessità e riserve si coagulano, rendendo molto difficile il congiungimento dell’infallibilità con la canonizzazione. Difficile, perché le ragioni del si, al vaglio della critica, perdono non poco del loro valore.

-- L’approvazione tridentina del culto dei Santi è storicamente innegabile, oltre che teologicamente ineccepibile e dogmaticamente indiscutibile. Che tale approvazione riveli la potestas sanctificandi si può pure concedere. Che però il Concilio di Trento consideri infallibile tale potestas è quanto meno da dimostrare. Tra il potere di proclamare nuovi Santi e l’infallibilità della proclamazione c’è una tale diversità dei rispetti formali, per cui l’una cosa non è, né esige l’altra. E chi sostenesse il contrario, si comporterebbe in modo teologicamente e logicamente non corretto.

-- Quanto alla comunione dei Santi, chiunque ne conosca l’esatta nozione teologica, non può che astenersi dal farne un fondamento dell’infallibilità papale a garanzia della canonizzazione: oltretutto i “Santi” della formula non allude, né esclusivamente né principalmente, ai canonizzati.

-- Che le formule in uso e soprattutto l’appello d’alcuni Papi alla loro infallibilità nell’atto stesso del canonizzare, nonché il ricorso delle “bolle” di canonizzazione ad espressioni tipiche del linguaggio “definitorio”, depongano per la “praesumptio infallibilitatis”, sembra a prima vista un indubbio dato di fatto.

Ma proprio questo dato di fatto, alla luce degli interrogativi e delle riserve che vengo esponendo, conferisce alla domanda critica una più forte incidenza ed un risalto maggiore: come e perché ciò è stato possibile? Come e perché lo è tutt’oggi? Su quali basi d’indiscutibile validità teologica?

-- Che oggi così come ieri, e domani pure, l’uomo abbia un bisogno vitale di modelli da imitare, è evidente. Ma da qui a qualificare infallibile la proposta del singolo modello, c’è l’abisso della gratuità.

Che la canonizzazione venga equiparata ad un fatto dogmatico, è vero. Ma proprio in quanto fatto dogmatico pone alcuni interrogativi sul suo nesso con la Rivelazione cristiana e con verità dalla Chiesa definite come rivelate. È infatti da dimostrare se, in concreto, un fatto dogmatico si ricolleghi al dogma grazie ad un suo nesso intrinseco o estrinseco. Il nesso c’è per definizione e non si nega; quindi, almeno indirettamente ed implicitamente, un fatto dogmatico potrebbe essere, in qualche modo, non estraneo al carisma dell’infallibilità. Non consta invece perché la canonizzazione debba esser assimilata ad un fatto dogmatico. Che ciò venga detto e ripetuto non è una ragione; gli antichi non a caso avvertono: «quod gratis asseritur, gratis negatur».

Gratuito e perciò rifiutabile è dunque il seguente ragionamento: ogni canonizzazione è infallibile perché è un fatto dogmatico in quanto «propone autoritativamente a tutta la Chiesa un modello di santità da imitare, da venerare e da invocare» (58). Sembra chiaro che qui non si ragiona, s’afferma. Quasi che l’infallibilità proprio qui e di per sé “liquido pateat”.


8 – CONCLUSIONE

È superfluo ripetere che il presente scritto non è né una formale negazione dell’infallibilità papale nella “subiecta materia”, né il sintomo d’una mia adesione a ventate contestatarie. So, per grazia di Dio e per la mia lunga docenza accademica sulla cattedra d’ecclesiologia, che la Chiesa è sempre Madre e Maestra e che, anche come tale, è l’unica áncora di salvezza. Non ho certezze ch’ella stessa non mi comunichi e non mi garantisca; né ho perplessità, dubbi e riserve in ordine alla salvezza eterna ch’ella non sia in grado di tacitare e di risolvere.
Il presente scritto, pertanto, si pone fiducioso e riverente dinanzi ad essa col significato del «dubbio metodico»: non è fine a se stesso, non nasconde surrettiziamente e pavidamente la mano che lancia il sasso nel vespaio, non lascia affiorare tra le nebbie del discorso indiretto ciò che non osa dichiarare apertamente. È il dubbio che, non opponendosi all’asserto magisteriale, vuol esser semplicemente un mezzo per raggiungere un più alto grado di certezza. E tutto, all’interno di quel margine di libertà che l’assenza della nota teologica “immediate de fide” apre alla coscienza cristiana in ordine al nesso tra infallibilità papale e canonizzazione. E’ augurabile - mi sembra, per la serietà della teologia cattolica - che su codesto medesimo nesso si rinnovi non la polemica sterile, né tanto meno la pedissequa ripetizione delle ragioni a favore o contro, ma una più profonda e più originale discussione. Potrebbe essere già un passo avanti, p. es., la costatazione che il “non immediate de fide” trova conferma nell’atto stesso della canonizzazione, che non impone di “credere” al nuovo Santo, ma dichiara che costui è tale, cioè Santo. E anche al di fuori del nesso suddetto, non sarebbe cosa da poco se si stabilisse che il significato di “Santo”, inteso dalle Bolle di canonizzazione, è quello di “meritevole di culto”, e non di “beato comprensore”: un campo questo che sarà meglio lasciare al libero ed insindacabile giudizio di Dio.
Altrettanto importante sarebbe il non trincerarsi dietro la distinzione tra canonizzazione formale ed equipollente: per l’una e per l’altra in discussione è l’infallibilità di chi canonizza, non il modo con cui canonizza.

Infine, parrebbe anche opportuno che si desse un’interpretazione autentica delle censure con cui le Bolle accompagnano spesso le singole canonizzazioni: non sono una scomunica, non essendo conseguenti ad una definizione dogmatica; sono allora una semplice censura morale o giuridica circa il comportamento dei fedeli dinanzi ai singoli nuovi canonizzati? Come si vede, la strada per l’approfondimento critico è ampia ed aperta. L’essenziale è il non rimanere dietro l’angolo.



NOTE

1 - Cfr. Benedictus XIV, De “Servorum Dei beatificatione et de Beatorum canonizatione”, 7 voll. Prato 1839-42: I, n. 28, p.336B: «Si non haereticum, temerarium tamen, scandalum toti Ecclesiae afferentem, in Sanctos iniuriosum, faventem haereticis negantibus auctoritatem Ecclesiae in Canonizatione Sanctorum, sapientem haeresim, utpote viam sternentem infidelibus ad irridendum Fideles, assertorem erroneae propositionis et gravissimis poenis obnoxium dicemus esse qui auderet asserere, Pontificem in hac aut illa Canonizatione errasse... et de fide non esse, Papam esse infallibilem in Canonizatione Sanctorum...».
2 - Cfr. Ols D., “Fondamenti teologici del culto dei Santi”, in AA. VV. Dello “Studium Congreg. De Causis Sanct.”, pars theologica, Roma 2002, p. 1-54.
3 - Cfr. Una piccola eccezione è costituita da DS 675, che riguarda la canonizzazione d’Ulderico, vescovo d’Augsburg, nel Sinodo Lateranense del 31 gennaio 993; in DS 2726-27bis si tratta solo dell’approvazione degli scritti dei candidati all’onore degli altari.
4 - Cfr. Un unico accenno nel c. 1403/1: «Causae canonizationis Servorum Dei reguntur peculiari lege pontificia».
5 - Cfr. Anche qui un solo accenno al n. 828 per indicare a che fine la Chiesa canonizza alcuni dei suoi figli migliori.
6 - Cfr. Ortolan T., “Canonization dans l’Eglise romaine”, in DThC II, Parigi 1932, c. 1636-39.
7 - Cfr. Eccone alcune: «Inter sanctos et electos ab Ecclesia universali honorari praecipimus»; «Apostolicae Sedis auctoritate catalogo sanctorum scribi mandavimus»;
«... anniversarium ipsius (sancti) sollemniter celebrari constituimus»; «statuentes ab Ecclesia universali illius memoriam quolibet anno pia devotione recoli debere».
8 - Cfr. Al riguardo Ortolan T., “Canonization”, cit., c. 1634-35; Veraja F., “La beatificazione: storia, problemi, prospettive”, Roma 1983; Stano G., “Il rito della beatificazione da Alessandro VII ai nostri giorni”, in AA. VV., “Miscellanea in occasione del IV Centenario della Congregazione per le Cause dei Santi (1588-1988)”, Città del Vaticano 1988, p. 367- 422.
9 - Cfr. Löw G., “Canonizzazione”, in EC III Roma, p. 604; Federico Dell’Addolorata, “Infallibilità”, ivi VI, p. 1920-24; Ortolan T., “Canonization”, cit., c. 1640. È l’applicazione, non so fino a che punto corretta, d’un ineccepibile principio generale di S. Tommaso, Quodl, IX, 16: «Si vero consideretur divina providentia quae Ecclesiam suam Spiritu Sancto dirigit ut non erret,... certum est quod judicium Ecclesiae universalis errare in his quae ad fidem pertinent, impossibile est».
10 - Cfr. Frutaz A. P., “Auctoritate Beatorum Petri et Pauli - Saggio sulle formule di canonizzazione”, in “Antonianum” 42 (1947) 1-22. Sulla questione in genere, istruttive sono le pagine di Schrenk M., “Die Unfehilbarkeit des Papstes in der Heilichung”, Friburgo (Sviz.) 1965.
11 - Cfr. Parente P. - Piolanti A. - Garofalo S., “Dizionario di Teologia Dogmatica”, Roma 1943, p. 154.
12 - Cfr. Conc. Vat. I, Sess. IV, Constit. Dogm. “Pastor aeternus”, cap. IV, DS 3065. Si vedano, al riguardo, insieme con tutti i manuali della “teologia romana”, i due classici: Bainvel J. V., “De Magisterio et Traditione”, Parigi 1905; Billot A., “De Ecclesia Christi”, Roma 1927. Per il Vaticano II cfr. Soprattutto LG 22/b e 25a-c.
13 - Cfr. Conc. Vatic. I, Sess. IV, Constit. Dogm. “Pastor aeternus”, cap. IV, DS 3074.
14 - Cfr. Ivi.
15 - Cfr. Volendo si può distinguer ancora tra infallibilità essenziale o assoluta ed infallibilità partecipata o relativa: la prima è Dio “qui nec falli nec fallere potest”; la seconda è il carisma da Dio elargito alla sua Chiesa.
16 - Cfr. Ep. 43, 3/7 PL 33, 163.
17 - Cfr. Ep. 105, 5/16 PL 33, 403.
18 - Cfr. “S. Conciliorum recentiorum Collectio Lacensis”, Friburgo Br. 1870Ss., VIII 248- 256.399.
19 - Cfr. La formula proviene da Melchior Cano (+1560), ma il riferimento alla “cathedra” è frequente nei Padri ed ovviamente anche in Autori successivi a Cano: “Auctoritas infallibilis et summa cathedrae S. Petri”(D’Aguirre, +1699); “Cathedrae Apostolicae oecumenicae auctoritas”(ignoto, +1689), cfr. Dublanchy E., “Infaillibilité du Pape”, DThC VII Parigi 1972, c. 1689; cfr. Pure Maccarrone M., “La ‘cathedra sancti Petri’ nel Medioevo da simbolo a reliquia”, in “Rivista di storia della Chiesa in Italia” XXXIX (1985) 349-447.
20 - Cfr. Maccarrone M., “Cathedra Petri” und die Entwicklung der Idee des päpstlichen Primats vom 2. Bis 4. Jahrhund., in “Saeculum” 13 (1962) 278-292.
21 - Cfr. Dublanchy E., “Infailibilité”, cit. C. 1699-1705.
22 - Cfr. “Kirchliche Dogmatik” IV/1, p. 770- 72.
23 - Cfr. p. es. Fries H. (a c. Di), “Handbuch theologischer Grundbegrijffe”, Monaco 1963.
24 - Cfr. Ivi. I 180.809.854.857; II 270.274.
25 - Cfr. Ivi. I 718.817.857; II 518.
26 - Cfr. Rahner I. - Vorgrimler H., “Kleines theolog. Wörterbuch”, Friburgo Br. 1961, cit. Da Löhrer M., “Portatori della Rivelazione”, in MS 2 Brescia 1973, p. 87.
27 - Cfr. Dell’8 dicembre 1854, DS 2800-04.
28 - Cfr. Dell’1 novembre 1950, DS 3900-04
29 - Cfr. Lio E., “Humanae vitae e infallibilità”, Città del Vaticano 1986.
30 - Cfr. Del 25 luglio 1968, AAS 60 (1968).
31 - Cfr. “Infallibilité” cit. C. 1705-06
32 - Cfr. Al riguardo Dublanchy E., “Eglise”, in DThC IV. Parigi 1939, spec. c. 2188-2210.
33 - Cfr. De Rosa G., “Fatti dogmatici”, in EC III Roma 1995, p. 1058.
34 - Cfr. Veraja F., “La canonizzazione equipollente e la questione dei miracoli nelle cause di canonizzazione”, Roma 1975, p. 14.
35 - Cfr. Ivi.
36 - Cfr. “Instruction pastorale”, 10 febbraio 1704, “Oeuvres complètes” III, 579ss; “Instruction pastorale”, 2 marzo 1705, ivi IV,16ss; “Deuxième lettre à l’évèque de Meuax”, IV, 338; “Lettre sur l’infaillibilité del’Eglise touchant les faits dogmatiques”, V, 108ss: in Dublanchy E., “Eglise”, cit., c. 2190-91.
37 - Cfr. “De locis theologicis” V, 5 in “Opera omnia”, Venezia 1759, p. 140.
38 - Cfr. DICI 50, 22 marzo 2002.
39 - Cfr. “Il magistero della Chiesa cattolica”, Assisi 1986, p. 155-56.
40 - Cfr. “Les dimensions réelles de l’infaillibilité papale”, in Castelli E. (A c. Di), “L’Infaillibilité, son aspect philosophique et théologique” (Atti del Convegno del Centro Intern. Di Studi umanistici e dell’Istituto di Studi filosofici, Roma 5-12 febbraio 1970), Parigi 1970, spec. p. 145.49.
41 - Cfr. “Sociologie et canonization”, Liegi 1969.
42 - Cfr. “Les dimensions”, cit. p. 156.
43 - Cfr. Ols D., “Fondamenti teologici”, cit. In“Studium Congreg. de Causis Sanctorum” (Pars thologica ad usum Auditorum), Roma 2002, p. 35.
44 - Cfr. “L’infallibilità del Papa e la Canonizzazione dei Santi”, in “Sodalitium” XVIII/54 (2002) 4-5.
45 - Cfr. “Infallibile anche nelle cause di canonizzazione?”, Roma, 1994.
46 - Cfr. “Infallibility of the Pope in his decrees of Canonization” in “The Jurist” 6 (1946) spec. p. 405-15.
47 - Cfr. “De infallibilitate Ecclesiae in Sanctorum canonizationis causa”, in “Antonianum” 22 (1947) 1-22.
48 - Cfr. “Il magistero infallibile del Romano Pontefice”, in “Divinitas” 5 (1961) 581-606.
49 - Cfr. Al riguardo “Conclusione teologica” in EC III, Roma 1950, c. 184ss.
50 - Cfr. “Infallibile”, cit. P. 39-47.
51 - Cfr. A favore dell’infallibilità papale nel proclamare i Santi sta la maggior parte dei grandi teologi, soprattutto S. Tommaso, Quotl. IX, VIII, 16; Melchior Cano, “De locis theologicis”, V, 5, 5, 3; Suárez R., “Defensio fidei adv. Anglic. Sect. Errores” in “Opera omnia”, Parigi 1856-78, XII p. 163 e XXIV p.165: Benedetto XIV, “De Servorum Dei beatificatione”, cit., I, 44, 4 e II, 229, 2.
52 - Cfr. Benedetto XIV, Ivi I, 45, 28. Cfr Ols D., “Fondamenti teologici”, cit. p. 49.
53 - Cfr. S. Tommaso, Quotl. IX, 16 c.
54 - Cfr. Cit. p. 45.
55 - Cfr. Ortolan T., “Canonisation”, cit. c. 1641.
56 - Cfr. Le affermazioni contrarie alla dottrina comune, al seguito dei Bellarmino R., “De sanctorum beatitudine”, II col. 699 (1,7); Benedetto XIV, “De Servorum Dei”, cit., I 39,5 (11,170), riposano tutte sul già segnalato procedimento logico “per assurdo”. Comunque, “de fide” sarebbe solo la dichiarazione formale del Papa che canonizza, non la gloria eterna del canonizzato; sarebbe veramente difficile, infatti, dedurre da una verità rivelata, o semplicemente subordinata ad essa, l’accennata gloria eterna.
57 - Cfr. Leone XIII, Encicl. “Satis cognitum”, 29 giugno 1896, DS 3303; cf DS 3305: «At vero qui unicam condidit, is idem condidit unam: videlicet eiusmodi, ut quotquot in ipsa futuri essent, arctissimis vinculis sociati tenerentur ita prorsus, ut unam gentem, unum regnum, corpus unum efficerent».
58 - Cfr. Frutaz A. P., “La Santità”, cit. p. 119.

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(Tratto da Una Vox)