domenica 14 luglio 2024

Nei buoni, Dio manifesta la sua potenza e la sua misericordia, nei cattivi la sua ira, ossia la sua giustizia, e della mescolanza dei cattivi con i buoni si serve per preparare questi alla gloria con l’esercizio della virtù. (Don Dolindo, commento a Romani 9)

 


Don Dolindo Ruotolo
Commento alla Lettera ai Romani 9
Pagg 207-216; 219-229

Dio è libero di distribuire i suoi doni a chi vuole

Da quello che l'Apostolo ha detto, potrebbe sorgere una gravissima difficoltà che egli si affretta a risolvere: se Dio elegge gratuitamente e per pura misericordia, ne consegue da questo che vi è ingiustizia in Dio? San Paolo rigetta la conclusione come blasfema: Non sia mai! E soggiunge, a conferma che Dio è libero nel distribuire i suoi doni a chi vuole, le parole che Egli stesso disse a Mosè quando questi gli domandò di vederlo faccia a faccia: Farò misericordia a chi faccio misericordia, e avrò compassione di chi ho compassione (Es 33,19). 
L’occasione per la quale Dio pronunciò le citate parole fu questa: il popolo ebreo aveva commesso l’orribile peccato di farsi come idolo un vitello d’oro, sostituendolo a Dio, e adorandolo come Dio con clamorose feste.
Mosè, per lo sdegno provato nel vedere quell’obbrobriosa degradazione, non potendo esprimersi appieno perché balbuziente, aveva spezzato le tavole della Legge ricevute dal Signore, ed aveva fatto giustiziare ventitremila uomini tra i più rei di quell’orribile peccato. Poi risalì sul monte per ottenere da Dio il perdono a tutto il popolo prevaricatore, che avrebbe meritato lo sterminio.

Dio perdonò al popolo, e ordinò a Mosè di condurlo nella terra promessa, promettendogli di farlo accompagnare dal suo angelo, custode della nascente nazione.

Mosè, fatto ardito dalla misericordia di Dio, gli domandò in grazia che Egli medesimo avesse accompagnato il popolo, e per poterne riconoscere la presenza e assicurarsene, lo supplicò di fargli vedere la sua gloria. Evidentemente Mosè, uomo semplice ed amante di Dio fino al punto da conversare con Lui, assillato dall’idea di tutelare nel viaggio il popolo che gli era stato affidato, invece di abbandonarsi al Signore interamente, pretese che Egli lo rassicurasse, quasi che avesse avuto diritto alla protezione che invocava, e per questo Dio gli disse: Avrò misericordia di chi vorrò e sarò clemente verso chi mi piace.  
Egli volle fargli capire che gli usava misericordia e lo esaudiva non perché ne avesse diritto, ma per pura misericordia e con libera sua volontà.
San Paolo cita le parole di Dio dalla versione dei Settanta, e le riporta per confermare che Dio, nei benefici che elargisce, non è stretto da un dovere, ma lo fa liberamente e per pura misericordia. Dunque, conclude l’ Apostolo, il conseguire la grazia di essere eletti dal Signore per il compimento di un suo disegno d’amore non dipende né dal volere dell’uomo né dal correre egli nelle sue vie, quasi che potesse imporsi con il suo al volere di Dio, o potesse affacciare un diritto, solo perché ha camminato fedelmente nelle vie del bene, ma dipende unicamente dalla misericordia di Dio, che elegge le sue creature e se ne serve per la manifestazione della sua gloria. 
Nello stesso modo, Dio può servirsi anche della perversità umana liberamente, e può negare la grazia della luce e della conversione a chi merita per propria colpa la riprovazione, per utilizzare il male stesso dei perversi alla manifestazione della sua potenza.
San Paolo cita, a conferma di quello che dice, le parole che Mosè disse al faraone in nome di Dio, e le cita a senso e come se le avesse dette Dio stesso a lui: io ti ho suscitato precisamente per mostrare in te la mia potenza, e perché il mio nome sia annunciato in tutto il mondo (Es 9,16). Dunque — conclude l’ Apostolo — Egli usa misericordia a chi vuole e indurisce chi vuole. Il Signore, infatti, utilizzò la perfidia del faraone, e permise che avesse corso, mentre avrebbe potuto stroncarla con un atto di giustizia fin dal primo momento, per manifestare, nei prodigi che operò per vincerla e punirla, la potenza della sua gloria, e per farsi conoscere a tutto il mondo in tutti i secoli.
Dio, in fondo, come si rileva chiaramente da quello che segue in san Paolo (versetto 22, 23), non indurì il faraone quasi per capriccio, ma ne sopportò con grande longanimità la protervia e la durezza, per aver occasione di compiere quei grandiosi miracoli che in ogni tempo hanno parlato al mondo della grandezza della divina potenza.

Sul libero arbitrio 

Dio, motore supremo, muove tutte le cose in conformità della loro natura e, poiché è proprio dell’uomo il libero arbitrio, Dio lo muove in modo che egli liberamente vuole ed opera. Con la sua grazia, Egli chiama e previene l’uomo e questi, sotto l’influsso efficace della grazia, liberamente acconsente alla chiamata, si prepara alla giustizia e, divenuto giusto, opera il bene. 
Un perverso ha una volontà traviata, ed opera liberamente il male; Dio, lasciandolo in questa libertà, contro la quale nulla potrebbe la grazia perché il perverso la rifiuta, lo muove secondo questa libertà ostinata nel male, e se ne serve per manifestare al mondo la sua potenza, la sua sapienza e il suo amore, senza fare né torto né ingiustizia all’empio, anzi usandogli la misericordia di utilizzarne la perfidia. 
Così si servì dell’empietà dei Giudei per far immolare suo Figlio sulla croce, e si servì dell’ostinata perfidia del faraone per poter manifestare la sua potenza, e conquidere con essa tanti cuori ostinati in tutti i secoli. 
È un mistero altissimo senza dubbio, che l’uomo non ha la forza di scrutare, e innanzi al quale non può avere la presunzione di contendere con Dio. A lui deve bastare sapere che Dio è infinito amore e infinita giustizia, e che tutto fa con infinita sapienza e con ordine perfettissimo. 
 
San Paolo, perciò, propone un’obiezione, che immagina gli faccia un Giudeo o un pagano in particolare, e la risolve non con un ragionamento diretto, ma imponendo un pieno rispetto al Signore.
L’obiezione è questa: Se Dio indurisce chi vuole, perché egli allora si lamenta con quelli che peccano e non si convertono? E chi può resistere al suo volere se Egli indurisce il peccatore e non gli dona la grazia per risorgere? 
Ma Dio non indurisce perché vuole il male o la perdizione, ma perché utilizza il male e l’ostinazione della libertà traviata dell’uomo, come si è visto. Dio la utilizza quando è giunta a tal punto che resiste ad ogni grazia, operando sempre con infinita giustizia. 
San Paolo, però, non risponde all’obiezione, ma ritorna all’argomento della divina elezione, e mostra che, se Dio è padrone di utilizzare le sue creature come vuole, perché ne è il Creatore amorosissimo, e se può chiamarle a compiere un ufficio alto o umile nell’armonia della creazione e della provvidenza, può anche utilizzare il male che esse fanno, senza che cessi la loro responsabilità. Dinanzi alle disposizioni di Dio, che non possono essere che amore e non sono che amore, del resto, può l’uomo osare di contendere con Lui?

O uomo tu chi sei — esclama con forza l’Apostolo — che vuoi entrare in discussione con Dio? Domanda forse il vaso di terra al vasaio: perché mi hai fatto così? O non ha Il vasaio potere sulla creta, da formarne della stessa pasta sia un vaso per uso onorevole, sia un altro per uso vile?

Se il vasaio non fa torto alla creta servendosene per un suo disegno particolare, pur non avendola creata, farà torto Dio alla sua creatura chiamandola, se buona, come strumento della sua gloria, e se cattiva, sopportandola con grande longanimità, quando dovrebbe ricacciarla e punirla subito dopo il peccato, e utilizzandola per far conoscere i tesori della sua gloria servendosi di essa come strumento per far esercitare la virtù e la pazienza ai buoni? 
Nei buoni, Dio manifesta la sua potenza e la sua misericordia, nei cattivi la sua ira, ossia la sua giustizia, e della mescolanza dei cattivi con i buoni si serve per preparare questi alla gloria con l’esercizio della virtù. 
 
Per noi — soggiunge san Paolo — proprio per noi Dio compie questo ammirabile piano, e lo compie senza distinzione di razza, quasi che la virtù fosse il privilegio ereditario di un popolo, avendoci Egli chiamati come suo popolo nuovo e discendenza spirituale di Abramo, sia tra i Giudei che tra i pagani.
Questa elezione non è un pensiero dell’Apostolo, ma il compimento di una promessa di Dio, e san Paolo, a conferma cita due passi di Osea, e li cita dai Settanta: il primo in modo libero: Chiamerò mio popolo — dice il Signore — quello che non è mio popolo, e colei che non era amata la chiamerò mia diletta (2, 23-24). 
Queste parole, in senso letterale si riferiscono alle dieci tribù scismatiche d’Israele, cadute nell’idolatria e in tutti i vizi pagani, alle quali Dio promette misericordia e la restituzione dell’antico privilegio di popolo di Dio se si convertiranno. In senso spirituale, esse si riferiscono ai pagani figurati dalle dieci tribù. Le due frasi: popolo non mio e non amata, sono i due nomi simbolici che, per comando di Dio Osea mise ad uno dei suoi figli ed a sua figlia, per dire che il Signore non riguardava più come suo popolo le tribù scismatiche. La figlia la chiamò Senza-misericordia, e il figlio lo chiamò: Non più popolo mio (1, 6-9).

Il secondo testo di Osea san Paolo lo cita quasi letteralmente: E avverrà che in quel medesimo luogo dove fu detto loro: Voi non siete popolo mio, là essi saranno chiamati figli del Dio vivente (1,10). Anch'esso era letteralmente diretto alle dieci tribù scismatiche ma in realtà si riferiva profeticamente alla conversione dei pagani, perché le dieci tribù non ritornarono mai a Dio in modo da chiamarsi suo popolo, e furono infedeli insieme a tutto Israele.

Dio chiama dunque i pagani come parte del suo popolo, eredi anch’essi della promessa fatta ai santi patriarchi, e li chiama anzi in maggioranza, riservandosi, poi, di richiamare negli ultimi tempi il resto d’Israele. San Paolo lo conferma con due testi d’Isala, citati dai Settanta in modo libero: Isaia poi — egli soggiunge — esclama su Israele: Anche se il numero dei figli d'Israele fosse come l’arena del mare, se ne salveranno solo il resto (Is 10, 22-23).
Poiché Dio fino al termine e con prestezza compirà la sua parola sulla terra con equità, parola presto compiuta farà il Signore .

Il Profeta annuncia il terribile eccidio che per mezza di Sennacherib Dio avrebbe fatto dei Giudei al tempo di Ezechia, eccidio dal quale solo pochi sarebbero scampati. Questo piccolo numero di scampati figurava il piccolo numero di Giudei che avrebbero riconosciuto il Messia e quelli che si sarebbero convertiti alla fine del mondo, Tutt'altro, dunque, che rappresentare unicamente il popolo di Dio promesso ad Abramo, Isacco e Giacobbe, gli Ebrei, erano una minoranza nel vero popolo di Dio, e rappresenta. vano solo una parte di scampati ad uno sterminio. Per questo san Paolo cita un altro testo d’Isaia: Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato discendenza, saremmo diventati come Sodoma, e saremmo stati simili a Gomorra (1,9).

Isaia annunciava l'imminente devastazione del regno di Giuda da parte dei re alleati di Siria e d’Israele. In questa devastazione sarebbe perito così gran numero di Giudei, che i superstiti potevano essere paragonati a pochi semi. Questo fatto era figura di ciò che sarebbe avvenuto spiritualmente al popolo di Dio sia al tempo del Messia sia in tutta la sua storia, poiché pochi soltanto si sarebbero aggregati al suo regno, e pochi, relativamente a tutta la massa degli Ebrei nei secoli, gli si sarebbero uniti alla fine del mondo. Gli apostoli e gli Ebrei convertiti al tempo del Messia furono come una semente della messe ubertosa del vero popolo di Dio che fu raccolto tra i pagani, e la massa degli Ebrei che si convertirà alla fine del mondo rappresenterà l’ultima fioritura di quel residuo che il Signore lasciò del suo popolo eletto, perché non fosse interamente escluso dal vero popolo suo e dalla vera spirituale discendenza di Abramo, Isacco e Giacobbe.

La responsabilità dei Giudei

Dopo aver dimostrato che Dio non è stato infedele alle sue promesse, e dopo aver considerato il problema della riprovazione dei Giudei in ordine a Dio, san Paolo passa a considerare la responsabilità dei Giudei nella loro riprovazione, facendo così risaltare ancora meglio la giustizia di Dio. Nel resto di questo capitolo egli comincia ad affermare che non cercarono la salvezza là dove Dio l’aveva posta. Essendo stato Dio fedele alle sue promesse, che cosa si dovrà dire della vocazione dei pagani e della riprovazione dei Giudei? Si dovrà dire che le genti le quali non seguivano la giustizia hanno conseguito la giustizia, quella giustizia che viene dalla fede. Erano traviati nei loro vizi, ma abbracciarono la fede, furono giustificati, e conseguirono la giustizia.

Israele invece, seguendo una legge di giustizia, non pervenne alla legge di giustizia.

Aveva una legge santa datagli da Dio, poteva santificarsi aspirando al Messia prima della sua venuta ed abbracciando la fede dopo la sua venuta, ma non cercò la giustizia da questa fede, si restrinse alle opere della Legge secondo la lettera e non secondo lo spirito, non riconobbe Il Cristo predetto dalla Legge, anzi se ne scandalizzò, urtando contro di Lui come contro una pietra d'inciampo, e non trovò la salvezza. 
San Paolo cita a conferma due testi d'Isaia, abbreviandoli e combinandoli insieme, il primo (28,16) dai Settanta, e il secondo (8,14) dall'ebraico: Ecco che io pongo in Sion una pietra d'inciampo, una pietra di scandalo, e chi crede in Lui non sarà confuso. Il primo testo dice esattamente così: Ecco che io pongo nelle fondamenta di Sion una pietra eccellente, eletta, angolare, preziosa... colui che crederà in essa non resterà confuso. È un testo messianico, e la pietra di cui parla è il Cristo.
Il secondo testo dice: E sarà [il Dio degli eserciti]... in pietra d'inciampo e di scandalo alle due case d'Israele ecc.; parla direttamente di Dio, ma deve intendersi del Messia, come consta dall’autorità di san Paolo stesso, di san Pietro (2Pt 2,6-8) e dal contesto, giacché Isaia parla del futuro Emmanuele. Accecati dai loro pregiudizi aspettavano un Messia politico, si scandalizzarono dell’umile condizione del Redentore, si scandalizzarono ancora più della sua Passione, e lo rigettarono. (...)

Dio elegge gli umili 

Il maggiore servirà al minore, disse Dio eleggendo il secondogenito Giacobbe anziché il primogenito Esaù. E perché? Affinché rimanesse fermo il disegno elettivo di Dio, non dipendente dalle opere ma da Colui che chiama. Dio elegge sempre ciò che è più umile e più povero, non solo per manifestare la sua liberissima volontà di eleggere quegli che a Lui piace, ma anche perché colui che è umile, piccolo, povero, inetto, offre minori ostacoli alla sua grazia operante, e si lascia più facilmente condurre nelle sue vie. Per essere, quindi, strumenti adatti nelle sue mani, bisogna farsi piccoli e umiliarsi profondamente nella propria nullità.

Le anime difficilmente progrediscono nelle vie della pietà, perché difficilmente si umiliano in modo totalitario innanzi a Dio. C’è sempre in esse un senso di presunzione, di tracotanza, di critica, soprattutto di critica, che le rende incapaci ad essere modellate da Dio. Sono creta granulosa che l’artista non può plasmare, sono pietre scistose, che lo scalpello non può lavorare; si sfaldano; sono legni duri con venature in un solo senso, che l’artista non può scolpire; sono tizzoni ardenti di passioni, che la rugiada non può refrigerare, perché prima di giungervi si svapora.

Siamo minorati per il peccato e per le nostre miserie, eppure ci crediamo maggiori degli altri; se ci credessimo minori, Dio ci eleggerebbe, perché Egli guarda ciò che è umile. Non possiamo far appello che alla misericordia di Dio; non abbiamo alcun titolo per pretenderla, e dobbiamo implorarla nei gemiti della nostra umiliazione interiore.

O uomo, tu chi sei?

O uomo tu chi sei che vuoi entrare in discussione con Dio? E questa la grande domanda che deve guidarci nelle nostre relazioni col Signore: Chi sono io? O qual conoscenza ho io dei disegni divini?

Sono piccola e spregiata creatura, macchiata di peccato, corta di giudizio, inetta nella volontà, tutta impigliata nelle cose della terra, ristretta nella cerchia di povere aspirazioni, traviata da falsi apprezzamenti, incapace di valutare i disegni altissimi di Dio. Ed io oso contendere con Lui ed affacciare diritti innanzi a Lui? Egli fa tutto con grande sapienza, ma non dà conto di quello che fa, perché non potrebbe spiegarcelo, data la nostra inettitudine.

Se un petulante e incretinito fanciullo domanda ad un artista valoroso nel colmo del suo lavoro: Perché fai così? E lo domanda con presunzione perché gli sembra che, a suo modo di vedere, agisca a capriccio e con disordinata confusione, l’artista che cosa gli risponde? Non potendo dargli conto di quello che fa perché il fanciullo non sarebbe capace d’intenderlo, gli dice semplicemente: Io faccio quello che mi piace.

Nello stesso modo e con proporzioni immensamente superiori, è detto che Dio fa come gli piace; sceglie il minore invece del maggiore, ama uno e odia un altro, fa misericordia a chi vuol farla e la nega a chi vuole negarla, ha compassione di chi vuole, indurisce chi gli piace, e da una stessa pasta di creta fa un vaso di onore o un vaso vile, come meglio gli piace. Egli in realtà opera con infinita sapienza ed infinito amore, e compie mirabili disegni di misericordia e di giustizia che a noi sfuggono completamente, perché non siamo capaci d’intenderli.

Ha mai trovato uno scienziato nelle opere della creazione qualcosa che non avesse ragion d’essere o che fosse un capriccio? A volte ha creduto di trovarla, ma poi ulteriori scoperte scientifiche gli hanno fatto capire che tutto era disposto con peso e misura, e tutto aveva la profonda ragion d’essere. Ora, se neppure una cellula è superflua e sta fuori posto, come potrebbe Dio disporre a capriccio quello che riguarda le anime?

Noi, dunque, dobbiamo adorare i disegni della sua grazia, della sua misericordia e della sua giustizia e, pur non intendendoli, dobbiamo umiliarci nella nostra profonda stoltezza. Non siamo tra mani estranee ma tra mani paterne, anzi materne, e invece di contendere con Dio nei momenti di dolore e di ansietà, dobbiamo abbandonarci alla sua adorabile volontà che tutto dispone con infinito amore. Nell’universo materiale, che pur non ragiona, c’è sempre una ragione che regola i suoi movimenti; potrebbe questa grande legge fallire proprio dove la ragione e la volontà imperano da regine? Tutto è buono, tutto è santo, tutto è giusto, tutto è minutamente ponderato, anche la perdizione dell’empio

O uomo tu chi sei? È necessario farci questa domanda quando sorge in noi la presunzione di contendere con Dio. Chi sono io? Un povero nulla venuto dal fango della terra e dal soffio misericordioso di Dio. Questo sono: fango e nullità come corpo, creatura d’amore come anima, ma anche come anima sono uno spirito vuoto, se la grazia di Dio non lo riempie di attività e di doni. Una macchina è formata di ferro; è una materia grezza che è lavorata nel fuoco, a stento. L’artista ne connette le parti secondo un fine particolare, e la macchina sembra quasi animarsi. Non può muoversi, però, né produrre, se l’artista non vi accende il motore. Essa allora produce ma per la mano abile dell’artista che la muove. In se stesso è sempre ferro inerte e pesante.

Chi sono io? Sono ragionevole ma sragiono; di tutte le mie idee e aspirazioni poche possono sottrarsi ad una diagnosi negativa. Ho una volontà, ma di tutti i suoi atti pochi possono passare immuni dalla sanzione di un codice; la mia volontà delinque anche quando desidera le piccole e povere cose della vita.

Che cosa sono? Sono gonfio di orgoglio eppure non sono che stoltezza, sono avido di possedere e sono vuoto, poiché ogni mio possesso o mi è di peso o sfugge per l’inesorabilità del tempo e della morte come grano che sfugge tra i fori d’un crivello. Nulla rimane a me di quello che avidamente raccolgo.

Che cosa sono? Ricercatore di miserie, che, aspirando all’amore ed alla vita, mi avvilisco spesso nel fango. Non fisso gli occhi al Cielo, vedo solo il cielo riflesso nel pantano, e mi tuffo nel pantano per abbrancarlo, rimanendo soffocato nella melma.

Che cosa sono? Un uragano di stoltezze, nel quale la ragione si perde, nel quale, come in un vortice, vorticano false impressioni, apprezzamenti errati, reazioni stupide, impeti irragionevoli, urti che dissolvono, strali che non feriscono, ma ritornano contro di me, come frecce avvelenate, nel mio cuore. Groviglio di nervi che si mettono al posto della ragione, fiotti di sangue che confluiscono come nebbia rossigna che mi offuscano la vista, flutti di amarezza che irrompono per frangersi, lasciando in me solo il mugolare della tempesta che mi rende infelice. Questo sono nell’ira, io che nell’ira pretendo affermarmi, difendermi, vincere e dominare! Salgo solo per precipitare con un tonfo più disastroso, mi impongo per diventare servo, più vilipeso, e come povero fuscello sono travolto dal vento della realtà, innanzi alla quale apro gli occhi quando già sono tutto in rovina!

Che cosa sono io? Un misero ricercatore di rifiuti, io che ho in me l’anelante desiderio delle cose eterne! Un infelice che si rattrista nella sua stolta felicità, poiché gli basta un nulla per sentirsi infelice, poiché nulla lo sazia e tutto desidera, traendo disgusti ed oppressioni da quella stessa fame insaziata di piaceri, egli che potrebbe raccogliere perle di penitenza e rubini d’amore.

Che cosa sono io? Un perenne scontento che tutto brama e di tutto si lamenta, un perenne ozioso che nulla sa fare per la sua vera felicità. Un muto che non sa parlare la lingua del Cielo, un sordo che non ne sa ascoltare le armonie, un misero orecchiante di grandezze e di gloria che strimpella, su questa rotta arpa di sette suoni scordati, le nenie della sua follia, e che nell’ubriachezza della sua ragione stravolta, pretende contendere con Dio!

Quale gara, quale gara di ributtante contrasto: un bimbo moccioso che contende col suo zufolo scordato con l’orchestra di Beethoven, e che giudica capricci di follia le stupende architetture d’una composizione mirabile! Un povero sfavillare di paglia bruciaticcia che crede disordinata stoltezza lo scintillare matematico degli astri! O uomo tu chi sei? Nudo sei uscito dal seno di tua madre e nudo ritorni nel seno della terra, perché sei polvere e in polvere ritornerai.

Perché hai tanta presunzione di contendere con Dio? Perché ti credi una cosa importante, tu con la tua ragione vacillante e le tue forze stremate! Perché ti levi contro il Signore? Guardati nello specchio della verità, e le tue pose ti appariranno ridicole.

Ecco uno scienziato, accigliato nel suo studio, sprofondato nei suoi libri, intento alle sue ricerche. Egli si crede dominatore del creato e non vi rappresenta che un giocattolo. Quello che fa è gioco d’infanzia, è gioco che sparisce nel colossale gioco della creazione, opera delle mani di Dio. Cammina tra le tenebre dell’ignoranza, incede a tentoni fra ipotesi; dice e si contraddice, e il mondo che edifica oggi è demolito domani da un altro. Noi ridiamo dell’alchimia, come i nostri posteri rideranno delle nostre teorie di fronte a quelle che saranno fatte, e già si presenta all’orizzonte scientifico non altro che un atomo, il cui nucleo, disgregato, già rivoluziona tutte le ricerche del passato. Lo scienziato non conosce altro che il mondo materiale, ma in minimissima parte, e come può ardire di valutare, a suo modo, la potenza, la sapienza e l’amore di Dio, fino al punto da censurarlo, quasi che avesse fatto delle cose inutili o dannose?

Un critico, un ineffabile critico, un torrente mormorante di stoltezze, un perenne scontento di tutto, che per troppo valutare svaluta tutto, e per troppo illuminare spegne ogni luce. Quante stoltezze trae dai suoi documenti, quante deduzioni fa, che crede infallibili e che un altro demolisce! Come di una testa non rimane che il teschio con le orbite vuote, paurosamente vuote, col naso troncato che non percepisce odori, con i denti che sogghignano e bocca che non parla, muto, inerte, sul quale il mondo esterno non riflette più nulla, così rimane un critico tra le sue demolizioni avventate, povero teschio irrigidito, sul quale passa il soffio mucido della morte! 
E ardisce egli criticare l’infinita Vita, l’infinita Sapienza e l'Eterno Amore? 
 
O uomo tu chi sei? In tutto sei piccolo, anche quando col pennello credi emulare le fulgenti aurore, o con lo scalpello vuoi trarre dal marmo la vita di un’idea, o dal vibrare dei suoni vuoi trarre onde di emozioni delicate. Tutto è piccolo quel che tu fai, anche quando è bello, perché tu non ritrai nella tua tela che una linea scialba di quello che Dio ha fatto nello scenario dei cieli, sul tuo marmo non incidi che un piccolo tratto della tua vita che sprizza dalle sue viventi creature, e nei tuoi suoni non riproduci che un’eco lontana delle armonie create. 
E tu vuoi contendere con Dio, tu, piccolo nulla?
Dinanzi ai monti sei atomo, innanzi ai mari sei meno che una chiocciola, innanzi ai cieli sei meno che un pulviscolo errante; in mezzo alle forze che ti circondano sei impotente, ti abbatte una folata di vento, ti atterrisce un brivido della crosta terrestre, che manda in frantumi i tuoi superbi edifici, ti sconvolge il saettare delle nubi, e allo scroscio della pioggia non hai che opporre. Oggi sei piccolo innanzi ad un atomo solo, anzi all’infinitesimale nucleo di un atomo, che con la sua forza sconvolge le tue città, e ti rende come stilla evaporata in un grande fuoco! 
Sei tu forse padrone di quel che ti circonda? Puoi imporre leggi al creato, puoi conoscere le disposizioni di Dio? Se un vaso non può domandare al vasaio: Perché mi hai fatto così, noi domandarlo tu a Dio che opera sempre per un fine altissimo, e che tutto t’avvolge col suo amore? Tu non puoi fare che adorarlo e amarlo, amarlo, amarlo, perché Egli è potenza, Sapienza e Amore. 

4. Un atto di profonda umiltà e adorazione innanzi a Dio Uno e Trino.

Io ti adoro, o mio Dio, Uno e Trino, ti adoro nella manifestazione della tua potenza, nella magnificenza della tua sapienza e nell’infinito tuo amore, ti adoro e ti amo.

Ti adoro nelle disposizioni della tua volontà, le accetto come beneficio dell’immensa tua carità; ti adoro e ti amo.

Mi umilio innanzi al tuo trono; sono un nulla, sono peccato, sono stoltezza, sono estremamente povero di tutto, e riconosco da te ogni bene; ti adoro e ti amo.

Fa’ di me quello che vuoi e manifesta in me la tua gloria come ti piace; io sono tutto nelle tue mani, o mio Dio; ti adoro e ti amo.

Nel mondo vedo ondate di malvagità che mi sconvolgono, ma non sono io il padrone o il regolatore del mondo,

Se tu lo permetti non fai nulla di storto o d’ingiusto; io credo, ti adoro e ti amo.

Quale aspirazione più nobile io posso avere, quanto quella di fare la tua volontà? Tu sei bontà per essenza e non puoi far nulla che non sia un bene; ti adoro e ti amo.

Canti a te gloria ed onore questo mio piccolo essere, e dalla mia cenere si sprigioni l’applauso alla tua infinita grandezza; ti adoro e ti amo.

Innanzi alla tua sapienza, confesso la mia stoltezza, innanzi alla tua potenza la mia somma inettitudine, innanzi al tuo amore la mia malvagità; ti adoro e ti amo.

Oh, quanto sono piccoli i cieli innanzi alla tua infinita grandezza, quanto è ristretto il mare innanzi alla tua immensità, quanto sono povere le forze create innanzi alla tua onnipotenza; ti adoro e ti amo.

Io credo in te, spero in te, ti amo sopra tutte le cose, e mi dono tutto a te, perché Tu compia in me i tuoi disegni d’amore; rendimi pure vaso d’onore se ridonda a tua gloria, e vaso di contumelia se con questo posso esaltarti; ti adoro e ti amo.

Rendimi tuo servo, comandami quello che vuoi, donami quel che comandi, disponi di me come ti piace; ti adoro e ti amo.

Se passa la morte e spegne ogni luce che illumina la mia vita, ti benedico, ti adoro e ti amo, perché so che tu sei la risurrezione e la vita.

Se mi colpisce un malanno e mi rende inerte nel mio povero giaciglio, io vi dimoro nella tua volontà come su letto di fiori, perché so che allora l’Amor tuo mi riplasma, e so che allora i miei lamenti diventano armonia d’amore per la tua gloria; ti adoro e ti amo.

Eccomi tutto umiliato nel mio nulla, come sgabello della tua gloria; levati trionfante, o infinita potenza e regna in me, levati, o eterna sapienza e glorificati in me, levati, O Eterno Amore, e uniscimi a te.

Io sono un nulla e tu sei tutto, sia benedetto il tuo Nome e sia fatta la tua volontà ora e per sempre. Amen.

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Lettera ai Romani 9 (Bibbia Ricciotti)

Incredulità dei Giudei

1- Dico la verità in Cristo; non mentisco, rendendone testimonianza la mia coscienza nello Spirito Santo:2grande dolore io provo e continua pena è nel mio cuore.3Vorrei essere io stesso anàtema e separato da Cristo, per i miei fratelli, parenti miei secondo la carne,4i quali sono Israeliti, dei quali è l'adozione a figliuoli e la gloria e i patti d'alleanza e la Legge e il culto e le promesse,5ai quali appartengono i patriarchi, e dai quali è Cristo secondo la carne, il Dio che è sopra tutte le cose benedetto nei secoli, amen.6Non già che sia andata perduta la parola di Dio, perchè non tutti i discendenti da Israele, sono Israeliti,7nè per essere seme d'Abramo son tutti figli; ma: «In Isacco avrà nome la tua discendenza».8Il che vuol dire: non i figli della carne sono i figli di Dio, ma i figliuoli della promessa van calcolati nella discendenza.9Poichè della promessa questa è la parola: «In questo tempo verrò, e Sara avrà un figliuolo».10E non solo questo, ma anche Rebecca ebbe due figli da un solo uomo, da Isacco nostro padre;11poichè pur non essendo ancora nati e non avendo fatto nulla nè di bene nè di male, affinchè fermo stesse il proponimento di Dio relativamente alla elezione,12non dalle opere ma dal voler di chi chiama, fu detto a Rebecca che:13«il maggiore sarà servo del minore», conforme sta scritto: «Ho amato Giacobbe, ho odiato Esaù». Dio non può essere accusato d'infedeltà o d'ingiustizia

Dio non può essere accusato d'infedeltà o d'ingiustizia.

14Che cosa diremo dunque? Forse è ingiustizia in Dio? non sia mai!15Egli dice a Mosè: «Userò misericordia a chi uso misericordia, e avrò compassione di chi avrò compassione».16Adunque non è di chi vuole nè di chi corre, ma di Dio misericordioso.17Dice la Scrittura a Faraone: «Per questo appunto ti ho suscitato, per mostrare in te la mia potenza, e perchè sia annunziato in tutto il mondo il mio nome».18Adunque a chi Egli vuole usa misericordia, e chi Egli vuole indura.19Mi dirai: «E allora, di che cosa ancora si lagna? poichè al voler di lui chi s'è opposto?».20O uomo, e chi se' tu che vieni a disputa con Dio? Non mica dirà il vaso al formatore: «Perchè mi hai fatto così?»21o non ha il formatore dell'argilla facoltà di fare della stessa pasta il vaso di uso onorevole, e quello spregevole?22E se Dio, volendo mostrare l'ira sua e far conoscere ciò che egli può, avesse tollerato con molta longanimità dei vasi d'ira pronti per la perdizione,23anche al fine di manifestare la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, già preparati per la gloria?24[Dico di] noi che anche chiamò non solo dai Giudei ma altresì dalle genti,25come dice anche in Osea: «Chiamerò quello che non è mio popolo, popolo mio: e colei che non era amata, amata»,26e «Avverrà nel luogo ove fu detto loro: - Non siete mio popolo voi - », proprio là saranno chiamati «figli del Dio vivente».27E Isaia esclama sopra Israele: «Se anche il numero dei figli di Israele fosse come la rena del mare, non ne sarà salvato che il residuo».28Poichè la parola sua adempiendo e circoscrivendo, l'effettuerà il Signore sopra la terra.29Conforne anche aveva predetto Isaia: «Se il Dio degli eserciti non avesse lasciato a noi un seme, noi saremmo diventati come Sodoma e ci saremmo assomigliati a Gomorra».

I Giudei responsabili della loro riprovazione

30Che diremo dunque? Diremo che le Genti le quali non andavano dietro alla giustizia l'hanno ottenuta,31e Israele che cercava la legge della giustizia a tal legge non pervenne.32E perchè? perchè non dalla fede [la cercò], ma dalle opere; urtarono nella pietra d'inciampo;33secondo che fu scritto: «Ecco io pongo in Sion un sasso d'inciampo, una pietra d'intoppo, e chi ha fede in lui non sarà svergognato».