domenica 26 maggio 2024

Destino dell'uomo e fine dei tempi - Luis Ladaria: epoca patristica

"Destino dell’uomo e fine dei tempi"

di Luis F. Ladaria 

(da: Storia dei Dogmi "L'uomo e la sua salvezza" V-XVII secolo - Capitolo Ottavo: pp. 361- 384)

La risurrezione di Gesù ha aperto a quanti credono in lui la speranza di risorgere con lui al momento della sua seconda venuta. Con questa risurrezione gli ultimi tempi sono arrivati e i primi credenti vivono rivolti verso l’avvenire, nell’attesa di una prossima fine del mondo. La signoria del Cristo risorto, a cui il Padre ha sottomesso ogni cosa, rimane nascosta ancora per un po’ di tempo. Ma la manifestazione gloriosa del Signore rivelera la sua regalità salvifica su tutti.

L'espressione più forte di tale signoria è, senza dubbio, il giudizio di tutti gli uomini, segno del potere universale che il Padre ha conferito al Figlio. La venuta in gloria del Signore per giudicare i vivi e i morti accompagna la risurrezione di ogni carne. Questa risurrezione significa il ritorno degli uomini alla vita per il giudizio che discernerà il bene dal male e che sarà realizzato dal Signore (cfr. Mt 25, 31-46). «Quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna» (Gv 5, 28-29). Ma la risurrezione significa anche la piena partecipazione dei salvati, vale a dire dei giusti, alla gloria del Signore (cfr. 1 Cor 15, 20-28. 35-49). Non desta stupore il fatto che, sin dai primi tempi del cristianesimo, questi eventi della fine abbiano assunto una grande importanza. La risurrezione dei morti è il carattere distintivo della fede cristiana quanto alla salvezza futura. La vita del risorto e la vita in Gesù Cristo nella pienezza di Dio.

D'altra parte, il Nuovo Testamento parla anche del destino dell’uomo immediatamente dopo la sua morte. Il Signore sulla croce promette al ladrone pentito che «oggi» sarà con lui in paradiso (Lc 23, 43). Paolo pensa che la morte è un guadagno; per lui «essere sciolto dal corpo per essere con Cristo» è ciò che di meglio possa capitargli, anche se per il bene dei cristiani di Filippi desidera vivere per continuare a essere loro di aiuto (cfr. Fil 1, 21-25). Il destino di ciascuno dopo la morte è già oggetto di preoccupazione per gli autori del Nuovo Testamento e quindi per tutta la storia della teologia.

La manifestazione del Signore e la sorte dell’umanità, da una parte, il destino personale di ciascuno al momento della morte, dall’altra parte, sono stati i due poli attorno a cui si e organizzata l’escatologia cristiana. A seconda delle epoche si diede priorità a un aspetto o all’altro. Ma ambedue sono stati sempre presenti nella riflessione ecclesiale, a partire dalle ricche intuizioni, spesso frammentarie, dei Padri più antichi, fino alle sistematizzazioni più coerenti della scolastica e alla riscoperta della dimensione escatologica inerente alla totalita del mistero cristiano. A motivo della diversità dei problemi che si incrociano nel trattare dei fini ultimi, la presente esposizione non potrà che essere frammentaria. Si cercherà di evidenziare gli aspetti più rappresentativi del pensiero di ciascuno degli autori.



I. L'EPOCA PATRISTICA: LA RISURREZIONE DEL CORPO TOTALE DI CRISTO 

 

1. Sotto il segno della fine imminente e del martirio

Indicazioni bibliografiche: B. DALEV (con la collaborazione di J. CHREINER e H. E. LONA), Eschatologie in der Schrift und Patristik, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1986; B. DaLey, The Hope of the Early Church. A Handbook of Patristic Eschatology, University Press, Cambridge 1991; A. FERNANDEZ, La escatologia en el siglo I, Aldecoa, Burgos 1979; CH.E. Hiut, Regnum Caelorum. Patterns of Future Hope in Early Christianity, Clarendon Press, Oxford 1992.

Si cercherebbe invano nei Padri dell’antichità un trattato completo sulla questione escatologica. Ma i riferimenti a questo tema sono numerosi a causa della profonda relazione con l’annuncio di Gesù Cristo risorto. Già nella lettera ai Corinti di Clemente Romano si trova una testimonianza della fede nella risurrezione dei morti di cui Gesù Cristo è la primizia. Questa risurrezione viene rappresentata dall’alternarsi del giorno e della notte, del seme e del frutto; la fenice indica la stessa cosa (1). Non c'e da meravigliarsi che Dio abbia il potere di far risorgere:

Riteniamo, dunque, cosa grande e straordinaria che il creatore dell’universo opererà la risurrezione di coloro che lo hanno servito santamente nella sicurezza di una fede sincera. Non ci comprova anche in un uccello la grandezza della sua promessa? Dice infatti: «Mi risusciterai e ti loderò». E: «Mi coricai e dormii, mi svegliai poiché tu sei con me». E ancora dice Giobbe: «E risusciterai questa mia carne che ha sopportato queste cose»(2)

La ragione ultima di questa speranza è il fatto che nulla è impossibile a Dio (3). La risurrezione di quanti hanno operato il bene si attua al momento della venuta di Cristo (4). Questa venuta deve essere attesa come l’attesero i santi dell'Antico Testamento. Per questo, il cristiano deve vivere santamente, affinché la misericordia divina lo protegga nel giudizio futuro (5). Clemente parla anche della situazione di quanti sono morti e, specialmente, di quanti hanno dato la loro vita per Cristo. Così Pietro è nel luogo di gloria riservatogli e Paolo nel luogo santo. Molte donne, che parimenti hanno sofferto, hanno già la loro ricompensa (6). «Quelli che con la grazia di Dio sono perfetti nella carità raggiungono la schiera dei più, che saranno visti nel novero del regno di Cristo», che li risusciterà dalle loro tombe (7).


La Lettera dello Pseudo-Barnaba parla anche della risurrezione di tutti in relazione con quella di Gesù:
Egli per abolire la morte e per provare la risurrezione dei morti doveva incarnarsi e soffrì. Per compiere la promessa fatta ai padri, prepararsi un popolo nuovo e dimostrare, stando sulla terra, che egli stesso operando la risurrezione giudicherà(8)

Al momento della risurrezione si farà il giudizio che ricompenserà ciascuno secondo le sue opere:

Il Signore giudicherà il mondo senza preferenze. Ciascuno riceverà nella misura che avrà operato. [...] Non facciamo che, restando tranquilli come chiamati, ci addormentiamo sui nostri peccati e il principe del male impadronendosi di noi ci allontani dal regno del Signore(9).

La realtà della vita nuova in Gesù risorto è il centro dell’escatologia di Ignazio di Antiochia. La sua risurrezione è la speranza della nostra:

[Gesù Cristo] realmente risuscitò dai morti poiché lo risuscitò il Padre suo e similmente il Padre suo risusciterà in Gesù Cristo anche noi che crediamo in Lui, e senza di lui non abbiamo la vera vita(10).

La risurrezione è vista qui nel suo aspetto positivo di partecipazione alla vita di Gesù, non nel senso neutro del recupero del corpo (11). L’identificazione con Gesù risorto sarà raggiunta da Ignazio nel suo martirio: «Ma se soffro sarò affrancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui» (12). Non sembra che Ignazio precisi il «momento» della risurrezione a cui lo conduce il martirio. Per mezzo di questo martirio egli spera di raggiungere «la luce pura», facendosi imitatore di Gesù; per questo egli «sarà uomo» (13). «Raggiungere Dio» è un’altra formula che è ripetuta in contesti simili (14) e che indica la pienezza umana  a cui Ignazio giungerà mediante il suo martirio. Del resto, è pronto per il cristiano un avvenire di immortalità, che già fin d’ora gli è assicurato con la partecipazione all’eucaristia, «rimedio d’immortalità [...] per vivere sempre in Gesù Cristo» (15). Tutta la vita eterna è quindi centrata sulla relazione e la comunione con Dio e Gesù Cristo. Suggestiva è la metafora di Ignazio sulla morte come crepuscolo che dà luogo al sorgere del giorno in Dio: «È bello tramontare al mondo per il Signore e risorgere in lui» (16).


Policarpo di Smirne, nella sua Lettera ai Filippesi, si riferisce anche alla risurrezione degli uomini in relazione a quella di Gesù: «Chi l’ha risuscitato dai morti, risusciterà anche noi, se facciamo il suo volere» (17). Quanti hanno sofferto per il Signore non hanno corso invano: «Sono nel luogo loro dovuto presso il Signore con il quale hanno patito insieme» (18). Il riferimento a un destino speciale nell’aldilà per i martiri è ripetuto spesso, a motivo della loro particolare identificazione nella morte con il Signore.

La fede nella risurrezione della carne si trova espressa chiaramente nell’omelia anonima del II secolo, chiamata Seconda Lettera di Clemente. L’incarnazione di Gesù e la salvezza degli uomini, realizzata nella sua carne, sono il motivo della risurrezione:
E qualcuno di voi non dica che questa carne non sarà giudicata e non risorgerà. Di grazia in che foste salvati, in che otteneste la vista se non essendo in questa carne? Bisogna, dunque, che noi, come tempio di Dio, custodiamo la carne. Nel modo con cui foste chiamati nella carne, nella carne anche vi presenterete. Se Cristo nostro Signore che ci ha salvati, da Spirito che era si è incarnato e così ci ha chiamati, allo stesso modo anche noi in questa carne riceveremo il premio(19).

 Il dono dello Spirito rende possibile la partecipazione della carne alla vita e all’incorruttibilità che Dio ci dona (20). La differenza del destino degli uomini è chiara allo spirito dell'autore dell'omelia. Poiché Dio è fedele, chi pratica la giustizia entra nel suo Regno e riceverà le promesse che occhio non ha visto né orecchio ha udito (1 Cor 2, 9) (21). Di contro, gli increduli saranno castigati con il fuoco Inestinguibile: da qui l'esortazione alla conversione e al pentimento (22).


Alcune nozioni teologiche sviluppate con una certa precisione si trovano ne Il Pastore di Erma. In quest'opera si trova uno dei rari testi dell’epoca in cui si utilizza il termine tecnico di parusia riferendosi alla venuta gloriosa di Gesù. Il tempo dell’assenza del maestro, che parte in viaggio e che dà degli ordini ai suoi servitori (cfr. forse Mt 25, 14-30; Lc 19, 11-27), è il tempo che manca fino alla parusia (23). Erma vuole chiamare tutti a penitenza prima dell'imminente giudizio di Dio (24). La parabola ben nota della costruzione della torre dà un’idea della visione di Erma sul destino differenziato degli uomini: il Signore della torre, che deve arrivare perché la costruzione sia terminata, è il solo a poter determinare quali pietre devono o meno far parte di essa (25). Il senso del paragone si spiega in questo modo:
Hai visto che le pietre fatte passare per la porta furono messe nella costruzione della torre e che quelle non fatte passare di nuovo sono state riportate al loro posto? [...] Se non puoi entrare nella città che per quella porta, così nel regno di Dio l’uomo non può entrare diversamente, se non mediante il nome del suo amato Figlio (26).
La torre è la Chiesa, di cui fanno parte soltanto quelli che entrano nel Regno. Le pietre rigettate possono approfittare della tregua concessa nella sua costruzione per la penitenza. In caso contrario, «altri parteciperanno ed essi saranno respinti per sempre» (27). La pienezza del Regno è così quella della Chiesa, in cui entrano quanti ne sono trovati degni. Gesù è la porta. I salvati abiteranno con il Figlio di Dio, poiché essi hanno parte al suo Spirito, e con gli angeli, se persevereranno nel bene (28). La venuta di Gesù opera la diversità di destino degli uomini a seconda che essi siano trovati adatti o meno alla costruzione della Chiesa. Di contro, in Erma non si trova alcun riferimento alla risurrezione.

I Padri apostolici non sviluppano un’escatologia armoniosa. Ma la loro testimonianza è di un valore inestimabile. Senza alcuna pretesa sistematica, essi hanno raccolto in diversi modi espressivi l'essenziale del messaggio neotestamentario sulla salvezza definitiva dell’uomo. Per questo non avrebbe alcun senso interrogarli su ciò che non hanno direttamente formulato: la relazione tra il momento della morte di ciascuno e la risurrezione, la diversa condizione in cui vengono a trovarsi gli uomini prima e dopo quest’ultima, l’immortalità dell'anima. Rimane evidente per loro che la salvezza significa raggiungere Dio, essere con Cristo, partecipare alla vita eterna. E soltanto per mezzo di Gesu Cristo, e in particolare per la sua risurrezione, che la speranza degli uomini nella risurrezione ha un senso.


2. La scommessa cristiana della risurrezione dei corpi: Giustino e Atenagora

La salvezza dell’uomo nella sua integrità è anche la preoccupazione degli Apologisti. Giustino lo sottolinea con forza mettendo in relazione la ricompensa finale dell’uomo con la risurrezione. Il filosofo pensa, com’era normale per il suo tempo, che l’anima è immortale (29), ma ritiene altresi che tale dottrina è insufficiente, se non vi si aggiunge la fede nella risurrezione. Per lo stesso motivo, non gli interessa la ricompensa dell’anima: «[Coloro che] affermano che non c'è risurrezione dei morti, ma che al momento della morte le loro anime vengono assunte in cielo, non dovete considerarli cristiani» (30). Non è che non vi sia una differenza tra i buoni e i cattivi prima della risurrezione: le anime degli uomini pii sono in un luogo migliore, mentre quelle degli ingiusti e dei cattivi si trovano in un altro luogo e tutti attendono il momento del giudizio. Alcuni si sono manifestati degni di Dio, mentre altri meritano il castigo (31).

Di conseguenza, l’escatologia finale è cio che suscita il vero interesse di Giustino. La seconda venuta di Gesù, la parusia, e il momento della risurrezione e del giudizio:

I profeti infatti annunciarono due venute di lui: una, che è già avvenuta, come di un uomo senza onore e sofferente; la seconda, quando si annunzia che dai cieli riapparirà nella gloria con le sue schiere angeliche, quando risusciterà i corpi di tutti gli uomini esistiti e vestirà d’immortalità coloro che sono degni e (i corpi) degli ingiusti, insieme ai demoni malvagi, getterà nel fuoco eterno per un’eterna sofferenza (32).
La risurrezione si basa soltanto sulla potenza di Dio al quale nulla è impossibile. Seguendo la tradizione biblica (cfr. Rm 4, 17; 2 Mac 7, 23. 28), Giustino mette in relazione la potenza creatrice di Dio e il suo potere di risuscitare (33). La fiducia nella potenza di Dio è il fondamento della fede cristiana, anche se non si ha un'esperienza diretta della risurrezione. Al momento della sua seconda venuta il Signore farà risorgere l’uomo interamente: «Noi ci rallegriamo perché crediamo che Dio ci farà risorgere per mezzo del suo Cristo e ci renderà incorruttibili, impassibili e immortali» (34). Unitamente alla risurrezione per il giudizio e per la distinzione tra buoni e cattivi, Giustino parla, in altre occasioni, della risurrezione in termini esclusivamente positivi. Le caratteristiche che si avranno, una volta risorti, esprimono la partecipazione alla vita di Dio in Gesù risorto.

Un modo di vedere molto diverso è offerto da un altro Apologista, Atenagora, autore — anche se talora tale attribuzione è stata messa in discussione — di un trattato: La risurrezione dei morti. Vi è l'intenzione di mostrare la coerenza della fede cristiana nella risurrezione a partire dalle idee generali sulla creazione e sulla potenza di Dio.

Nella sua opera, la risurrezione di Gesù non viene ricordata. La potenza creatrice di Dio è il fondamento di questa fede:
Quanto alla potenza di Dio, che essa sia sufficiente alla risurrezione dei corpi, lo dimostra l’origine dei medesimi. Se infatti, secondo la prima costituzione, egli creò i corpi degli uomini che non esistevano e i loro principi, una volta dissolti - in qualunque maniera in cui ciò avvenga - li risusciterà con uguale facilità: allo stesso modo anche questo gli è possibile (35).
Atenagora ne dà la ragione poco oltre: Dio conosce, prima della creazione di ciascun uomo, tutti gli elementi con cui ci deve formare; allo stesso modo egli sa esattamente ciò che tali elementi sono divenuti quando il corpo si disfa (36). L'autore prende in considerazione tutte le possibilità di morte dell’uomo e tutti i modi in cui il corpo può dissolversi, cosa che denota una concezione molto fisicista della risurrezione del corpo umano (36). Inoltre, prova della risurrezione e la considerazione del fatto che Dio non fa nulla invano, cosa che avverrebbe se il corpo umano, che Dio ha creato, non risorgesse (37). La stessa composizione dell’uomo, formato di un corpo e di un’anima, mostra la coerenza della risurrezione; in caso contrario, l’uomo non sussisterebbe. Infine, la risurrezione è un’esigenza di giustizia. Siccome Dio ha dato i precetti all'uomo tutto intero, e non solo all'anima, e a questi che darà le ricompense o i castighi che derivano dall’averli osservati o meno (39). Poiché la risurrezione di Gesù non è un punto di riferimento per Atenagora, logicamente egli non parla della risurrezione come ricostituzione dell’integrità dell'essere umano e non considera la partecipazione dell’uomo alla vita divina del Signore.


3. La seduzione millenarista: Giustino, Ireneo, Tertulliano

«Si chiama millenarismo (o chiliasmo) l’insieme delle credenze relative a un regno sulla terra di Cristo e dei suoi eletti; questo regno — e questo reame si ritiene debbano durare mille anni (intesi sia letteralmente che simbolicamente); l’avvento millenario si situa tra una prima risurrezione (quella degli eletti già morti) e una seconda (quella dei malvagi in vista del giudizio e della condanna). Si pone dunque nel tempo della storia, prima della “nuova creazione” e della “nuova Gerusalemme”, che corrispondono a delle realtà metastoriche» (40). Il punto di partenza di questa dottrina è l’affermazione dell’Apocalisse di Giovanni (20, 1-6), in cui si parla di un regno dei giusti con Cristo sulla terra della durata di mille anni, dopo una prima risurrezione. Queste rappresentazioni si sono sviluppate nel giudeocristianesimo, in cui J. Danielou distingue due forme, la versione asiatica, che sottolinea l'aspetto del «paradiso terrestre» ritrovato, e quella ellenizzata, di natura più spirituale, che insiste sul «riposo dei giusti», sull’esempio del riposo del Creatore nel settimo giorno (41).

Questa dottrina incontrerà un reale successo nel cristianesimo primitivo eterodosso e ortodosso. Essa sembra emergere nella Didachè e parzialmente nella Lettera di Barnaba. Giustino ne raccoglie il tema nel Dialogo con Trifone, presentando il millennium come il compimento futuro delle profezie dell'Antico Testamento, corroborate dalla testimonianza dell’Apocalisse:

Io, e con me tutti i cristiani veramente ortodossi, sappiamo che ci sarà una risurrezione della carne e un periodo di mille anni in Gerusalemme ricostruita, abbellita e ampliata, cosi come affermano Ezechiele, Isaia e gli altri profeti. Cosi infatti Isaia si è espresso su questo millennio [segue Is 65, 17 25...]. D’altra parte anche da noi un uomo di nome Giovanni, uno degli apostoli del Cristo, in seguito a una rivelazione da lui avuta ha profetizzato che coloro che credono nel nostro Cristo avrebbero trascorso mille anni in Gerusalemme, dopo di che ci sarà la risurrezione generale e, in una parola, eterna, indistintamente per tutti, e quindi il giudizio (42).
Ireneo svilupperà ancora di più l'argomento nel V libro della sua opera Contro le eresie. I sei giorni della creazione di Genesi 1 diventano simbolo così della durata del mondo in sei millenni; infatti, secondo 2 Pt 3, 8 (cfr. Sal 90, 4), per Dio un giorno è come mille anni e viceversa. Alle sei epoche del mondo deve quindi seguire il settimo millennio con l’apparizione gloriosa del Signore. In quel tempo regneranno i giusti, i quali devono risorgere prima della parusia per ricevere l’eredità promessa da Dio ai loro padri. Se essi soffrirono in questo mondo, è in esso che devono ricevere giustizia raccogliendo i propri frutti (43). Una situazione di straordinaria fertilità della terra e di prosperità materiale accompagnerà questo regno dei giusti:
Verranno giorni in cui nasceranno vigne, con diecimila viti ciascuna. Ogni vite avra diecimila tralci e ogni tralcio diecimila pampini, e ogni pampino diecimila grappoli [...]. Così pure un chicco di frumento darà diecimila spighe e ogni spiga avrà diecimila chicchi [...]. Anche gli altri frutti, semi ed erbe saranno secondo queste proporzioni (44).
Anche per Tertulliano, prima della consumazione finale, i giusti devono regnare per mille anni in questo mondo. Il motivo è identico a quello presentato da Ireneo: è ben giusto che gioiscano laddove hanno sofferto, «poichè è giusto e degno di Dio che i suoi servi esultino anche là dove sono stati afflitti nel nome di Lui» (45). La teoria millenarista antica si chiude praticamente con Tertulliano. Criticata da Origene e da Agostino — che ne sarà dapprima avvinto —, non riapparirà che nel Medioevo.

La dottrina ufficiale della Chiesa non accetterà una simile rappresentazione della fine dei tempi, frutto di una lettura troppo letterale dell’Apocalisse. Nondimeno questo tema continuerà a esercitare un influsso durevole. Il millenarismo, sotto forme diverse, si rifarà vivo nel corso della storia in certi movimenti apocalittici, per esempio con Gioacchino da Fiore (+ 1202) (46), in cui la dottrina si ritrova con un tono diverso, e ancora nei secoli seguenti (47).

4. La salvezza della carne: Ireneo, Tertulliano, Cipriano

Indicazioni bibliografiche: A. ORBE, Vision del Padre e incorruptela segun san Ireneo, in «Gregorianum», 64 (1983), pp. 199 241; Ip., Gloria Dei vivens bono, in «Gregorianum», 73 (1992), pp. 205 268; In., Teologia de san Ireneo. Comentario al libro V del «Adversus baere ses», 3 voll., La Editorial Catolica, Madrid Toledo 1985 1987 1988.

Gesù risorto sarà al centro dell’escatologia di Ireneo. Di fronte alla gnosi, che riduce la salvezza dell’uomo a quella dell'anima, senza alcuna relazione con questo mondo materiale, Ireneo insisterà sulla salvezza della carne (salus carnis 48), coerentemente alla propria visione antropologica. Le anime dopo la morte vanno in un luogo invisibile dove attendono prima di ritornare per ricevere i loro corpi. L'anima è immortale, non per natura, ma perché Dio, nella sua volontà, vuole che resti nell’essere e che attenda così la risurrezione del corpo (49). Inoltre, come già pensava Giustino, queste anime, già prima del giudizio, godono sorti diverse. I giusti sono nel seno di Abramo e godranno della visione di Dio al momento della risurrezione (50), che avrà luogo al momento dell’apparizione gloriosa di Gesù, quando egli verrà per ricapitolare ogni cosa:
Il suo Verbo, l’Unigenito, che da sempre è vicino al genere umano, e si unì e si mescolò alla sua creatura secondo il beneplacito del Padre e si fece carne; questo stesso è Gesù Cristo Signore nostro, che patì per noi e risuscitò per noi e di nuovo verrà nella gloria del Padre per risuscitare ogni carne e per manifestare la salvezza e applicare la regola del  giudizio a tutti coloro che saranno venuti in suo potere [...] e ha ricapitolato in sé tutte le cose (51).
La relazione tra la risurrezione gloriosa di Gesù e la nostra è affermata da Ireneo in modo chiaro. Si utilizza il motivo paolino del primato di Gesù, a cui va dietro tutto il corpo di cui il Signore è il capo: «Egli ha prodotto in se stesso la primizia della risurrezione dell’uomo, affinché come risuscitò dai morti il capo, così anche il resto del corpo, cioè ogni uomo che sarà trovato nella vita»(52). La morte e la risurrezione di Gesù sono le sole ragioni e la causa della risurrezione degli uomini. Non c’è quindi nessun motivo di stupore davanti al fatto che, pur senza dimenticare la risurrezione per il giudizio, Ireneo si soffermi soprattutto sulla partecipazione dell’uomo alla vita divina, caratterizzata dall’incorruttibilità e dall’immortalità. Ireneo è stato uno dei primi a formulare la grande tesi dello «scambio» come fondamento della salvezza che Cristo ci dona: «Il Verbo di Dio Gesù Cristo Signore nostro, che per il suo sovrabbondante amore si è fatto ciò che siamo noi, per fare di noi ciò che è lui stesso» (53). Questa idea porta chiaramente in sé la proiezione escatologica. La perfezione della filiazione divina significa la partecipazione alla vita divina immortale:
Per questo appunto il Verbo si fece uomo e il Figlio di Dio si fece Figlio dell’uomo, affinché l’uomo, mescolandosi a Dio e ricevendo l'adozione filiale, diventi figlio di Dio. Infatti non potevamo ricevere altrimenti l’incorruttibilità e l’immortalità se non unendoci all’incorruttibilità e all’immortalità. Ora come avremmo potuto unirci all’incorruttibilità e all'immortalità, se prima l’incorruttibilità e l’immortalità non fosse divenuta ciò che siamo noi, affinché ciò che era corruttibile fosse assorbito dall’incorruttibilità e ciò che era mortale dall’immortalità, affinchè ricevessimo l’adozione filiale? (54).
La morte di Gesù è la causa della vittoria sulla corruzione. La condizione del corpo risorto sarà la conformità con Gesù, che nella sua risurrezione possiede la pienezza dello Spirito Santo: «La carne, ereditata dallo Spirito, dimentica sé per aver acquistato la qualità dello Spirito ed essere divenuta conforme al Verbo di Dio» (55). Solo allora l’uomo, così come ha portato l’immagine dell’uomo terrestre, porterà quella dell’uomo celeste (cfr. 1 Cor 15, 49). In questo momento si compirà in pienezza la condizione di immagine e di somiglianza con Dio che è propria dell’uomo. Lo Spirito, posseduto come primizia, ci fa dire «Abba, Padre» (cfr. Rm 8, 15; Gal 4, 6); con la comunicazione di ogni sua grazia ci renderà simili a lui e porterà a compimento la volontà del Padre: perché gli uomini siano a immagine e somiglianza di Dio (56). La risurrezione, che è la pienezza dell’opera di Dio attraverso la comunicazione dello Spirito, significa allo stesso tempo la pienezza della filiazione divina. Tutto è possibile per la potenza di Dio, non così alle forze della natura umana:
Queste parole (1 Cor 15, 53-55), infatti, saranno dette giustamente allorquando questa carne mortale e corruttibile, che ha a che fare con la morte, che appunto è dominata dalla morte, ritornerà alla vita e si rivestirà di incorruttibilità e di immortalità. Infatti, la morte sarà veramente vinta allorquando la carne, tenuta schiava da lei, uscirà dal suo potere. [...] Qual è dunque il corpo dell’abiezione, che il Signore trasfigurerà rendendolo conforme al corpo della sua gloria? Evidentemente il corpo che è carne, la quale è umiliata cadendo a terra. Ora la sua trasfigurazione, poiché essa che è mortale e corruttibile diviene immortale e incorruttibile, non deriva dalla sua propria sostanza, ma secondo l’azione del Signore (57).
L’uomo risorto è così l’erede della vita eterna che gli è donata mediante la visione di Dio. Per l’amore e la condiscendenza del Padre diverrà possibile nel Regno ciò che le forze dell’uomo non possono raggiungere.

L’uomo, infatti, non può vedere Dio da sé; ma Egli di sua volontà si farà vedere dagli uomini che vuole, quando vuole e come vuole. Dio è potente in tutte le cose: fu visto allora profeticamente mediante lo Spirito, fu visto poi adottivamente mediante il Figlio e lo sarà poi anche nel regno dei cieli paternamente, perché lo Spirito prepara in precedenza l’uomo per il Figlio di Dio, il Figlio lo conduce al Padre e il Padre gli dà l’incorruttibilità per la vita eterna che tocca a ciascuno per il fatto di vedere Dio (58).

Non si tratta quindi per l’uomo di diventare incorruttibile per vedere Dio. Il pensiero di Ireneo va piuttosto nel senso inverso, in quanto è la visione di Dio a rendere l’uomo vivo: «Gli uomini dunque vedranno Dio per vivere, divenendo immortali grazie a questa visione»(59). Questa visione non sopravviene «da fuori», ma l’uomo vedrà Dio nell’altra vita poiché sarà in Dio. Chi contempla Dio è illuminato da lui, vivificato, e con ciò reso immortale, eterno e capace di partecipare al suo splendore: «Come coloro che vedono la luce sono nella luce e partecipano del suo splendore, così coloro che vedono Dio sono in Dio, partecipando del suo splendore. Perché lo splendore di Dio vivifica! Dunque coloro che vedono Dio parteciperanno della vita» (60)
 
È in questo contesto che si trova e forse va compresa la famosa frase di Ireneo: «La gloria di Dio è l’uomo vivente e la vita dell’uomo è la visione di Dio» (61). Dio fa consistere la sua gloria nel rendere l’uomo capace della sua propria vita. Non si tratta per l’uomo vivente di glorificare Dio, ma per Dio di volere donare all'uomo la sua stessa gloria. Per Ireneo «Dio cerca in tutto di glorificare l’uomo [...; e vuole] che l’uomo sia illuminato dalla stessa luminosità di Dio» (62). L'uomo vivente è colui che è partecipe della vita dello Spirito, in comunione di vita con Dio. È l’uomo nell'ultima tappa del dono salvifico che partecipa alla vita di Cristo risorto, in quanto è completamente posseduto dallo Spirito: «Giustamente questi saranno chiamati puri e spirituali e viventi per Dio, perché hanno lo Spirito del Padre». Lo Spirito che dona la vita all'uomo viene ricevuto in eredità, affinché la carne dell’uomo, senza smettere di essere tale, assuma la qualità dello Spirito paterno e si conformi al Verbo di Dio (63)
La visione del Padre è possibile solo perché l’uomo partecipa alla gloria di Cristo, immagine e somiglianza divina del Verbo glorificato. Perciò la visione del Padre, più che «per la mediazione» di Cristo, è donata «nella comunione» con la carne glorificata di Cristo (64). La vita divina dell’uomo risorto consiste così nella partecipazione alla vita della Trinità. Questa vita si riferisce all’uomo risorto tutto intero e, in modo del tutto speciale, alla sua corporeità. È la carne che è deificata, l’uomo vede Dio nella sua carne. La visione del Padre viene realizzata dopo la risurrezione dei morti. La potenza divina si manifesta precisamente nella salvezza della carne, che, a prima vista, è inferiore e più fragile. Il messaggio della salvezza dell’anima, ossia dell’aspetto spirituale dell’uomo, non è sufficiente per dare ragione della novità cristiana. 
 
Questa visione divina è concessa all'uomo gratuitamente per cui essa è puro dono di Dio. Ma questo dono non è qualcosa di statico. Nella relazione a Dio e nella partecipazione alla sua vita, l’uomo potrà sempre progredire. Dio ha sempre qualcosa di nuovo da insegnare e, correlativamente, l’uomo avrà sempre qualcosa da imparare (65). Gli eletti «progrediranno» sempre nel regno che è stato loro dato in eredità: «riceveranno il regno per sempre e progrediranno in esso» (66). Evidentemente non si tratta di una visione di Dio che potrebbe essere essa stessa superata da un altro Dio superiore o da un cambiamento qualitativo. Semplicemente in virtù dell’azione di Dio sull’uomo, quest’ultimo approfondirà sempre di più la conoscenza del suo creatore. Dio è sempre lo stesso e, per questo motivo, l’uomo che vive in lui progredirà sempre verso di lui. Dio non smette dunque di elargire dei benefici e di arricchire l’uomo, a cui rimane il compito di riceverli e di farsene arricchire. L'uomo ha sempre qualcosa in cui progredire (67). Dio conferisce all'uomo l’incorruttibilità in una crescita perpetua.
 
Il messaggio escatologico cristiano è innanzitutto diretto verso la pienezza della sorte dei giusti. In essi si realizza l’opera di Dio. Circa la sorte dei condannati riportiamo soltanto questo profondo passo di Ireneo:
Ma su quanti si separano da lui per loro libera decisione fa cadere la separazione scelta da loro. Ora la separazione da Dio è la morte e la separazione dalla luce è la tenebra e la separazione da Dio è la perdita di tutti i beni che provengono da lui. Dunque coloro che hanno perso le cose dette prima, a causa della loro apostasia, essendo rimasti privi di tutti i beni, sono immersi in ogni punizione, non perché Dio prenda l’iniziativa di punirli, ma perché la punizione li segue in quanto rimangono privi di tutti i beni. (69)
Il destino del condannato è così il contrario di quello del giusto: morte, tenebre, separazione; non per iniziativa di Dio, ma quale risultato di una libera scelta che Dio rispetta.

Anche per Tertulliano, l’escatologia si riferisce di preferenza al corpo umano. Nessuna meraviglia se, sulla scia di Ireneo, il suo interesse per il corpo umano, creato a immagine e somiglianza di Dio, si riflette anche nell’escatologia.

Il suo sguardo è fisso alla risurrezione che significherà la «ricomposizione» del composto umano che la morte ha distrutto. La morte è la separazione dell’anima e del corpo, mentre la vita è l’unione dei due; se nella morte essi sono separati, devono poi ricongiungersi nella risurrezione. Dunque, si ha così una riconduzione dell'anima alla carne (70). Al momento della risurrezione si attua l'unione definitiva dei due componenti dell’essere umano, lo «stadio di comunione» in cui i due diventano una sola cosa per sempre (71)
 
Si nota in Tertulliano una certa evoluzione per quanto riguarda la dottrina dell'anima. Nelle sue prime opere ha difeso la spiritualità delle anime che, di conseguenza, non potevano né sentire né soffrire una volta separatesi dal corpo. In seguito Tertulliano cambia parere (72): siccome l’incorporeo non può soffrire, bisogna quindi dedurre che le anime sono corporee, in quanto esse lo possono. La parabola evangelica del ricco cattivo e di Lazzaro apporta una conferma biblica alle sue idee. La gioia o il dolore fanno riferimento, dunque, alle anime corporee prima della risurrezione finale. Allo stesso modo di Giustino e Ireneo, anche Tertulliano pensa che i giusti dopo la morte non vanno direttamente alla presenza del Signore. 
 
Il destino degli uomini è già differenziato al momento della morte: il seno di Abramo si distingue chiaramente dall’inferno, ma non è ancora il cielo (73). La consolazione del seno di Abramo può essere comunque una sorta di anticipazione della gloria (74). Ma alla gloria si giunge solo al momento della consumazione finale. Diversamente dagli autori a cui si farà riferimento in seguito, Tertulliano ammette un’eccezione per i martiri, i quali sono immediatamente ammessi alla presenza del Signore (75). La chiave del paradiso si trova nel sangue di Cristo (76) e in esso possono entrare immediatamente quanti hanno condiviso la morte del Signore.

Il momento finale della salvezza rappresenta e definisce il contenuto della speranza cristiana: «Fiducia dei cristiani la risurrezione dei morti (Fiducia christianorum resurrectio mortuorum). Col credervi noi siamo cristiani. A credervi, ci costringe la verità; la verità è Dio che la svela» (77). Anche gli eretici accettano la salvezza dell'anima, mentre negano precisamente la risurrezione della carne (78). Ma la fede cristiana insiste sulla salvezza dell’uomo tutto intero. Coloro che accettano soltanto l’immortalità dell’anima dividono l’uomo, credono soltanto a una «risurrezione a metà » e in una vita futura che non riguarda l’uomo nella sua totalità (79). La risurrezione futura sarà con lo stesso corpo che abbiamo, non un altro, (non sarà alius), anche se deve essere una cosa distinta (aliud) (80). La carne risorgerà, tutta intera, la stessa, nella sua integrità. Tertulliano insiste fortemente sull’identità della sostanza del corpo attuale con il corpo risorto, anche se fa pure notare che essa avrà le caratteristiche degli esseri spirituali (81). L'argomento della giustizia, che già conosciamo, è utilizzato anche da Tertulliano per spiegare il motivo della risurrezione del corpo. L’uomo tutto intero deve ricevere la ricompensa per le sue opere (82).

Se la carne di Gesù è l’asse dell’economia della salvezza, se la carne è la cerniera della salvezza (caro salutis est cardo)(83), non vi è nulla di singolare nel fatto che Tertulliano si preoccupi anzitutto della salvezza della carne umana. Si è già visto (84) che per questo autore l’uomo è prima di tutto il corpo. Nella risurrezione viene donato il pieno incontro con Cristo (85). Il corpo risorto di Cristo s’identifica con la terra promessa dai profeti (86); la risurrezione è data, in un certo senso, «in Cristo».

Cipriano di Cartagine (+ 258) lega la nostra risurrezione a quella di Cristo: «Come Cristo è la nostra risurrezione, perché in lui noi risorgiamo, allo stesso modo si può ritenere che egli sia il regno di Dio, perché in lui noi regneremo»(87). Cipriano evidenzia anche l’importanza della pienezza del corpo di Cristo e così la dimensione sociale della salvezza. Un gran numero di santi che sono già in paradiso ci attendono, ormai sicuri della loro salvezza, ma altresì preoccupati della nostra (88). In compenso, a differenza degli ultimi autori a cui si è fatto riferimento, Cipriano crede che non solo i martiri gioiscono già della presenza di Dio nel Regno a partire dal momento della morte, ma anche coloro che hanno vissuto con fermezza di fede e nel timore di Dio. Quanti seguono Cristo sono da lui onorati in mezzo ai martiri. (89) Si deve forse a Cipriano il primo riferimento al fuoco purificatore dopo la morte (90). Si trova così già in modo esplicito l’idea di una purificazione dopo la morte in termini non ancora troppo precisi; la si ritroverà di nuovo negli Alessandrini e in Agostino.

5. La vita eterna dell’anima: Clemente Alessandrino e Origene

Indicazioni bibliografiche: K. SCHMÖLE, Lauterung nach dem Tode und pneumatische Auf erstehung nach Klemens van Alexandrien, Aschendorff, Miinster 1974; H. CROUZEL, La doctrine origénienne du corps resuscité, in BLE 81 (1980), pp. 175-200 e 241-266; ID., Les /ins dernières selon Origène, Variorum. Grower Publishing Group, Aldershot 1990; JR SACHS, Apocatastis in Patristic Theology, in «Theological Studies», 54 (1993), pp. 617-640.

Se gli autori fin qui considerati hanno insistito soprattutto sulla risurrezione della carne, la scuola alessandrina si preoccuperà ben di più delle anime. Si sa già che, per questa corrente, l’anima è la parte o l’aspetto migliore dell’uomo, pur restando il fatto che il corpo non è cattivo; d’altronde non potrebbe essere cattivo, in quanto è stato creato da Dio.

Secondo Clemente Alessandrino, le anime sono immortali e incorruttibili, ma questa condizione viene loro dal dono di Dio, come frutto della presenza in loro dello Spirito (91). La morte è il passaggio verso uno stadio di vita superiore dove si può vedere Dio, cosa che costituisce il fine ultimo del cristiano. Questa visione risulta essere in ultima istanza un’assimilazione a Dio, oltre la santificazione e l’amicizia con lui (92). Clemente non dimentica affatto la risurrezione nell’ultimo giorno con cui sopraggiungerà l'illuminazione definitiva dell’uomo. Il fatto stesso che il Signore abbia assunto la carne ha per fine la salvezza della carne (93). La vita eterna è la conoscenza di Dio, che lo Spirito rende possibile (94); è la rugiada dello Spirito, che dona la vita nuova al «risorto» (95).

Clemente pensa a una possibilità di purificazione delle anime dopo la morte. Il cammino dell’anima verso la conoscenza di Dio, che va al di là di questo mondo, è una purificazione. È solo quando questo cammino è stato percorso che si può parlare di perfezione dell’uomo. In Clemente, si trova così un’apertura verso la dottrina che porterà alla rappresentazione, sviluppata ulteriormente, di un luogo di purificazione chiamato purgatorio. D'altra parte, questa dottrina della purificazione in Clemente pone la questione della salvezza possibile di tutti gli uomini. Il castigo dopo la morte sembra avere questa finalità purificante, più che quella di una sanzione definitiva (96). Per Clemente si pone già il problema della restaurazione universale o apocatastasi, che si ritroverà in Origene.

Origene è il rappresentante più qualificato della scuola alessandrina all’epoca prenicena. Condivide la tesi comune ai suoi tempi dell’immortalità dell'anima. La morte fisica, a differenza della morte dovuta al peccato, riguarda soltanto il corpo, mentre l’anima sopravvive. Nonostante tutto vi è una relazione indiretta tra il peccato e la morte fisica, in quanto la condizione carnale è frutto del peccato delle anime. Così la morte fisica è il salario del peccato. L’immortalità dell’anima si fonda su diverse ragioni: il desiderio che l’uomo ha di conoscere Dio, poiché nel caso contrario si sentirebbe frustrato. L’anima partecipa alla luce eterna, immortale, che fa sì che l'intelligenza umana, creata a immagine di Dio, non possa morire; affermare il contrario sarebbe offendere Dio stesso (98) All’immortalità, che appartiene all’essenza stessa dell'anima, si aggiunge l'immortalità della grazia, che elimina la morte dovuta al peccato. È l’immortalità che dà la vita vera, a cui il cristiano partecipa già in questa vita attraverso il battesimo; pur restando sottomessi alla tentazione, vi è la possibilità di non peccare. Questa seconda immortalità è dono di Cristo, che è per i giusti risurrezione e beatitudine eterna. Se infatti la prima immortalità riguarda tutti gli uomini, questa seconda è riservata ai soli giusti (99).

Non è facile determinare in che senso, dopo la morte, le anime si trovano «separate» dal corpo nell’attesa del momento della risurrezione. Siccome alcuni passi biblici presentano delle persone defunte come dotate di un corpo (ad esempio Lazzaro e il ricco), Origene attribuisce alle anime dei morti una certa corporeità. Altrove parla di anime senza corpo. Il problema non è poi così centrale per lui. Ma, a differenza di Ireneo e di Tertulliano, Origene considera che i giusti vanno già in paradiso prima della risurrezione. Gesù, nella sua Ascensione, porta con sé i santi dell'Antico Testamento. Quanto a coloro che muoiono in seguito, mentre ancora continua la vita di questo mondo, la loro anima riceverà una ricompensa secondo i loro meriti: o l’eredità della vita eterna e la beatitudine, o il fuoco eterno e gli altri supplizi (100). L’interpretazione che talvolta Origene dà di questo fuoco nella sua opera è nota: è la traccia che i peccati lasciano in noi e il rimorso che il peccatore sperimenta a loro riguardo (101). Il problema dell’eternità di queste pene dell’inferno, secondo Origene, è all’origine di molte discussioni. Si tratta di un castigo propriamente detto o di pene medicinali? Ci si trova di fronte ad affermazioni a prima vista contraddittorie (102). Se la vita eterna dei giusti non dà adito ad alcuna difficoltà, non è così per quanto riguarda le pene dei condannati.

Il problema della «restituzione» (apocatastasi)

Eccoci dunque alla questione, oggetto di tante discussioni per secoli, dell’insegnamento di Origene sull’apocatastasi o restaurazione universale del mondo e degli uomini. Fondamento ne è il testo paolino di 1 Cor 15, 20-28, in cui si parla della consegna da parte di Cristo del Regno al Padre, affinché Dio sia tutto in tutti. Si tratta di un'armonia e di un'unità finale nella creazione, che indica come tutte le anime saranno alla fine unite a Dio come lo erano in principio (103).

Non sembra si possa giungere a una chiara conclusione circa il pensiero di Origene su questo argomento. Egli fa notare talora come l’ultimo nemico, la morte (cfr. 1 Cor 15, 26), sarà distrutto, non nel senso che cesserà di esistere, ma in quanto verrà trasformata la sua volontà nemica di Dio (104). Siccome in diverse occasioni Origene identifica la morte e il diavolo, si può pensare che a quest’ultimo si riferisca il cambiamento di volontà, poiché non si vede come potrebbe cambiare la volontà della morte. In altri passi sembra tendere verso la direzione opposta. Origene si domanda se è possibile che i demoni si convertano, poiché la cattiveria, liberamente scelta a un certo momento, potrebbe essere divenuta parte della loro stessa natura (105). Altrove nega di aver insegnato la salvezza dei demoni (106). Riguardo alla salvezza degli uomini i testi non sono univoci. Che Dio sia tutto in tutti sembra indicare una universalità della salvezza. Ma le parole di Origene possono essere l’espressione di una speranza e di un desiderio, più che di una certezza. Queste affermazioni comunque creeranno più tardi delle difficoltà.

In Origene si trova pure l’idea del battesimo di fuoco, di una purificazione escatologica correlata con il nostro purgatorio, a partire dall’interpretazione di 1 Cor 3, 11-15: Dio stesso è il fuoco che purifica. Attraverso questa prova si conserverà cio che ciascuno ha fatto con materiali incorruttibili, oro o argento, e invece brucerà cio che è stato realizzato con materiali combustibili, paglia o legno (107). Il giusto, salvato e purificato, contempla le opere di Dio e Dio stesso, e si unisce a lui nell'amore (108). Nella consumazione finale il giusto vedrà il Padre come lo vede il Figlio, e non soltanto riconoscendone la realtà nell'immagine.

Verso la pienezza del corpo di Cristo

Origene dà una grande importanza alla pienezza del corpo di Cristo, che si realizzerà soltanto quando tutti i salvati saranno in paradiso. Fino a quel momento i giusti, che già godono di Dio, partecipano in un certo modo ai dolori e alle fatiche di quanti sono ancora sulla terra. Essi sperano che costoro arrivino in paradiso in modo che la gioia sia completa.

Gesù stesso non sarà totalmente completo fino a quando il suo corpo non sarà riunito nel regno:

Il nostro salvatore non beve vino fino «a che lo beva con i santi nuovo nel regno di Dio. Il mio Salvatore piange anche ora i miei peccati. Il mio Salvatore non può rallegrarsi fino a che io rimango nella mia iniquità. [...] Come dunque potrebbe colui che è avvocato per i miei peccati bere il vino della letizia, lui che io contristo peccando? [...] Questo vuol dire che nell’accedere all'altare non beve il vino della letizia, perché ancora patisce le amarezze dei nostri peccati. Non vuole dunque bere da solo il vino nel regno di Dio. [...] Siamo dunque noi che, con la negligenza della nostra vita, ritardiamo la sua letizia. [...] Ma allora sarà letizia piena, quando non mancherà alcun membro al tuo corpo. Giacché anche tu attenderai altri, come tu pure sei stato atteso (109).
Potrebbe chiarire molte cose seguire lo sviluppo di questo tema nella patristica. Sono molti coloro che, su questo punto, hanno seguito le tracce di Origene: Ilario, Gregorio di Nissa, Ambrogio di Milano (110). Anche se non tutti hanno sottolineato come Origene la mancanza di gioia del Signore, si sono comunque tutti riferiti alla pienezza del corpo che si realizzerà solo con la presenza di tutti in paradiso. Gesù sarà allora interamente sottomesso al Padre (cfr. 1 Cor 15, 28). Ciò non vuol dire che egli non sia personalmente già sottomesso al Padre; ma gli manca ancora la piena sottomissione del suo corpo. Si ha così da una parte, l'affermazione della presenza in paradiso dei salvati dopo la morte, e, dall’altra, l’espressione della solidarietà di tutti nel corpo di Cristo e della «necessità» che lo stesso Gesù ha della pienezza del suo corpo perché sia perfetta la sua gioia come Capo del corpo.

La natura del corpo risorto

Il pensiero di Origene circa la risurrezione dei corpi ha creato delle difficoltà per lunghissimo tempo. Certamente la risurrezione è per Origene un punto centrale della dottrina cristiana (111). Si tratta della risurrezione dei nostri corpi, anche se in uno stato e una condizione diversa da quella in cui viviamo attualmente (112). Al fine di indicare contemporaneamente questa identità e differenza, Origene si ispira all'insegnamento paolino di 1 Cor 15, 35 50. Il corpo risorto è un corpo spirituale, le cui caratteristiche sono distinte dal corpo attuale. Origene si oppone alle teorie «materialiste» del corpo risorto, in cui si sottolinea in modo grossolano l’identità con il corpo terrestre e che non evidenziano la differenza che esiste tra l'uno e l’altro. Per Origene al contrario, secondo le parole di Gesù (cfr. Mt 22, 23 33), gli uomini in paradiso saranno come gli angeli di Dio, e questo non significa affatto mancanza di corporeità, ma possesso di un corpo trasfigurato, etereo e luminoso. L'anima immortale «riveste» il corpo e in tal modo lo rende partecipe della condizione di immortalità. Il corpo allora si trasforma in corpo spirituale, sottile, luminoso, così come si addice alla natura della creatura razionale (113).

Origene cerca di chiarire la relazione che esiste tra il corpo attuale e il corpo risorto attraverso la nozione di «ragioni seminali» (logoi spermatikoi). Con questi concetti si esprime l’identità del corpo con se stesso, in un flusso continuo degli elementi materiali concreti (114). La sostanza materiale, secondo Origene, non possiede da se stessa nessuna qualità concreta. Per questo si trova in noi un elemento stabile, che non muta, e che garantisce la nostra identità. Ma questo elemento stabile esiste insieme a qualità mutevoli, poiché esso non è necessariamente unito ad alcuno. È cio che esprime Paolo quando usa il paragone tra il seme e la pianta in 1 Cor 15, 35-41. Nel seme si trova una forza che ne farà una pianta. In modo analogo, nel nostro corpo terrestre vi è una forza che permetterà, al momento in cui esso scomparirà, la germinazione del corpo glorioso. La qualità di mortalità viene abbandonata per accogliere quella dell’incorruttibilità e dell'immortalità. Vi è sin da ora in noi una ragione seminale, che si conserverà anche se la nostra carne muore. Così Origene puo spiegare che ogni carne, anche se muore ed è simile a paglia, vedrà la salvezza di Dio.

Anche la nozione di forma (o di eidos) aiuta il nostro autore a esprimere l’identità di cui ci si sta occupando. Questa forma esprime l’unità del corpo, che è compresa nel flusso costante degli elementi che lo costituiscono. Dall’infanzia alla vecchiaia, nonostante i cambiamenti continui, l'eidos e sempre lo stesso. Alcuni segni del corpo manifestano questa identità attraverso tutti i mutamenti; essa si conserverà quindi anche nel corpo risorto. Il principio di individuazione del corpo è ciò che risorgerà. In tal modo sarà garantita la nostra identità corporea sostanziale tra questo mondo e il mondo futuro, a dispetto del cambiamento degli elementi materiali.


6. Problemi attorno a I Cor 15, 24-28 nel IV secolo

Indicazioni bibliografiche: L.F. LADARIA, La cristologia de Hilario de Poitiers, PUG, Roma 1989; G. PELLAND, La «subiectio» du Christ chez saint Hilaire. in «Gregorianum», 64 (1983), pp. 423 452; Ib., La Theologie et l'exegèse de Marcel d'Ancyre sur 1 Cor 15, 24 28. Un schéme bellénistique en théologie trinitatre, in «Gregorianum», 71 (1990), pp. 679 695; M. Durst, Die Eschatologie des Hilarius von Poitiers, Borengàsser, Bonn 1987; K. SEIBT, Marcell von Ancyra, TRE, 22 (1972), pp. 83 89.

Marcello di Ancira merita una breve menzione, a motivo delle reazioni provocate dalle sue dottrine escatologiche. Deciso avversario di Ario, difensore fino all’eccesso della consustanzialità del Padre e del Figlio, Marcello arriva ad affermare che la Trinità si è sviluppata nell'economia della salvezza, ma che non risponde in ultima analisi all'essere divino. Quando dunque sarà completata la storia della salvezza, il Cristo rimetterà il Regno al Padre, e il Figlio e lo Spirito saranno riassorbiti nell’unità del Padre; Dio ritornerà alla sua primitiva semplicità e sara «tutto in tutti». Questa è l’interpretazione che Marcello dà di 1 Cor 15, 24-28. Se il simbolo di Costantinopoli ha introdotto la frase «e il suo regno non avrà fine», riferita al Figlio, è forse a causa della reazione di molti teologi del IV secolo a queste dottrine di Marcello. L'insegnamento sobrio sulla parusia e il giudizio è così accompagnato dall’affermazione del Regno eterno del Figlio, che presuppone la sua esistenza personale.

I Cappadoci raccoglieranno molte idee di Origene. È chiaro per loro che dopo la morte i giusti ricevono la ricompensa per le loro buone opere, anche se questi Padri non dimenticano la risurrezione finale, poiché è l’uomo tutto intero che deve essere salvato. Il cielo poi è visto come l’unione a Dio, la piena divinizzazione, il possesso dei beni a cui l’uomo tende per natura. Gregorio di Nissa è incline alla restituzione finale (apocatastasi). La separazione tra buoni e cattivi si spiega come separazione del bene e del male. Il disegno di Dio deve realizzarsi in tutti. Non sembra infatti che la capacità umana di vedere Dio possa rimanere frustrata eternamente. Anche per Gregorio, la pienezza della sottomissione del Figlio al Padre implica la pienezza del corpo di Cristo (115).

In Occidente, pochi anni prima, Ilario di Poitiers sviluppa un’escatologia che dà la preferenza alla risurrezione finale come partecipazione dell’uomo alla vita di Gesù risorto. In primo luogo la risurrezione di Gesù è il principio che fa scattare tutta la consumazione escatologica. Commentando Ef 1, 19-22 in cui la sottomissione di tutte le cose a Cristo viene presentata come già realizzata, in riferimento a 1 Cor 15, 24-28 in cui si parla invece di una sottomissione ancora da venire, egli risolve il problema affermando che l’Apostolo nel primo testo parla delle cose future come già compiute. La ragione è importante: ciò che deve essere compiuto alla fine dei tempi ha già la sua consistenza in Gesù Cristo, in cui abita ogni pienezza. Per questo ciò che avverrà nel futuro è lo sviluppo dell'economia della salvezza, ma non, in senso stretto, una novità (116). La piena sottomissione del Cristo e la consegna del Regno al Padre significano la consegna dell’umanità glorificata, vale a dire di uomini che, vivendo in conformità a lui nella gloria del proprio corpo, vedranno Dio (117). «Così l’uomo diventa immagine perfetta di Dio. Infatti reso conforme alla gloria del corpo di Dio, diventa l’immagine del creatore secondo il modello fissato per il primo uomo [...] vivrà per sempre come immagine del suo creatore» (118). E tutto questo non accade a uno preso separatamente dagli altri, ma alla pienezza del corpo del Signore, in cui ciascuno trova il suo definitivo riposo. Dopo aver abitato nella Chiesa, noi ci riposeremo nel corpo del Signore. Il giusto entrerà nel corpo di Cristo che è la Chiesa, la quale regnerà con Cristo, conformata a lui (119).

7. Dalla fine della storia alla città di Dio in Agostino

Indicazioni bibliografiche:  Le GOFF, La nascita del Purgatorio, Einaudi, Torino 1982; P. Piret, La Destinée de l'homme. La Cité de Dieu. Un commentaire du «De civitate Dei» d’ Augustin, Ed. de l'IET, Bruxelles 1991.

L’escatologia di Agostino offre numerose punti di interesse e il suo influsso in Occidente è stato incalcolabile. L'esperienza personale del vescovo di Ippona ha avuto una parte importante nello sviluppo delle sue idee escatologiche. Il sacco di Roma, da parte dei Goti nel 410, lo impressionò enormemente. Gli sembrò in quel momento che il mondo si trovasse in un momento di senilità e di decadenza, e che la salvezza non potesse aspettarsi da questa storia, di cui si credeva che l’impero romano costituisse il vertice. La città di Dio e la città terrestre si oppongono: «due città, due amori» (120); vale a dire l’amore di Dio e l’amore del mondo (121). Ma la manifestazione finale del trionfo di Cristo è assicurata. La Chiesa rappresenta già in questo mondo il regno dei santi che regneranno insieme a Cristo per mille anni. Dopo essere stato propenso, nella sua giovinezza, al «millenarismo», Agostino si è deciso per un’interpretazione ecclesiologica della «prima risurrezione»; questa è già avvenuta mediante il battesimo, ma restano davanti a noi la risurrezione definitiva e il giudizio finale (122). Questi avvenimenti si devono distinguere dall’azione della grazia di Dio, che dà salvezza, nella storia. In essa infatti i cristiani sono come dei pellegrini, anche se hanno già la ferma speranza dei beni futuri. Al momento finale invece avranno luogo la venuta gloriosa di Cristo e la risurrezione dei morti. È questo anche il momento del giudizio, in cui ciascuno riceve secondo le sue opere.

In questo contesto della fine della storia e della realizzazione della città di Dio, Agostino si sofferma a contemplare il diverso destino di ogni uomo. Questo destino comincia dopo la morte di ciascuno e i santi gioiscono già della presenza beatificante di Dio. Ma essi non riceveranno la pienezza della salvezza se non alla risurrezione dei morti; in quel momento più grandi saranno le gioie dei salvati e le sofferenze dei condannati (123). Non pare che Agostino abbia parlato direttamente della visione di Dio durante lo «stadio intermedio» (124).

Il fuoco purificatore (ignis purgatorius)

La tradizione della preghiera per i defunti, unitamente alla differenziazione che si instaura tra il destino dei buoni e quello dei cattivi, sia durante la storia sia alla fine di questa, permette ad Agostino di sviluppare l’idea della purificazione dopo la morte per alcuni, non certo per tutti i peccatori. Esiste una possibilità di purificazione e di perdono nell’aldilà per chi non è stato perdonato in questa vita (125). Agostino accoglie l’idea già evocata delle pene e del fuoco purificatore (ignis purgatorius o ignis purgationis (126). D'altronde, la preghiera dei vivi accompagna e aiuta i defunti in questa purificazione (127). In tal modo i morti non sono separati dalla vita della Chiesa.


La vita risorta, termine della storia

Gli avvenimenti della risurrezione finale e il giudizio sono ciò che attira maggiormente l’attenzione di Agostino. Con essi infatti si attua il passaggio dal tempo all’eternità, dal momento della crescita a quello definitivo. Tutta la sua teologia della storia si orienta verso questa consumazione finale. Inoltre la fede nella risurrezione è per Agostino il carattere distintivo della fede cristiana (128). Le promesse che Dio ha fatto agli uomini sono riservate al momento della risurrezione. Tese verso questo momento, le anime attendono l’unione con i loro rispettivi corpi (129). Con la risurrezione gli uomini raggiungono la piena conformazione a Cristo risorto (130). Dio creatore sarà così il restauratore dei nostri corpi. Agostino insiste sull’identità materiale dei corpi attuali e dei corpi risorti, opponendosi così a quanti, platonici e manichei, disprezzano il corpo umano. D'altra parte, il corpo risorto è spirituale, come dice Paolo, e non sarà un peso, poiché non sarà più corruttibile e sarà perfettamente integrato all'anima (131). La risurrezione sarà la realizzazione della nostra piena identità: «noi saremo noi stessi» (132) .Il mondo nuovo accompagnerà così gli uomini rinnovati (133).

La vita eterna appartiene in pienezza al risorto. La formula che conclude La città di Dio è molto bella: «Lì riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo. Ecco quel che si avrà senza fine alla fine. Infatti quale altro sarà il nostro fine, che giungere al regno che non avrà fine?» (134). La lode sarà l’attività principale dell’uomo nella vita eterna. Ma per renderci adatti a questa vita bisogna esercitarsi fin da ora (135). Altrove Agostino parla anche della visione di Dio che è il fondamento della comunione con lui, come pure della «divinizzazione» che conduce alla gioia che non ha fine (136). Il cielo consiste nel gioire di Dio e a causa di Dio (137). La comunione con tutti gli eletti è anche una dimensione importante della vita eterna. Tra tutti regnerà infatti l’unione della carità, che renderà impossibile l’invidia anche se la gloria non sarà uguale per tutti. Non vi sarà inimicizia né sarà possibile alcuna divisione nella gloria del cielo, ma vi sarà una perfetta armonia tra tutti coloro che gioiscono di Dio (138). La pienezza della gloria sarà la pienezza del corpo di Cristo: «e sarà un solo Cristo, il quale ama se stesso» (139). La comunione con Dio significa la comunione di tutti in Gesù.

La massa di perdizione e il piccolo numero dei salvati

Agostino non è tuttavia ottimista quanto alla salvezza dell’umanità. La sua visione del peccato, che abbraccia tutta l’umanità, gli fa considerare l’insieme degli uomini come una massa di perdizione o massa damnata. In seno a quanti sono salvati la misericordia di Dio si trova così a risplendere in modo piu chiaro. Agostino ha incontrato delle difficoltà a conciliare la condizione gratuita della salvezza con il suo darsi a tutti gli uomini. La condanna raggiunge evidentemente quanti hanno peccato personalmente, ma anche i bambini morti senza il battesimo, che non sono stati incorporati a Cristo. Ma per loro le pene saranno particolarmente lievi (140). Il tormento del l'inferno sarà eterno. Agostino si allontana dalle ipotesi origeniane circa la cessazione dei tormenti degli uomini condannati o del diavolo e dei suoi angeli dopo un lungo castigo. Secondo Agostino la Scrittura mostra con chiarezza che tanto gli angeli quanto gli uomini che hanno fatto il male e non si sono convertiti sono sottomessi al tormento eterno (141). La misericordia di Dio, nonostante tutto, non li castiga per quanto lo meriterebbero (142), e talora concede loro qualche alleggerimento o intervallo nelle loro pene (143). D'altra parte Agostino è cosciente che è il peccatore che si condanna da se stesso. Dio lascia il peccatore nel male in cui e caduto allontanandosi da lui e, rigorosamente parlando, non gli infligge alcuna pena (144). Il vescovo di Ippona raccoglie così un’idea gia incontrata in Ireneo (145).

8. Da Agostino a Giuliano di Toledo: il primo trattato di escatologia

Indicazioni bibliografiche: GIULIANO DI TOLEDO, Prognosticon futuri saeculi, a cura di J. N. Hillgarth (CCSL 115, 7 126), 1976; C. Pozo, La doctrina escatolégica del «Prognosticon futuri saeculi» de San Julian de Toledo, in «Estudios eclesiasticos», 45 (1970), pp. 1/3 201.


L’influsso di Agostino è stato decisivo nello sviluppo delle dottrine escatologiche. A partire da lui si è «cristallizzato», per così dire, uno schema escatologico in due fasi, che si imporrà nelle epoche seguenti. Così Gregorio Magno pensa che le anime dei defunti vedono Dio immediatamente dopo la morte, ma che la loro beatitudine sarà ancora più grande dopo la risurrezione generale. I condannati vanno direttamente all’inferno (146). Anche la purificazione dei peccati veniali prima del giudizio finale, in riferimento a 1 Cor 3, 12-15, è stata insegnata da Gregorio, anche se con qualche esitazione circa il «luogo» di questa purificazione (147). La condizione materiale del corpo risorto è un’altra preoccupazione di Gregorio: «In quella gloria della risurrezione il nostro corpo sarà, sì, sottile per effetto della sua potenza spirituale, ma sarà sottile per la verità della sua natura» (148). Quest’idea è ripresa testualmente da Beda (149). Quale esempio particolarmente significativo si può ricordare Giuliano di Toledo, vescovo di questa città nel 680 e autore di quello che si potrebbe chiamare il primo trattato di escatologia, il Pronosticon futuri saeculi. In quest’autore si trova organicamente riassunto tutto l’insegnamento escatologico del momento. L’opera si struttura in tre libri: il primo sull’origine della morte per l’uomo, il secondo sulle anime dei defunti prima della risurrezione finale dei corpi, il terzo sulla stessa risurrezione. I due ultimi libri sono quelli che si riferiscono più direttamente al nostro argomento. Le anime ricevono già subito dopo la morte il loro destino differenziato, paradiso o inferno. I salvati vanno là dove si trova il Signore risorto, là dove è il Signore nel suo corpo (150). Quanti lasciano questo mondo senza una santità perfetta, ma che allo stesso tempo non meritano di essere condannati con il diavolo e i suoi angeli, non possono essere ricevuti immediatamente in paradiso, ma espiano le loro colpe con delle pene medicinali. Essi contano sull’aiuto della Chiesa «che prega per loro efficacemente». Sembra che, seguendo la tendenza agostiniana, anche per Giuliano questo stato di purificazione si possa protrarre fino alla fine dei tempi, quando avrà luogo la risurrezione (151), anche se egli stesso fa notare che le pene saranno più o meno durature in proporzione all'amore che si è avuto per le cose di questo mondo (152). La considerazione di Giuliano sulla preghiera per i defunti praticata nella Chiesa è differenziata: questa preghiera serve come azione di grazie per i defunti molto buoni, per i meno buoni è di propiziazione, non aiuta invece i cattivi (153). Il fuoco purificatore (ignis purgatorius), attraverso cui molti giungono alla salvezza, si distingue dal fuoco dell’inferno. Anche per Giuliano 1 Cor 3, 12-15 costituisce la base biblica di questo insegnamento, che risulta essere già molto stabile (154). I giusti vedono Dio sin da questo stadio intermedio, ma non nella stessa maniera in cui lo vedranno dopo la loro risurrezione, quando non desidereranno più l'unificazione al corpo. D'altra parte, una volta che il corpo si è trasformato in corpo spirituale, esso sarà completamente adattato alla natura dell'anima (155). Si fa anche sentire l’influsso di Origene: i giusti ci attendono per attendere con noi la perfetta beatitudine (156), a cui prenderà parte anche il corpo. I santi, e non solo i martiri, regnano già con Cristo (157). Allo stesso modo in cui i santi sono già nel cielo, gli ingiusti saranno all'inferno sin dal momento della loro morte. Questo inferno è perpetuo e ha diverse intensità (158).

Al momento della parusia del Signore, avranno luogo la risurrezione dei morti e il giudizio. Il Signore apparirà amabile per i giusti e terribile per gli ingiusti. Questi ultimi non saranno capaci di vedere la sua divinità (159). Giuliano è prolisso sui particolari della risurrezione e della condizione dei corpi, come pure sulla separazione dei buoni e dei malvagi al momento del giudizio. Senza entrare nei dettagli, ci soffermiamo su alcune delle indicazioni teologiche, che non sono prive di interesse: dopo il giudizio Gesù deporrà la forma di servo e ci farà vedere la sua divinità. In quel momento Gesù rimetterà tutto il corpo, di cui egli è il Capo, come Regno a Dio Padre (160). La visione di Dio sarà allora completa, simile a quella di cui godono già ora gli angeli (161). Tale visione di Dio non avrà fine (162) e sarà accompagnata dalla lode e dalla piena soddisfazione di tutti i nostri desideri. Le ultime parole del Prognosticon sono la ripresa di quelle de La città di Dio (163).

L'importanza di quest'opera è dovuta al fatto che costituisce, con grande probabilità, il primo trattato sistematico di escatologia che conosciamo. Sia per la disposizione che per i contenuti, che devono molto sia ad Agostino che a Gregorio Magno, avrà un grande influsso sulla teologia medievale.

9. Gli interventi conciliari sull’escatologia 

Le dichiarazioni conciliari relative al problema escatologico all’epoca patristica non sono molto numerose ma essenziali, in quanto si radicano nei Simboli di fede. Già il Credo di Nicea fa riferimento alla seconda venuta di Gesu per giudicare i vivi e i morti (164). Il Simbolo di Costantinopoli aggiunge nel secondo articolo che la sua seconda venuta sara «nella gloria» e che «il suo regno non avrà fine». Nella sua redazione del terzo articolo menziona pure la speranza nella «risurrezione dei morti» e nella «vita eterna» (165).

Le dispute origeniste porteranno a prendere delle posizioni riguardo a certe tesi attribuite più o meno a ragione a Origene. Un editto dell’imperatore Giustiniano, notificato al momento del sinodo di Costantinopoli del 543, condanno la restituzione o reintegrazione (apocatastasi) dei demoni e degli empi (can. 9)(166). Con l’umorismo che conviene, si puo segna lare che il canone 5 condanna coloro che affermano che i corpi nella risurrezione saranno rotondi (167). A proposito di tutte queste condanne, si deve tenere presente che i problemi venivano dagli origenisti del tempo piu che dagli insegnamenti di Origene stesso. Il primo concilio di Braga, nel 561, afferma la fede nella risurrezione della carne (168). In alcuni dei concili celebrati a Toledo nel corso del VII secolo si trovano diverse indicazioni sull’escatologia. Così nel IV concilio (del 633) si parla della venuta del Signore, della risurrezione generale «nella carne in cui viviamo adesso» e del giudizio che avra come risultato la vita eterna o la condanna. Idee simili si trovano nel VI concilio del 638 (169). La medesima istanza circa la risurrezione della carne, «in cui ora viviamo, sussistiamo e ci muoviamo», legata alla parusia e al giudizio, è ripresa nel IX concilio di Toledo del 675 (170). Questo concilio aggiunge l’indicazione che la nostra risurrezione avverrà sull'esempio di quella di Cristo, nostro capo. Un insegnamento identico, con una maggiore insistenza sul giudizio, lo si trova nel simbolo del XVI concilio della medesima citta del 693 (171). I Simboli o professioni di fede d'Oriente o d'Occidente fanno generalmente riferimento alla parusia, al giudizio, alla risurrezione e alla vita eterna, come lo fa Nicea Costantinopoli. In qualcuno di essi, al riferimento della vita eterna e aggiunto quello della morte eterna (172).

Attraverso questo percorso si giunge a una visione d’insieme. Tre punti sono esclusi più o meno fermamente: il millenarismo, la riduzione della vita eterna all’immortalità dell'anima e la prospettiva della restituzione (apocatastasi). Il centro di gravità dell’escatologia cristiana si situa nella risurrezione dei morti al momento del ritorno di Cristo alla fine dei tempi, così come viene sottolineato dai Simboli di fede. Allo stesso tempo si pone un certo numero di problemi per quanto riguarda l’escatologia personale: cosa avviene nel tempo intermedio che separa la morte di ciascuno da questa risurrezione? Con molte sfumature e certi interrogativi, che rimangono insoluti, sulla maniera di rappresentarsi le cose, si è fatta strada l’idea di una differenziazione immediata tra il destino dei giusti e quello dei peccatori. La possibilità di una ultima purificazione dopo la morte viene evocata. Il trattato di Giuliano di Toledo, eco della dottrina agostiniana, ne presenta un buon bilancio alla soglia del Medioevo. 

Note

(1) CLEMENTE Romano, Ai Corinti, 24-25, in I Padri Apostolici a cura di A. Quacquarelli (CTP 5), Città Nuova, Roma 1981, p. 66. 

(2) Ibid., 26, 1-3, p. 67.

(3) Ibid, 27,2, p.67.

(4) Cfr. Ibid., 50,3, p. 82.

(5) Cfr. Ibid , 28, 1 e 29, 1, p. 68.

(6) Cfr. Ibid ,5,4.7 e 6,2, pp. 52-53.

(7) Cfr. Ibid ,50,3-4, p. 82.

(8) Lettera di Barnaba, 5, 6-7, in 1 Padri Apostolici, cit., p. 192.

(9) Ibid.,4,12-13, p. 191.

(10) IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Ai Tralliani, 9, 2, in I Padri Apostolici, cit., p. 118; vedi anche ibid., Saluto e 2, 2, pp. 115 116 come pure Agli Efesini, 21, 1, p. 107.

(11) Cfr. ID., Agli Smirnesi, 2, 1, p. 134.

(12) In., Ai Romani, 4,2, p. 123.

(13) Ibid , 6,23, p. 124.

(14) Ib. Agli Efesini, 12, 2; At Magnesi, 14; Ai Tralliani, 12, 2; Ai Romani, 1, 2; 2,14, 19, 2; Agli Smirnesi, 11, 1; A Policarpo, ?, 1, in I Padri Apostolici, cit., rispettivamente alle pp. 104; 113; 119; 121; 122; 125; 137; 142.

(15) Ib. Agli Efesini, 20, 2, p. 107.

(16) Ib. A: Romani, 2, 2, p. 122

(17) POLICARPO DI SMIRNE, Ai Filippesi, 2, 2, in 1 Padri Apostolici, cit., p. 154.

(18) Ibid ,9, 2, p. 158.

(19) Omelia dello Pseudo-Clemente, 9, 1-5, in 1 Padri Apostolici, cit., p. 226.

(20) Cfr. Ibid , 14,5, p. 230.

(21) Cfr. Ibrd., 11,7, p. 228.

(22) Cfr. Ibid., 15,5 e 16-18, pp. 231-232.

(23) Erma, Il Pastore, Sim V, 5, 3, in I Padri Apostolici, cit., p. 299.

(24) Sull'invito di Erma alla penitenza, cfr. vol. III, il paragrafo: La predicazione penitenziale di Erma, [di prossima pubblicazione].

(25) Cfr. Ibid , Sim IX, 3-11, pp. 318-327.

(26) Ibid., Sim IX, 12, 4-5, p. 327.

(27) Ibid., Sim IX, 14, 2, p. 329.

(28) Cfr. Ibid., Sim IX, 24, 4 e 27,3, pp. 336 e 338.

(29) Cfr. Giustino, I Apologia, 44, 9, in Gli Apologeti Grea a cura di C. Burini, (CTP 59), Città Nuova, Roma 1986, p. 123.

(30) Ib., Dialogo con Trifone, 80, 4, a cura di G. Visonà, Paoline, Milano 1988, p. 262.

(31) Cfr. Ibid.,5,3, p. 100.

(32) Ib., I Apologia, 52, 3, in Gli Apologeti Greci, cit., p. 131. Cfr. In., Dialogo con Trifone, 40,4, cit., pp. 173 174.

(33) Cfr. In., I Apologia, 18-19, in Gli Apologeti Greci, cit., pp. 99-101.

(34) Ip., Dialogo con Trifone, 46,7, cit., p. 185. Cfr. Ibid., 69,7, p. 240.

(35) ATENAGORA, La risurrezione dei morti, 3, 1, in Gli Apologeti Greci, cit., p. 423. 
 
(36) Cfr. Ibid., 2,5, p. 310. 

(37) Cfr. Ibid., 3-8, pp. 311-319.

(38) Cfr. Ibid., 12 13, pp. 323-327
 
(39) Cfr. Ibid., 23, 1-2, p. 342. 40 J. Secuy, Millénarisme, in Catholicisme, IX, Paris 1982, p. 159. 

(40) J. Danielou, La teologia del giudeo-cristianesimo, Il Mulino, Bologna 1974, pp. 427-458.
 
 (42) Giustino, Dialogo con Trifone, 80, 5 - 81, 4, cit., pp. 263-265.

(43) Ireneo DI LIONE, Contro le eresie, V, 32, 1, in Contro le eresie e gli altri scritti, a cura di E. Bellini, Aca Book, Milano 1981, pp. 471-472.

(44) Ibid., V, 33,3, pp. 474-475.

(45) TERTULLIANO, Contro Marcione, III, 24, 5, in Opere scelte, a cura di C. Moreschini, UTET, Torino 974, p. 455.

(46) Cfr. infra, pp. 393 394.

(47) Sulle principali correnti millenariste, cfr. J. Seguy, Millénarisme, art. cit., pp. 162-163.
 
(48) Cfr. Ireneo da Lione, Contro le eresie, V, 2, 2, cit., p. 414.

(49) Cfr. Ibid., II, 34, 1-4, pp. 206-208.

(50) Cfr. Ibid., II, 33, 5 - 34, 1, pp. 205-206; V, 31,2, p. 471. Cfr. A. Orge, Las parabolas evangélicas en san Ireneo, II, La Editorial Catolica, Madrid 1972.

(51) Cfr. Ireneo DI Lione, Contro le eresse, III, 16, 6, cit., pp. 267-268.

(52) Ibid., III, 19,3, pp. 279-280.

(53) Ibid., V, pref., p. 410; cfr. vol. I, pp. 310-312. 

(54) Ibid., II, 19, 1, p. 278.

(55) Ibid, V,9,3, p. 426.

(56) Ibid., V, 8, 1, p. 423.

(57) Ibid, V, 13,3, pp. 434-435.

(58) Ibid, IV, 20, 5, pp. 347-348.

(59) Ibid, IV, 20,6 p. 348.

(60) Ibid, IV, 20,5, p. 348.

(61) Ibid, IV, 20,7, p. 349.

(62) A. ORBE, Gloria Dei vivens homo, in «Gregorianum», 73 (1992), pp. 205-268.

(63) IRENEO DI LIONE, Contro le eresie, V, 9, 2, cit., p. 425. 

(64) Cfr. A. OrBE, Gloria Dei vivens homo, art. cit., pp. 264ss. 

(65) Cfr. In., Vision del Padre e incorruptela segiin san Ireneo, in «Gregorianum», 64 (1983), pp. 19941, 208ss. 

(66) Cfr. Ireneo di Lione, Contro le eresie, II, 28, 3, cit., pp. 188-189. 

(67) Ibid, IV, 28, 2, p. 367. 

(68) Cfr. Ibid., IV, 11, 2, p. 323; IV 20, 7, p. 349. Cfr. A. Orbe, Visiòn del Padre..., art. cit., pp. 236 238.

(69) IRENEO DI LIONE, Contro le eresie, V, 27, 2, cit. p. 464.

(70) Cfr. TerruiLIano, L'anima, 27, 2, a cura di A. Gerlo (CCSL 2), 1954, p. 823; Sulla resurrezione dei morti, 28, 6, in Opere scelte, cit., pp. 825-826.

(71) Cfr. Iv., Sulla resurrezione dei morti, 46,7, in Opere scelte, cit., pp. 858-859; La Penitenza, 3,4, in I Trattati, a cura di G. Mazzoni, Cantagalli, Siena 1934, p. 172. Cfr. A. FERNANDEZ, La escatologia en el siglo II, Aldecoa, Burgos 1979, p. 323.

(72) Cfr. TERTULLIANO, L'anima, 7, 1, cit., pp. 790ss.

(73) Cfr. Ip., Contro Marcione, IV, 34, 13, in Opere scelte, cit., pp. 588-589. 

(74) Cfr. Ib., L anima, 58, cit, pp. 867-869.

(75) Cfr. Ib., Sulla resurrezione dei morti, 53,4, in Opere scelte, cit., p. 878. 

(76) Cfr. Ib., L'anima, 50, 5, cit., p. 863.

(77) Ib., Sulla resurrezione dei morti, 1, 1, in Opere scelte, cit., p. 775.

(78) Cfr. Ibid., 2, 11-12, pp. 778-779; Contro Marcione, V, 9, in Opere scelte, cit., pp. 663-667.

(79) Cfr. Ib., Sulla resurrezione dei morti, 2, 2, in Opere scelte, cit., p. 776. (80) Ibid, 55 7, pp. 882-883.

(81) Cfr. Ibid, 62, pp. 893-894.

(82) Ibid.,17,7-9, p. 805.

(83) Ibid., 8, 2, pp. 789-790. 

(84) Cfr. supra, pp. 88-89. 

(85) Cfr. In., Sulla resurrezione dei morti, 51, 3, in Opere scelte, cit., p. 872

 (86) Ibid., 26,11, p. 822.

(87) CIPRIANO, La preghiera del Signore, 13, in Opere di san Cipriano, a cura di G. Toso, UTET, Torino 1980, p. 218.

(88) Ib., La morte, 26, a cura di M. Simonetti (CSEL 3, 1), 1976, p. 313.

(89) Ib., A Fortunato, 12, in Opere di san Cipriano, cit., p. 404.

(90) Ib., Lettere, 55, 20, in Opere di san Cipriano, cit., p. 580.

 (91) Cfr. CLEMENTE ALESSANDRINO, Sulla 1 Pt 1,9, a cura di E. Klostermann (GCS 17), 1906, p. 203; Il Pedagogo II, 19, 4 20, 1, in {l Protrettico - Il Pedagogo, a cura di M.G. Bianco, UTET, Torino 1971, pp. 297-298. 

(92) Cfr. B. E. DaLev, Eschatologie in der Schrift und Patristik, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1986, p. 45. 

(93) CLEMENTE ALESSANDRINO, // Pedagogo, I, 28, 3-5 e III, 2-3, cit., pp. 220 e 385 386.

(94) Cfr. Ibid., 1, 37, 1, p. 227. Cfr. L.F. Laparia, E/ Espiritu en Clemente Alejandrino, Univ. Pont. Comillas, Madrid 1980, p. 238.

(95) CLEMENTE ALESSANDRINO, Il Pedagogo, II, 104, 3, cit., pp. 364 365. (96) Cfr. K. ScHmSLE, Latiterung nach dem Tode und pneumatische Auferstebung nach Klemens von Alexandrien, Aschendorff, Minster 1974. 

(97) Cfr. CLEMENTE ALESSANDRINO, Gli Stromsati, VII, 12 e 56, 6, a cura di G. Pini, Paoline, Milano 1985, pp. 787-788 e p. 826. 

(98) ORIGENE, I Principi, IV, 4, 9-10, a cura di M. Simonetti, UTET, Torino 1968, pp. 560-565.

 (99) Cfr. H. Crouzet, Origeze, Borla, Roma 1986, pp. 316ss. 

(100) Cfr. ORIGENE, / Principi, I, pref., 5, cit., pp. 122-123. 

(101) Ibid., II, 10, 4-5, pp. 336-338.

(102) Cfr. H. Crouzet, Origene, cit., pp. 351 357.

(103) Cfr, Origene, I Principi, I, 6, 2, pp. 201-205.

(104) Ibid., III, 6, 5, pp. 472 477. Cfr. H. Crovzet, Origene, cit., pp. 347ss. 

(105) Cfr. ORIGENE, / principi, I, 6, 3, cit., pp. 205-207. 

(106) Nella sua lettera agli amici di Alessandria che ci viene tramadata da Rufino e Girolamo. Cfr. H. Crouzet, Origene, cit., p. 347. 

(107) Cfr. ORIGENE, Omelie su Gerenzia, XX, 3, a cura di L. Mortari (CTP 123), Città Nuova, Roma 1995, pp. 261-265. 

(108) Cfr. Ib., / Principi, II, 11, 7, cit., pp. 355-357; Commento a Giovanni, XX,7,47, a cura di C. Blanc SC 290), 1982, p. 181.

(109) Ib., Omelie sul Levitico, VII, 2, a cura di M.I. Danieli (CTP 51), Città Nuova, Roma 1985, pp. 151-156.

(110) Si può trovare qualche testo di questi autori in H. DE Lubac, Cattolicismo. Aspetti sociali del dogma, in Opera Omnia, VII, a cura di E. Guerriero, Jaca Book, Milano 1978, pp. 287ss.

(111) ORIGENE, / Principi, I, pref., cit., pp. 118-126.

(112) Ibid, II, 10, 1-2, pp. 330 334.

 (113) Cfr. Ib.. Commento a Matteo, XVII, 30, a cura di W.A. Baehrns (GCS 40), 1921, pp. 669-671; I Principi, II, 2 3, cit., pp. 242 262. 

(114) Cfr. H. CrouzeL, Origene, cit., pp. 324ss.

(115) Cfr. B.E. Datey, The Hope of the Early Church, University Press, Cambridge 1991, pp. 85ss.

(116) Ilario Di Poitiers, Le Trinità, XI, 31, a cura di G. Tezzo, UTET, Torino 1971, p. 619.

(117) Ibid., XI, 38-39, pp. 624 626.

(118) Ibid., XI, 49, p. 636.

(119) Ib., Commento ai Salmi, 14, 17, a cura di B. Léfstedt (CSEL 22), 1971, pp. 96 e 99. Cfr. L.F. ADARIA, La cristologia de Hilario de Poitier:, PUG, Roma 1989. pp. 265-289.

(120) Agostino, La citta di Dio, XIV, 28, a cura di D. Gentili (NBA V/2), Città Nuova, Roma 1988, p. 361.

(121) Cfr. Ib., Esposizioni sui salmi, 64, 2, a cura di V. Tarulli (NBA XXVI), Città Nuova, Roma 1970, pp. 457-459

 (122) Ib., Le città di Dio, XX, 7-9, a cura di D. Gentili (NBA V/3), Città Nuova. Roma 1991, pp. 159-163.

(123) Ib., Commento a Giovanni, 49, 10, a cura di V. Tarulli-E. Gandolto (NBA XXIV), Città Nuova, Roma 1968, pp. 979 981.

(124) Cfr. B.E. Daley, The Hope of the Early Church, cit., pp. 138 ss. (così pure per ciò che segue).

(125) Cfr. Ib., La città di Dio, XXI, 13, (NBA V/3), cit., pp. 251-253.

(126) Cfr. tra gli altri Ib., Esposizione sui salmi, 37, 3, a cura di R. Minuti (NBA XXV), Citta Nuova, toma 1967, pp. 845-847 e Ib., La Genesi difesa contro i Manichei, II, 20, 30, a cura di L. Carrozzi (NBA X/1), Città Nuova, Roma 1988, pp. 159-161.

(127) Cfr. Ib., Discorsi, 159, 1, a cura di M. Recchia {NBA XXXI/2), Città Nuova, Roma 1990, p. 603.

(128) Cfr. Ib., Discorsi, 241, 1, a cura di P. Bellini-F. Cruciani-V. Tarulli NBA XXXII/2), Città Nuova, Roma 1984, pp. 639-641.

(129) Cfr. Ib., La città di Dio, XIII, 20 (NBA V/2), cit., pp. 259-261.

(130) Cfr. Ib., La Trinità, XIV, 18, 24, a cura di G. Beschin (NBA IV), Città Nuova, Roma 1973, p. 609.

(131) Ib., La città di Dio, XIV, 3, 1 (NBA V/2), cit., pp. 293-295 e ibrd., XXII, 26 (NBA V/3), cit., pp. 399-401.

(132) Ibid., XXII, 30, 4 (NBA V/3), cit., pp. 419-421.

(133) Ibid., XX, 16, cit., pp. 145-147.

(134) Ibid., XXII, 30, 5, cit., p. 421.

(135) Ib., Esposizione sui salmi, 118, 1, a cura di T. Mariucci-V. Tarulli (NBA XXVII), Città Nuova, Roma 1976, pp. 1113 1115.

(136) Ibid., 35, 14 e 43, 5, cit., pp. 651-653 e 1053-1055.

(137) Ib. Confessioni, X, 22, 32, a cura di C. Carena (NBA 1), Città Nuova, Roma 1969?, p. 329.
 (138) Ib., Commento a Giovanni, 67, 2, cit., pp. 1153-1155; Ib., La città di Dio, XIX, 13, 2 (NBA V/3), cit., pp. 51-53,

(139) Ib., Commento alla prima lettera di Giovanni, 10, 3, cit., p. 1839.

(140) Cfr. Ib. Enchridion. Exposés Généraux de la foi, a cura di ]. Rivière (BA 9), 1947, p. 268.

(141) Ib., La città di Dio, XXI, 17 (NBA V/3), cie., pp. 259-261.

(142) Ibid., XXI, 24, 3, pp. 273-275.

(143) Cfr. Ip., Enchiridion, 112, cit., pp. 309ss.

(144) Ib., Esposizioni sui salmi, 5, 10, cit., pp. 55-57. 

(145) Sulla dottrina della predestinazione in Agostino, cfr. supra, pp. 271-273.

 (146) Cfr. Gregorio Magno, Dialoghi, IV, 26-30, ed. fr. a cura di A. De Vogiié (SC 265), 1980, pp. 34-103. 

(147) Cfr. Ibid., pp. 148-150. 

(148) Ib., Commento morale a Giobbe, XIV, 72, a cura di P. Siniscalco, Opere 1/2, Città Nuova, Roma 994, p. 421. (149) Beda il Venerabile, Commento a Luca, 6, 24, in PL 92, 629.
(150) Giuliano Di Toledo, Prognosticon saeculi futuri, II, 8, a cura di J.N. Hillgarth (CCSL 115), 1976, 48. 

(151) Cfr. Ibid. II, 10, p. 49.

(152) Ibid., II, 22, p. 59.

(153) Ibid, 1,22, p. 40.

(154) Cfr. Ibid., II, 19-22, pp. 59-59. 

(155) Ibid., II, 12, p.S1.

(156) Ibid., Il, 28 e 35, pp. 65ss e 73. 

(157) Ibid., Il, 37, pp. 74ss.

(158) Ibid., II, 13 e 22, pp. Slss e 59. 

(159) Ibid., III, 7 8, p.87.

(160) Ibid., III, 45, p. 115.

(161) Ibid, III, 54ss., pp. 121ss.

(162) Ibid., III, 60 pp. 124ss.

(163) Cfr. Ibid., Ill, 62, pp. 125-126.

(164) DzS 125.
 
(165) DzS 150.

(166) DzS 411.

(167) DzS 407.

(168) DzS 462.

(169) DzS 492.

(170) DzS 540.

(171) DzS 574. 

(172) Cfr. DzS 72 (fides Damaso); DzS 76 (Simbolo Quicumque).