Così insegna Paolo, da prima senza fornire alcuna spiegazione: «Uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti». Soltanto la proposizione seguente contiene la spiegazione: «Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che e morto e risorto per loro» (2 Cor 5,14s.). La morte di Cristo per noi è presentata come un “a priori” del comportamento cristiano, che pertanto ne è totalmente caratterizzato. Nella lettera ai Romani, questo a priori oggettivo si estende dall’azione di Cristo al battesimo cristiano, che oggettivamente pone la forma della morte e sepoltura con Cristo come anteriore ad ogni fede soggettiva, e poi subito presenta ed esige il comportamento esistenziale del cristiano come determinato e caratterizzato dallo stesso a priori (Rm 6,3-11). Le parole misteriose di Paolo nella lettera ai Galati: «Mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo», stanno sullo stesso piano dell’a priori, di ciò che è presupposto e forma oggettiva della fede da attuare successivamente: uno solo, morendo per tutti, ha preso con sé sulla sua croce tutti (e anche me), e quindi tutti (e anch'io) sono morti alla legge e a tutto il mondo in cui vige la legge. E se ora continua: «E non vivo più io, ma Cristo vive in me», questo enunciato sta nel mezzo tra il presupposto oggettivo e l’atto soggettivo di fede, nel punto in cui il cristiano dice di sì al fatto che uno solo è stato crocifisso per lui. Un tale sì altro non è che la fede: «E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,19s.).
Nella giovanile freschezza della fonte zampillante possiamo comprendere ciò che significa fede e vita di fede. Significa ringraziare con tutta la vita di essere debitori di tutta la propria esistenza al Gesù storico. Poiché gli sono debitore della mia esistenza, avendo dato la sua esistenza per la mia, il ringraziamento non può essere espresso altrimenti che con tutta l’esistenza. Qui sta la logica del cristianesimo: che non si può dir grazie in modo adeguato se non con tutta la propria esistenza.
Perché mai? Non si potrebbe pensare di ricevere da Dio una grazia (per la quale Dio ha offerto la vita del suo eterno Figlio, ma che in fondo non era stata da noi personalmente impetrata) e di ringraziarlo senza doversi impegnare a propria volta così seriamente? In verità, Dio potrebbe accontentarsi di un sincero sentimento di gratitudine da parte dei credenti, i quali, dopo aver gradito il dono ricevuto, sono pronti a ricordare continuamente con gioia il beneficio che a loro è stato accordato. E tanto più potrebbe accontentarsi dal momento che, essendo l’atto di Dio ormai compiuto, il gravissimo impegno della vita umana non gli può aggiungere nulla di decisivo e di originariamente efficace. Come potrebbe mancare qualcosa alle sofferenze di Cristo? Non potrebbe essere un’espressione traslata quella di Paolo, quando pensa di poter supplire con la propria sofferenza a una supposta mancanza (Col 1,24)?
Dio non si accontenta di un grazie cordiale. Vuole riconoscere nei cristiani il Figlio. Per quanto nei loro sentimenti rimangano al di sotto di Cristo, essi tuttavia devono, per principio, consentire a quell’amore, mediante il quale sono redenti. Ma consentire significa trovare che la cosa è giusta, anzi l’unica giusta; ma che è pure la rivelazione più alta dell’amore divino, e quindi — poiché Dio è la verità — che è la norma di ogni verità. Perciò (e i cristiani lo comprendono) anche per loro nessun’altra norma di verità può aver valore. Nel ringraziamento non possono accontentare Dio con un amore e una verità diversi da quelli che ha loro assegnato. Se si guarda più a fondo, non sono neppure in grado di riflettere con quale moneta esistenziale intendono ripagare Dio. Poiché se «uno (ma quale uno!) è morto per tutti, dunque tutti sono morti» (2 Cor 5,14),
Dio ha disposto in anticipo della morte di tutti, nella supposizione che la suprema manifestazione della carità e verità divine, la morte di Gesù Cristo, forse meriti di essere considerata anche dagli uomini come la loro migliore possibilità, anzi la loro suprema manifestazione per Dio, e quindi come ciò che deve essere scelto con assoluta libertà. Il credente altro non sarebbe se non colui che ha compreso una tale possibilità, e la sceglie. Non sarebbe, cioè, un uomo che misura con due metri diversi: uno per Dio e Cristo ed uno per sé.
La verità, che costituisce la misura della fede, è la morte di Dio per amore del mondo — per l’umanità e per ciascun membro di essa — nella notte di croce di Gesù Cristo. Tutte le fonti della grazia sgorgano da quella notte: fede, carità e speranza. Tutto ciò che io sono, in quanto sono qualcosa di più che un essere caduco e senza speranza, le cui illusioni sono tutte distrutte dalla morte, lo sono a causa di quella morte che mi apre l’accesso al Dio che appaga. Io fiorisco sul sepolcro del Dio che è morto per me, affondo le mie radici nel terreno della sua carne e del suo sangue. Perciò, l’amore che ne traggo nella fede, non può essere di natura diversa da quello del sepolto.
La fede cristiana è, con ogni possibile urgenza, l’anticipazione dell’offerta della mia vita a Cristo. Come il Dio Trinità, mistero d’amore, giustificabile soltanto nell'amore (poiché non aveva bisogno di noi), si è quasì proiettato fuori di sé, in modo che dalla vita eterna è caduto nel mondo ed è morto abbandonato da Dio, così la fede può essere soltanto una proiezione che l’uomo, rispondendo con la grazia, fa di se stesso in Dio, dimostrandosi riconoscente a Dio con il dimostrare che ha compreso.
Fermandosi alla superficie, si potrebbe vedere in queste considerazioni una ripresa del pensiero filosofico secondo cui l’uomo, faccia a faccia con la morte all’interno del proprio orizzonte fa filosofia, perché nella cosciente anticipazione della morte, egli è spirito che trascende il mondo. Nella concezione cristiana |a situazione è completamente diversa: la morte di Cristo è per noi lo spuntare della gloria divina dell'amore, e concepire se stessi, in base a questa morte, come esistenza di fede, significa dare di sé un’interpretazione che si fonda non sopra un fenomeno terminale e marginale, ma nel centro assoluto della realtà. Ciò esige che l’uomo possa coincidere con questo centro soltanto toccandolo con il suo termine, la propria morte, cercando di comprendere la serietà dell'amore di Dio mediante il proprio caso serio.
L'anticipazione della propria morte come risposta alla morte di Cristo è il modo per assicurarci seriamente della nostra fede. Se fede significa riconoscere alla verità di Dio il primato su ogni nostra verità (con la nostra conoscenza, i nostri dubbi, la nostra ignoranza, le nostre incertezze e riserve), l’inizio dell’esistenza al di là del possesso di ogni verità umana e problematica è la prova, a noi possibile, che diamo la prevalenza alla verità di Dio sulla nostra. Che questo già sia amore, non c’è bisogno di dimostrarlo. Le parole di Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13) sono fondamentalmente parole di umanità universale, comprensibili a tutti; diventano supreme ed un mistero sia perché egli le rivendica per sé, Figlio di Dio, sia perché permette a noi, suoi fedeli e seguaci, di farne la chiave della nostra concezione cristiana. Esistenza di fede significa dunque esistenza nella morte per amore. Non una qualsiasi dedizione, temperata dal giudizio del momento e manipolata dall’uomo, ma un'anticipazione dell’offerta della vita in ogni singola situazione di un’esistenza cristiana. «In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1 Gv 3,16): in questo assioma del discepolo prediletto “l’amore” è l’amore assoluto, quale è apparso in Cristo nel mistero, ma assumendo in sé e superando tutti i drammi ed i racconti di morti per amore che si trovano nella letteratura mondiale, così che noi, credendo il mistero, nello stesso tempo lo possiamo comprendere, e dalla fede che comprende possiamo trarre per noi la conclusione. L'offerta della vita per i fratelli non è un’offerta dosata, umanistica; essa ritorna sempre dall’orizzonte della morte (di Cristo, perciò anche del fedele) alla situazione concreta di vita. Comprendendo con la fede che Gesù ha subito la morte per me, acquisto mediante la fede (non altrimenti!) il diritto di concepire la mia vita come una risposta ad essa. Se è diritto, ha per suo rovescio il dovere di prendere sul serio il caso serio, in base al quale do un’interpretazione di me stesso.
Tratto da "Cordula ovverosia il caso serio"
2 - Il caso serio in quanto forma
di Hans Urs von Balthasar
Blog di condivisione di pagine della Tradizione Cattolica, di attualità e di Musica Sacra.
martedì 14 gennaio 2025
Perché Dio non si accontenta di un semplice "grazie" (Hans Urs von Balthasar)
Secondo l'insegnamento di Cristo lo stato di persecuzione è lo stato normale per la chiesa nel mondo, e il martirio del cristiano è la sua situazione normale. Non nel senso che la chiesa debba essere continuamente e dovunque perseguitata; ma se lo è per qualche tempo ed in determinate regioni, essa dovrebbe subito ricordare che è partecipe di una grazia che le è stata promessa: «Vi ho detto queste cose affinché, quando verrà la loro ora, ve ne ricordiate, perché io ve l’ho detto» (Gv 16,4). Tali parole non possono essere superate da nessuna evoluzione del mondo. E non nel senso che ogni singolo cristiano debba subire il martirio cruento, ma nel senso che egli dovrebbe considerare il caso che si presenta come la manifestazione esterna di una realtà interna, della quale egli pure vive.
Il martirio è l’orizzonte della vita cristiana in un senso diverso da come lo era nella fede giudaica. In questa, infatti, era un’estrema possibilità umana, per il singolo fedele, di attestare la propria fede in YHwH; ciò che in essa fa spicco è il valore per amore della fede: sono eroi che vengono presentati come esempi a tutto il popolo, specialmente alla gioventù (così le due donne che contro il divieto di Antioco Epifane circoncisero i loro figli, Eleazaro ed i sette fratelli: 2 Mac 6s.; Daniele ed i suoi amici: Dn 3. 6; 14,31s.). Un tale carattere eroico manca nel Nuove Testamento, perché non è l’uomo che si dirige per primo verso il punto estremo, ma proviene di là dove è già stato definitivamente Gesù Cristo. Questi ha realizzato i canti del servo di YHwH, che per lui erano una promessa. Non c’è dunque una continuazione della situazione veterotestamentaria, ma solo un ingresso nella condizione di Cristo. Mentre il martirio veterotestamentario chiarisce quanto avrebbe dovuto essere forte la fede di ogni giudeo, il martirio neotestamentario manifesta la sua attualità sempre reale, fondata sulla croce di Cristo e comunicata per grazia ai suoi discepoli.
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