venerdì 31 maggio 2024

La Messa è un sacrificio. Da: "La Messa cattolica. Passi per ripristinare la centralità di Dio nella liturgia" Athanasius Schneider - Seconda parte

(Qui la prima parte)

Alcuni dicono che l'idea di sacrificio sembrerebbe essere stata messa in discussione intorno agli anni '60, per il suo rapporto con la violenza in epoca di pacifismo. In realtà, però, chi ha messo in discussione questa idea nella vita della Chiesa dopo il Concilio Vaticano Secondo sono stati i teologi liberali e modernisti, imbevuti dalle idee protestanti che fanno capo a Martin Lutero, che rigettava l’autentico significato del sacrificio. 


Conosciamo le parole blasfeme che egli ha indirizzato a Dio sul sacrificio. Parlando sul sacrificio della Croce, Lutero dice: “Qui lotta Dio contro Dio. (…) Qui Dio era contro di Lui (Cristo), e Cristo è caduto in uno stato di impazienza contro Dio” (Weimarer Ausgabe 45, 370). Lutero ha persino osato a dire questa enormità: “Cristo è il massimo peccatore e l’unico peccatore e nessun altro” (Weimarer Ausgabe 40 III, 745). Secondo Lutero l’umanità di Cristo non ha contribuito per niente alla redenzione, ed è stata solamente un’esca per il diavolo (Weimarer Ausgabe 4, 406). Lutero continua dicendo, che sulla Croce Cristo “non è più quello che è nato dalla divinità e dalla Vergine, ma un peccatore” (Weimarer Ausgabe 40 I, 433). 

La dottrina cattolica, invece, dice con papa Leone il Grande, che Cristo ha operato la salvezza nelle sue due nature, cioè come l’Unigenito Figlio di Dio e come il figlio dell’uomo, poiché l’uno senza l’altro non giova alla salvezza (cf. Sermo de transfiguratione Domini). Lutero fece una perversione del vero senso del sacrificio redentore di Cristo, dicendo che “Cristo per mezzo del suo peccato toglie il peccato del mondo. Non sarebbe meglio dire: la giustizia toglie il peccato e Cristo per mezzo della Sua giustizia ha tolto e condannato il peccato del mondo? No, perché? Perché il peccato e la punizione del mondo intero giace sulle spalle di Cristo” (Weimarer Ausgabe 23, 711). Quindi, secondo Lutero non la santità di Cristo ci ha redento, non la partecipazione nel Suo santo sacrificio della Croce ci dà la vita eterna, ma la lotta del peccato contro il peccato. 

Secondo la dottrina cattolica, però, l’unione della natura divina e umana in Cristo è espressione dell’amore ineffabile di Dio che ha raggiunta la sua massima espressione nel sacrificio amoroso della Croce per tutta l’umanità, per la nostra salvezza. Per Lutero, invece, il sacrificio della Croce è una lotta di Cristo “fatto peccato” contro Dio.  

Il significato della Messa come vero sacrificio rappresentava per Lutero la terza cattività babilonica, nella quale la Chiesa cattolica teneva l’Eucaristia (la prima cattività era la Comunione sotto una specie, la seconda era la dottrina della transustanziazione).  

Per questa ragione Lutero dava al rito della Messa una nuova forma, senza le preghiere dell’offertorio tradizionale. Il carattere sacrificale dell’Eucaristia Lutero lo riduce alla pura memoria di Cristo, all’atto di ringraziamento e al momento del banchetto, cioè della ricezione del Corpo e Sangue di Cristo in memoria della Sua Passione, dicendo: “Io non faccio né dalla messa né dal sacramento un sacrificio, ma la memoria di Cristo (…) questo è un sacrificio ed è il sacrificio di ringraziamento. (…) Il sacramento stesso non deve essere un sacrificio, ma un dono che Dio ci dà, e il quale noi riceviamo con gratitudine” (Vermahnung zum Sacrament des Leibes und Blutes des Herrn).  

Quei teologi e liturgisti cattolici che diluiscono il carattere sacrificale della santa Messa avevano come sorgente del loro pensiero, più che il pacifismo, il modernismo nella sua forma protestantizzante (per una discussione su questo punto, vedi Joseph Ratzinger, “The Theology of the Liturgy,” in Looking Again at the Question of the Liturgy with Cardinal Ratzinger, ed. Alcuin Reid (Farnborough: St. Michael’s Abbey Press, 2003), 18–31). 

Questo modo di pensare, a sua volta, influenzò poi, durante e dopo il Concilio Vaticano II, parzialmente anche la riforma dell’ordine della santa Messa. 

Durante il dibattito sulla liturgia nel Concilio Vaticano II Mons. Smiljan Franjo Čekada, vescovo di Skopje (Macedonia), riferendosi alla proposizione di un altro Padre conciliare che proponeva di riformare il rito della Messa nel senso ecumenico, ha pronunciato il seguente avvertimento, ciò che di fatto si è rivelato poi profetico. Egli diceva: “Ieri abbiamo, p.e. ascoltato la proposta, che l’intero odierno rito della liturgia latina sia completamente distrutto e al suo posto sia sostituito un nuovo rito “ecumenico”, composto secondo il modello dell’Ultima Cena dai periti di tutte le confessioni che in qualche modo confessano Cristo” (cf. Concilii Vaticani II Synopsis, op. cit., p. 828). 

È un fatto palese che la dimensione del sacrificio è sminuita nel Novus Ordo Missae. Sappiamo che pastori protestanti erano consultori nell'elaborazione del Novus Ordo Missae. 

Il filosofo francese Jean Guitton (+ 1999) ed amico personale di Papa Paolo VI ha fatto durante un dibattito pubblico organizzato da "Lumière 101"dalla “Radio-courtoisie”il 19 dicembre 1993 la seguente affermazione: “Credo di non sbagliare nell'affermare che l'intenzione di Paolo VI, e della nuova liturgia che porta il suo nome, è chiedere ai fedeli di partecipare di più alla Messa, di dare più spazio alla Scrittura e meno spazio a tutto ciò che c'è , alcuni dicono "di magia", altri "di consacrazione consustanziale", transustanziale, e che è la fede cattolica. In altre parole, c'è in Paolo VI un'intenzione ecumenica di cancellare - o almeno di correggere, o almeno di ammorbidire - ciò che è troppo "cattolico", nel senso tradizionale, nella Messa, e di avvicinare la Messa cattolica, ripeto, alla messa calvinista” (Yves Chiron, François-Georges Dreyfus, Jean Guitton, Entretien sur Paul VI. Niherne: Éditions Nivoit, 2011, 27–28). 

Il fatto che il Novus Ordo Missae nel suo insieme si avvicini al pensiero dottrinale e liturgico dei protestanti, è illustrato dalla seguente impressionante dichiarazione del “Concistoro Superiore della chiesa della Confessione Augustana di Alsazia-Lorena”, fatta in un’assemblea a Strasburgo l'8 dicembre 1973, dove si diceva tra l’altro: “Data l'attuale forma della celebrazione eucaristica nella Chiesa cattolica e l'attuale consenso teologico, sembrano scomparire molti ostacoli che potrebbero impedire a un protestante di partecipare a una celebrazione eucaristica. Dovrebbe essere possibile per un protestante oggi riconoscere la Cena del Signore nella celebrazione eucaristica cattolica” (Derniere Nouvelles d’Alsace, n. 289, 14 décembre 1973). Questa dichiarazione dei Protestanti consta, con soddisfazione, il mutato aspetto sacrificale nelle preghiere del Novus Ordo Missae: “Vogliamo usare le nuove preghiere eucaristiche, nelle quali ci riconosciamo. Queste preghiere rendono per noi più facile lo scoprire in loro una teologia evangelica del sacrificio”. 

Il Novus Ordo Missae indebolisce l'aspetto essenziale della Messa, che è quello sacrificale. Questo può essere visto in modo più evidente anche nelle nuove preghiere dell'offertorio, che sono sostanzialmente preghiere per la benedizione di un pasto, svuotate del senso propriamente sacrificale. Questo è pericoloso, perché nella tradizione della Chiesa l'offertorio era sempre considerato un piccolo canone. Tutte le liturgie orientali hanno,nella preparazione dei doni, preghiere e gesti espressivamente sacrificali. 

La santa Messa rispetta il metodo della storia della salvezza, che è il modo dell'anticipazione di una realtà simbolica che poi verrà. Come l'Antico Testamento anticipa il Nuovo, ma esso era nascosto nell'Antico: "Dio dunque, il quale ha ispirato i libri dell'uno e dell'altro Testamento e ne è l'autore, ha sapientemente disposto che il Nuovo fosse nascosto nel Vecchio e il Vecchio fosse svelato nel Nuovo" (Dei Verbum 16, che cita Sant'Agostino, Quaest. in Hept., 2, 73: PL 34, 623). 

Il Sacramento eucaristico è un segno triplice, commemorativo, indicativo e prognostico, cioè commemora l’evento salvifico del passato, indica la sua presenza sacramentale nel presente e apre la visione alla realtà definitiva nella vita eterna, nella nuova Gerusalemme. Questa ottica della storia della salvezza deve essere rispettata nella liturgia. Le preghiere tradizionali dell’offertorio risalgono al nono secolo o anche prima (cf. Tirot, P., Histoire des prières d´offertoire dans la liturgie Romaine du VIIe au XVIe siècle, Roma 1984). L'offertorio ha il senso di indicare la Croce, quindi la Chiesa esprime in modo solenne e prolisso, la intentio, quello che intende fare, non un semplice pasto, ma la più grande azione, che è il sacrificio di Cristo. Ecco perché l'offertorio deve necessariamente esprimere il sacrificio che si andrà a compiere.

Nelle preghiere dell’offertorio del Novus Ordo Missae, però, la intentio esprime piuttosto l’aspetto di un pasto, di un banchetto. Per questa ragione, le nuove preghiere dell’offertorio sono dogmaticamente, dottrinalmente e spiritualmente difettose. Le nuove preghiere dell'offertorio dovrebbero essere rimpiazzate dalle antiche preghiere, che corrispondono allo spirito della Chiesa universale di tutti i tempi, ed in particolare allo spirito della liturgia di tutte le Chiese orientali (cf. Stéphane Wailliez, L’offertoire à la lumière des rits apostoliques d’Orient: Catholica, n. 77, automne 2003, p. 78-95). 

Il principio dell’anticipazione, ossia della graduale espressione rituale e verbale dell’elemento sacrificale, essenza della Messa, è comune a tutte le liturgie più antiche della Chiesa, sia occidentali che orientali. Stéphane Wailliez lo esprime in queste termini: “È quindi ben confermata la gradazione della liturgia dal meno essenziale al più essenziale, fermo restando che in più occasioni gli elementi che esprimono l'essenza dell'azione si trovano anche al di fuori della loro propria collocazione, in quella delle cose meno essenziali. In termini meno astratti, il sacrificio propiziatorio, l'essenza della Messa, è presente in modo specifico alla consacrazione e nella seconda parte del canone ma, a volte, è già accennato prima, nelle parti non sacrificali della cerimonia” (ibid.). Nel Novus Ordo “c'è un grave difetto nel significato della causa finale, nel caso dell'offertorio. Le nuove preghiere sono chiamate "præparatio donorum". Ma tutta la preparazione è fatta in vista di un fine. Sopprimendo l'"anticipazione" del sacrificio redentore, la nuova liturgia sopprime anche il principio di comprensione dell'offertorio. Le nuove preghiere evocano solo la Comunione (“Ex quo nobis fiet panis vitæ … potus spiritualis”). Ora, a parte il fatto che l'essenza della Messa è il sacrificio propiziatorio e non la Comunione, quest'ultimo può essere inteso solo come partecipazione alla vittima del sacrificio” (Stéphane Wailliez,op.cit.). 

Infatti, l’essenza della Messa e la sua causa finale consiste nel carattere sacrificale. Nel Novus Ordo, invece, le preghiere dell’offertorio esprimono come intenzione dell’offerta e della preparazione dei doni la ricezione del Corpo di Cristo e Sangue di Cristo, quindi l’aspetto del banchetto. Queste preghiere, esprimendo tale intenzione, hanno un carattere teologicamente ambiguo, dimenticando l’avvertenza espressa dal Concilio di Trento, che diceva: “Se qualcuno dirà che nella Messa non si offre a Dio un vero e proprio sacrificio, o che essere offerto non significa altro se non che Cristo ci viene dato a mangiare, sia anatema” (sess. 22, can. 1). 

Un altro aspetto difettoso nel Novus Ordo Missae è la Seconda Preghiera Eucaristica, dove manca quasi interamente il senso del sacrificio. Fu detto dai protestanti che loro potevano in coscienza celebrare la liturgia del Novus Ordo Missae prendendo la Seconda Preghiera Eucaristica, insieme con le nuove preghiere d’offertorio. Questa testimonianza chiara dei protestanti dovrebbe svegliarci. Non si può continuare a fare la quadratura del cerchio, dicendo che il Novus Ordo Missae è un’espressione dell’ermeneutica della continuità con la precedente tradizione liturgica, come ha detto recentemente l’arcivescovo Arthur Roche in un articolo (cf. L’Osservatore Romano, 12 dicembre 2020), dove egli persino formula apoditticamente una palese contraddizione contro tutte le prove evidenti, non ammettendo prove contrarie: “Per certi versi vi figura un vocabolario più esplicito circa la dimensione sacrificale della messa. Le opinioni contrarie non sono fondate”. 

Nessun protestante celebrerebbe l’Eucaristia con il Canone Romano e con le antiche preghiere d'offertorio. Nell’anno 1523 Lutero compose la “Formula missae et communionis pro ecclesia Vittembergensi”, un nuovo rito eucaristico, nel quale egli gettò via l'intero canone eucaristico, cioè il Canone Romano, e lo ridusse all’azione di benedizione e di grazie del prefazio e alle parole dell’Ultima Cena. Uno storico luterano così caratterizzò questa riforma liturgica di Lutero, dicendo che quella del canone “fu la più radicale delle riforme liturgiche di Lutero. Con un solo gesto ardito, su questo punto cambia completamente il carattere della liturgia. La santa Comunione diventa di nuovo un sacramento, o un dono di Dio, e non più un sacrificio fatto a Dio” (Reed. L.D., The Lutheran liturgy, Philadelphia 1947, pp. 340-341). Molte comunità anglicane usano esattamente la Seconda Preghiera Eucaristica del Novus Ordo Missae. Purtroppo, una grandissima parte dei sacerdoti cattolici usano esclusivamente la Seconda Preghiera Eucaristica. Se facciamo un'inchiesta tra il clero, potremmo essere sorpresi nell'apprendere che molti oramai considerano la Messa solo un banchetto. Questa tendenza protestantizzante è molto pericolosa e non possiamo negare questo. 

Nel nuovo rito si dà troppo importanza all'aspetto colloquiale, che distrugge il senso ieratico. Già all'inizio, il sacerdote fa il segno della croce guardando i fedeli, indebolendo la teocentricità, e c'è anche il fatto di fare commenti vari. Questo indebolisce il senso sublime della celebrazione liturgica. 

La diminuzione del carattere sacrificale è causata considerevolmente anche dalla forma della celebrazione versus populum. Oggi al 99% lo stile celebrativo è versus populum, ma questo già dal punto di vista visuale psicologico ci dà il senso di un raduno, intorno alla mensa, celebrando un banchetto. Se uno entra e magari non sa nulla della Messa, vedendo come si svolge la celebrazione della Messa direbbe che quello è un raduno intorno ad una mensa. 

Sul rapporto tra il carattere sacrificale della Messa e la moderna forma della tavola rivolta ai fedeli, il grande liturgista tedesco Mons. Klaus Gamber ha fatto la seguente rilevante osservazione: “Oggigiorno si vorrebbe evitare di dare l’impressione che la “tavola santa” (come viene chiamato l’altare in Oriente) sia un altare per il sacrificio. Senza dubbio è la stessa ragione per la quale, quasi dappertutto, si pone sull’altare un mazzo di fiori (uno solo), come sulla tavola da pranzo di una famiglia in un giorno di festa, insieme a due o tre ceri: questi quasi sempre a sinistra, il vaso dal lato opposto. L’assenza di simmetria è voluta: non bisogna creare dei punti di riferimento centrali, come quando si mettevano i candelieri alla destra ed alla sinistra della croce che stava in mezzo; qui si tratta solo di una tavola da pranzo. Non ci si mette dietro l’altare del sacrificio, ci si mette davanti; già il sacrificatore pagano faceva così, il suo sguardo era diretto verso la raffigurazione della divinità a cui si offriva il sacrificio; anche nel Tempio di Gerusalemme si faceva così: il sacerdote incaricato di offrire la vittima stava davanti alla “tavola del Signore”, come si chiamava il grande altare dell’olocausto nel cuore del Tempio (cfr. Malachia 1, 12), e questa “tavola del Signore” era collocata di fronte al tempio interno ove era custodita l’Arca dell’Alleanza, il Santo dei Santi, il luogo in cui dimorava l’Altissimo (cfr. Salmi 16, 15). Un pranzo si consuma con il padre di famiglia che presiede, in seno alla cerchia famigliare; mentre invece, in tutte le religioni, esiste una apposita liturgia per il compimento del sacrificio, liturgia che prevede che il sacrificio si compia all’interno o davanti ad un santuario (che può essere anche un albero sacro): il liturgo è separato dalla folla, sta davanti ai presenti, di fronte all’altare, rivolto alla divinità. In tutti i tempi, gli uomini che hanno offerto un sacrificio si sono sempre rivolti verso colui al quale il sacrificio era diretto e non verso i partecipanti alla cerimonia. Nel suo commento al libro dei Numeri (10, 27), Origène si fa interprete della concezione della Chiesa delle origini: “Colui che si pone dinanzi all’altare dimostra con ciò di svolgere le funzioni sacerdotali. Ora, la funzione del prete consiste nell’intercedere per i peccati del popolo” (Tournés vers le Seigneur!, Le Barroux 1992, pp. 26-27). La Messa come sacrificio dimostra e proclama il coronamento supremo del culto della vera religione, che è il cristianesimo cattolico. Il predicatore domenicano J.L. Monsabré ci ha lasciato la seguente commovente formulazione di questa verità: “Una Messa! Essa è il compendio di tutti i sacrifici antichi, nei quali si divideva la corrente degli atti religiosi che univano l’umanità al suo Dio: sacrificio unico, in pari tempo olocausto, ostia pacifica e vittima per il peccato. Una Messa! È il sacrificio della Croce che viene avvicinato a noi, per risparmiare alla nostra fede un faticoso ripensamento d’un passato lontano e sforzi troppo facilmente paralizzati dalla nostra debolezza o dalla nostra negligenza. Una Messa! è l’immolazione d’un Dio che ci vien posta, in certo senso, nelle mani, affinché vi prendiamo la parte. (…) Una Messa! è un Dio che adora, un Dio che ringrazia, un Dio che placa, un Dio che implora. Una Messa! essa è il coronamento supremo del nostro culto religioso” (Esposizione del dogma cattolico. Conferenze. Vol. XII: Eucaristia, Torino 1950, p. 155). 

La Messa come sacrificio è il vero sole del mondo, il parafulmine spirituale del mondo, il centro spirituale del mondo. La Messa cattolica è insopprimibile. Tante persecuzioni esterne durante duemila anni non la potevano distruggere. Ma anche alcuni persecuzioni fatte dentro della vita della Chiesa di oggi non potranno distruggere quella forma più antica, la forma costante, la forma liturgica più sicura e più espressivamente sacrificale della Messa.  

Citiamo le seguenti parole di profonda fede e di fuoco d’ardente amore per il Sacrificio della santa Messa del servo di Dio l’arcivescovo Fulton Sheen: “La Messa è per noi il coronamento del culto cristiano. Un pulpito sul quale si ripetono le parole del nostro Signore non ci unisce a Lui; un coro in cui si cantano dolci sentimenti non ci avvicina alla sua croce, ma solamente alle sue vesti. Un tempio senza un altare del sacrificio è inesistente tra i popoli primitivi e non ha senso tra i cristiani. E così nella Chiesa cattolica l'altare, e non il pulpito o il coro o l'organo, è il centro del culto, poiché viene rievocato il memoriale della sua passione. Il suo valore non dipende da chi lo dice o da chi lo ascolta; dipende da Colui che è l'unico Sommo Sacerdote e Vittima, Gesù Cristo nostro Signore. Con Lui siamo uniti, nonostante il nostro nulla; in un certo senso, per il momento perdiamo la nostra individualità; uniamo il nostro intelletto e la nostra volontà, il nostro cuore e la nostra anima, il nostro corpo e il nostro sangue, così intimamente con Cristo, che il Padre Celeste non ci vede tanto con la nostra imperfezione, ma piuttosto ci vede in Lui, il Figlio diletto nel quale Egli si è compiaciuto. La Messa è per questo motivo il più grande evento nella storia dell'umanità; l'unico atto santo che trattiene l'ira di Dio da un mondo peccaminoso, perché tiene la Croce tra il cielo e la terra, rinnovando così quel momento decisivo in cui la nostra triste e tragica umanità si è avviata all'improvviso verso la pienezza della vita soprannaturale. Ciò che è importante, a questo punto, è che assumiamo il giusto atteggiamento mentale verso la Messa e ricordiamo questo fatto importante, che il sacrificio della Croce non è qualcosa che è accaduto millenovecento anni fa. Sta ancora succedendo. Non è qualcosa di passato come la firma della Dichiarazione di Indipendenza; è un dramma costante sul quale il sipario non è ancora calato. Non si creda che sia successo molto tempo fa, e quindi non ci riguarda più di qualsiasi altra cosa nel passato. Il Calvario appartiene a tutti i tempi ea tutti i luoghi. (…) Non eravamo consapevoli di essere presenti lì sul Calvario quel giorno, ma Lui era cosciente della nostra presenza. Oggi conosciamo il ruolo che abbiamo svolto nel teatro del Calvario, dal modo in cui viviamo e agiamo ora nel teatro del ventesimo secolo. Ecco perché il Calvario è reale; perché la Croce è la crisi; perché in un certo senso le cicatrici sono ancora aperte; perché il dolore è ancora divinizzato e perché il sangue come stelle cadenti sta ancora gocciolando sulle nostre anime. Non si può sfuggire alla Croce nemmeno negandola come facevano i farisei; nemmeno vendendo Cristo come fece Giuda; nemmeno crocifiggendolo come fecero i carnefici. Lo vediamo tutti, o per abbracciarlo nella salvezza, o per fuggire da esso nell'infelicità. Ma come si rende visibile? Dove troveremo il Calvario perpetuato? Troveremo il Calvario rinnovato, rievocato, ripresentato, come abbiamo visto, nella Messa. Il Calvario è uno con la Messa, e la Messa è uno con il Calvario, perché in entrambi c'è lo stesso Sacerdote e Vittima. Le sette ultime parole sono come le sette parti della Messa. E proprio come ci sono sette note nella musica che ammettono un'infinita varietà di armonie e combinazioni, così anche sulla Croce ci sono sette note divine, che il Cristo morente ha risuonato nel corso dei secoli, che si combinano per formare la bellissima armonia della redenzione del mondo. Ogni parola fa parte della Messa. La Prima Parola, "Perdona", è il Confiteor; la Seconda Parola, "Oggi tu sarai in paradiso", è l'Offertorio; la Terza Parola, "Ecco tua madre", è il Sanctus; la Quarta Parola, "Perché mi hai abbandonato", è la Consacrazione; la Quinta Parola, "Ho sete", è la Comunione; la Sesta Parola, "È finito", è l'Ite, Missa Est; la settima parola, "Padre, nelle tue mani", è l'ultimo Vangelo. Immaginate quindi il Sommo Sacerdote Cristo che lascia la sacrestia del cielo per l'altare del Calvario. Ha già rivestito la veste della nostra natura umana, il manipolo della nostra sofferenza, la stola del sacerdozio, la casula della Croce. Il Calvario è la sua cattedrale; la roccia del Calvario è la pietra dell'altare; il sole che diventa rosso è la lampada del santuario; Maria e Giovanni sono gli altari laterali viventi; l'ostia è il suo corpo; il vino è il suo sangue. È retto come sacerdote, ma è prostrato come vittima. La sua messa sta per iniziare” (Calvary and the Mass. A Missal Companion. New York 1936, pp. 5-7).

 


(da "La Messa cattolica. Passi per ripristinare la centralità di Dio nella liturgia " di Athanasius Schneider
Capitolo IV "La Messa è un Sacrificio" - seconda parte)

La Messa è un sacrificio. Da: "La Messa cattolica. Passi per ripristinare la centralità di Dio nella liturgia" Athanasius Schneider - Prima parte

La santa Messa è il Sacramentum Crucis, questa è la definizione essenziale della Messa. 
Se la santa Messa è il Sacramentum Crucis, dobbiamo vedere cosa è il sacramento. 
 
 

Il sacramento è un segno percepibile ai sensi che indica, e produce indicando, la realtà a cui si riferisce. In questo modo, le due specie separate, pane e vino, indicano la realtà della separazione del Corpo e del Sangue di Cristo sulla Croce, cioè indicano la realtà dell'atto del sacrificio della Croce. Indicando questa realtà, i segni sacramentali producono – come dicono i teologi – questa realtà in modo sacramentale. 

La santa Messa è la forma sacramentale del sacrificio del Golgota. Possiamo anche dire che la santa Messa è la presenza reale del sacrificio del Golgota, la presenza reale del corpo immolato e del sangue versato di Cristo
Questo atto di sacrificio è il più grande atto avvenuto e che mai avverrà nella storia umana. Il sacrificio, in senso biblico, è l'atto più grande di amore e questo atto è stato fatto non semplicemente da un uomo, ma dal Dio-uomo. 

A causa dell'unione ipostatica, questo atto del sacrificio della Croce, un atto primariamente interiore, ma allo stesso tempo anche un atto visibile, è stato compiuto dalla seconda persona della Santissima Trinità, questo atto va ascritto alla persona e non alla natura, e quindi ascritto alla persona Divina di Gesù Cristo. 

L’atto del sacrificio di Cristo sulla Croce è stato un atto divino e umano. Come insegna il Concilio di Calcedonia, le due nature in Cristo, la natura divina e umana sono unite senza confusione delle nature, senza la mutazione delle nature, senza la divisione delle nature e senza la separazione delle nature. L’atto di sacrificio sulla Croce è primariamente la più alta espressione dell'amore del Figlio di Dio incarnato, Cristo, al Padre e allo stesso tempo è la più alta espressione dell'amore di Cristo Redentore per noi uomini. 

Si potrebbe dire che il sacrificio della Croce è una liturgia divina, come dice la Lettera agli Ebrei (9, 14): "Quanto più il sangue di Cristo, che per lo Spirito Santo offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente?". In questo sacrificio, tutte e tre le persone della Santissima Trinità erano in qualche modo impegnate. La santa Messa è lo stesso sacrificio divino-umano di Cristo, coinvolgendo, però, la Chiesa “hic et nunc”, cioè in questo concreto luogo e tempo, per dare a tutti i membri del Corpo Mistico di Cristo la possibilità di partecipare in modo sacramentale, ma reale, e in questo unico, al sempre-attuale ed eterno atto di offerta d’amore sacrificale del Dio incarnato. 

San Giovanni Crisostomo, il dottore eucaristico, ci lasciò questa spiegazione di profondo senso spirituale e teologico sull’identità tra il sacrificio della Croce e della santa Messa

Cristo si è offerto una volta e per sempre ... Ma non lo offriamo tutti i giorni? Sì, offriamo, ma per commemorare la morte di Cristo. È unico, non multiplo. In effetti, è stato offerto solo una volta. Il sommo sacerdote entrava nel Sancta Sanctorum una volta all'anno: lì c'è una figura, con ciò che le corrisponde. È la stessa vittima che offriamo sempre, non oggi una pecora e domani un'altra; ma sempre la stessa vittima. Ecco perché il sacrificio è uno. Se Cristo è offerto in più luoghi, significa che ci sono diversi Cristi? No, l'unico Cristo è ovunque, è intero qua e là, ha un corpo unico. E poiché quello offerto in più luoghi è un corpo e non più corpi, così il sacrificio è unico. Il nostro Pontefice ha offerto il sacrificio che ci purifica. E ora offriamo ancora lo stesso sacrificio che veniva offerto una volta e che non può essere distrutto. Lo facciamo in memoria di quanto è stato fatto. Non offriamo un altro sacrificio, come ha fatto il sommo sacerdote (dell’antica Legge), ma sempre lo stesso; o meglio, è una commemorazione del sacrificio che facciamo” (In Epist. ad Hebr., hom.17, 3). 

San Leonardo da Porto Maurizio diceva che la santa Messa 

non solo è copia, ma è l’originale medesimo del sacrificio della Croce: molto di più lo rivela l’aver per sacerdote un Dio fatto uomo. … Ecco il rilievo meraviglioso, che per tutte e tre queste considerazioni fa la santa Messa: il sacerdote che offre è un uomo Dio, Cristo Gesù; la vittima è la vita di un Dio; né ad altri si offre, che a Dio” (Il Tesoro nascosto. Ovvero pregi ed eccellenze della santa Messa con un modo pratico e devoto per ascoltarla con frutto, Frigento 2011, pp. 14-15). 

San Tommaso d’Aquino ha formulato la verità del carattere sacrificale del sacramento eucaristico in modo preciso con queste parole: 

Essendo il sacramento della Passione del Signore, l’Eucaristia contiene in se stessa Cristo che ha sofferto. Questa è la ragione per cui l’effetto della Passione del Signore è anche l’effetto di questo sacramento. Questo sacramento non è altra cosa che l’applicazione della Passione del Signore per noi” (Commento al vangelo di san Giovanni 6, 52). 

Il vescovo Bossuet, considerando le obiezioni dei Protestanti, ribadiva la verità dell’unicità e perfezione del sacrificio della Croce e della sua celebrazione sacramentale nella santa Messa, dicendo: 

Non è quindi qui, come vi hanno fatto credere i vostri ministri (Protestanti), un supplemento al sacrificio della Croce; non ne è una reiterazione, come se fosse imperfetta. Al contrario, supponendo che sia molto perfetto, è un'applicazione perpetua simile a quella che Gesù Cristo ne fa ogni giorno in cielo agli occhi del Padre, o meglio ne è una continua celebrazione: non stupitevi se lo chiamiamo in un certo senso sacrificio di redenzione, secondo questa preghiera che vi facciamo: concedici, o Signore, di celebrare questi misteri in santità; perché ogni volta che commemoriamo questa ostia, esercitiamo l'opera di redenzione (Secreta della nona domenica dopo la Pentecoste); vale a dire che applicandolo lo continuiamo e lo consumiamo” (Explication de quelques difficultéssur les prières de la Messea un nouveau catholique. Oeuvres de Bossuet. Tome XIII, Besançon 1841, p. 52). 

Il Magistero della Chiesa ci insegna in modo chiaro e sicuro la verità sul carattere essenzialmente sacrificale della santa Messa e sull’identità tra il sacrificio della Croce e quello della santa Messa. 
Il Concilio di Trento diceva: 
Si tratta infatti di una sola e identica vittima e lo stesso Gesù la offre ora per il ministero dei sacerdoti, egli che un giorno offrì se stesso sulla croce: diverso è solo il modo di offrirsi” (Sess. XXII, Doctrina de ss. Missae sacrificio, cap. 2). 
La Messa è la viva rappresentazione del sacrificio della Croce, come diceva san Tommaso d’Aquino: “Celebratio autem huius sacramenti . . . imago quaedam est repraesentativa passionis Christi quae est vera eius immmolatio” (S. th., III, q. 83, a. 1, ad 2). 
 
Papa Pio XII spiega il significato corretto di ciò che significa la “commemorazione” del sacrificio della Croce nella Messa: 
L'augusto sacrificio dell'altare non è, dunque, una pura e semplice commemorazione della passione e morte di Gesù Cristo, ma è un vero e proprio sacrificio, nel quale, immolandosi incruentamente, il Sommo Sacerdote fa ciò che fece una volta sulla Croce offrendo al Padre tutto se stesso, vittima graditissima” (Enciclica Mediator Dei).

 Nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia di papa Giovanni Paolo II leggiamo la seguente ammirabile spiegazione: 

La Chiesa vive continuamente del sacrificio redentore, e ad esso accede non soltanto per mezzo di un ricordo pieno di fede, ma anche in un contatto attuale, poiché questo sacrificio ritorna presente, perpetuandosi sacramentalmente, in ogni comunità che lo offre per mano del ministro consacrato. In questo modo l'Eucaristia applica agli uomini d'oggi la riconciliazione ottenuta una volta per tutte da Cristo per l'umanità di ogni tempo. In effetti, «il sacrificio di Cristo e il sacrificio dell'Eucaristia sono un unico sacrificio» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1367). Lo diceva efficacemente già san Giovanni Crisostomo: «Noi offriamo sempre il medesimo Agnello, e non oggi uno e domani un altro, ma sempre lo stesso. Per questa ragione il sacrificio è sempre uno solo. [...] Anche ora noi offriamo quella vittima, che allora fu offerta e che mai si consumerà» (Omelie sulla Lettera agli Ebrei, 17, 3). La Messa rende presente il sacrificiodella Croce, non vi si aggiunge e non lo moltiplica. Quello che si ripete è la celebrazione memoriale, l'«ostensione memoriale» (memorialis demonstratio: Pio XII, Lett. enc. Mediator Dei) di esso, per cui l'unico e definitivo sacrificio redentore di Cristo si rende sempre attuale nel tempo. La natura sacrificale del Mistero eucaristico non può essere, pertanto, intesa come qualcosa a sé stante, indipendentemente dalla Croce o con un riferimento solo indiretto al sacrificio del Calvario” (n. 12). 

Il grande teologo Romano Mons. Antonio Piolanti ha riassunto la verità del carattere sacrificale della santa Messa con l’espressione “altare plenitudo Crucis”, spiegando: 

In un candido disco di pane azimo e in una gemma di vino è racchiuso il mistero della Croce. L’unico sacrificiodella Redenzione nel molteplice rito della Messa si dilata, ma non si moltiplica, si effonde, ma non si disperde, e a contatto con il multiplo non si disgrega, ma aggrega, reso coestensivo a tutti i tempi e a tutti i luoghi, li unifica. La Messa è il prolungamento, il pleroma della Croce: Altare plenitudo Crucis: è la Croce, che s’avanza nei secoli: Fulget crucis mysterium” (Il Mistero Eucaristico, Firenze 1955, p. 373).

 L’essenza del Sacrificio della Messa sta nell’oblazione interna ed esterna del Corpo e del Sangue di Cristo, congiunta all’immolazione mistica, fatta a nome di Cristo dai suoi ministri, i sacerdoti. 
 
Papa Pio XII così spiegò questa verità: 
Il Sacrificio Eucaristico consiste essenzialmente nella immolazione incruenta della Vittima divina, immolazione che è misticamente manifestata dalla separazione delle sacre specie e dalla loro oblazione fatta all'Eterno Padre” (Enciclica Mediator Dei). 
 
Bossuet ci ha lasciato la seguente mirabile e precisa spiegazione: 
Hoc est corpus, quod pro vobis datur; in S. Luca conserva il tempo presente, affinchécomprendessimo, non solamente che Gesù Cristo dicendo: Questo è il mio Corpo, intendeva parlare di quello stesso Corpo che egli era in procinto di dare per noi; ma altresì ch’egli intendeva di dire che quel medesimo Corpo, che stava per essere offerto e dato per noi, lo era già in anticipo della consacrazione eucaristica, e lo sarà ogni qualvolta verrà celebrato questo sacrificio. Crediamo dunque, non soltanto che il Corpo di Gesù Cristo doveva essere dato per noi sulla Croce, e lo è stato fatto; ma anche, che ogni qualvolta si pronunziano queste parole, in virtù di queste parole esso è dato attualmente per noi. (…) Gesù è morto una volta, e non ha potuto essere offerto che una sola volta in tal modo. Ma ciò che egli ha fatto una volta in tal modo, offrendosi, cioè, tutto insanguinato e tutto coperto di piaghe, e dando la sua Anima con tutto il suo Sangue, egli lo continua tutti i giorni in un modo nuovo nel cielo(…) e nella sua Chiesa, dove tutti i giorni egli si rende presente sotto le apparenze della morte(…) Eccolo là dunque; egli è presente; le parole hanno avuto il loro effetto; ecco Gesù ugualmente presente come lo è stato sulla Croce, dove egli apparve per noi con l’oblazione di se stesso, ugualmente presente com’è nel cielo, dove egli compare ancora per noi dinanzi al volto di Dio. Questa consacrazione, questa sacra cerimonia, questo culto pieno di Sangue, e tuttavia non sanguinoso, dove la morte è dappertutto, e dove nondimeno l’Ostia è vivente, è il vero culto dei cristiani, sensibile e spirituale, semplice ed augusto, umile e magnifico ad un tempo” (Méditations sur l´Evangile, Paris 1839, pp. 641-642). 
Il sacrificio della Croce ci parla dell'amore più fecondo, i suoi frutti sono infiniti, perché compiuti da una Persona divina. Nella santa Messa Cristo è il principale attuale offerente, che continua ad offrirsi internamente con quel medesimo atto, col quale Egli si offrì sulla Croce, come lo spiegò R. Garrigou-Lagrange: “Questa volizione ed offerta, come la visione beatifica e l’amore beatifico, perdura in Cristo attuale senza interruzione, e perciò senza moltiplicazione di atti” (De Eucharistia, Roma 1943, p. 297). 
 
Questi frutti del sacrificio della Croce si applicano per tutti i nostri bisogni, in primo luogo per la purificazione e santificazione della nostra anima. Il frutto, però, più bello è la sacra Comunione. Dall’albero della croce noi cogliamo il frutto più bello, più vivificante, il frutto eterno che è il Corpo immolato e il Sangue versato di Cristo, offerti a noi come nostro vero alimento spirituale e come medicina dell’immortalità, pegno della nostra risurrezione. 
La sacra Comunione ci fa vedere la connessione intima tra sacrificio e banchetto. Tutti i fedeli sono chiamati ad unirsi all’atto di oblazione di Cristo Sommo ed Eterno Sacerdote, il quale agisce per mezzo dei suoi sacerdoti. 
Papa Pio XII sintetizzò mirabilmente questa verità con le seguenti parole: 
 
Gesù Cristo, infatti, volle che questa mirabile unione, mai abbastanza lodata, per la quale veniamo congiunti tra di noi e col divino nostro Capo, si manifestasse ai credenti in modo speciale per mezzo del Sacrificio Eucaristico. In esso, infatti, i ministri dei Sacramenti non solo rappresentano il Salvatore nostro, ma anche tutto il corpo mistico e i singoli fedeli; in esso i fedeli, uniti al sacerdote nei voti e nelle preghiere comuni, per le mani dello stesso sacerdote offrono all’Eterno Padre, quale ostia graditissima di lode e di propiziazione per i bisogni di tutta la Chiesa, l’Agnello immacolato, dalla voce del solo sacerdote reso presente sull’altare.E come il divin Redentore, morendo in Croce, offrì all’eterno Padre Se stesso quale Capo di tutto il genere umano, così "in questa oblazione pura" (Mal. I, 11), non offre quale Capo della Chiesa soltanto se stesso, ma in se stesso offre anche le sue mistiche membra, poiché egli nel suo Cuore amantissimo tutte le racchiude, anche se deboli e inferme” (Enciclica Mystici Corporis). 
Molti si sorprendono sul fatto che Dio amore ha bisogno di un sacrificio per la nostra redenzione, un'idea che ad alcuni ai nostri tempi ripugna. La Sacra Scrittura dice: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3, 16). Dare qualcosa di sé è già un sacrificio e questa è una cosa buona. Uno che non da se stesso è un'egoista che è il contrario dell'amore autentico. 
Quindi il sacrificio, l’auto-oblazione, è necessario per esprimere l'amore autentico. Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, come ci dice san Paolo: “Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi” (Rm. 8, 32). Dare qualcosa per un giusto è già buono, ma dare qualcosa per gli indegni, i peccatori è il più alto segno dell'amore disinteressato, come scrive san Paolo: “Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm. 5, 8). 
 
San Tommaso d’Aquino dice: 
Che Cristo abbia patito volontariamente fu un bene così grande, che per codesto bene riscontrato nella natura umana Dio si è placato per tutte le offese ricevute dal genere umano, rispetto a quanti sono uniti al Cristo sofferente. (…) La Passione di Cristo ebbe maggiore efficacia nel riconciliare Dio con tutto il genere umano, di quanto l'ebbe nell'eccitarne lo sdegno” (S. th., III, 49, 4, c; ad 3). “Poiché il peccato commesso contro Dio acquista una certa infinità dalla infinità della maestà divina: l'offesa infatti è tanto più grande, quanto più grande è la persona verso cui si manca; era necessario per una soddisfazione adeguata che l'azione del riparatore avesse un'efficacia infinita, quale è appunto l'azione di un uomo-Dio” (S. th., III, 1, 2, ad 2). 
Noi uomini, feriti dal peccato originale, siamo piagati dall'egoismo, che è alla radice di tutti i peccati. Per sanare questo, Dio ci ha rivelato che cosa è l'amore. Ha dato il massimo di ciò che poteva, il suo proprio Figlio. Lo stesso Signore ha detto: "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici" (Gv 15, 13). Queste parole divine ci spiegano cosa è l'amore. Da un punto di vista semplicemente naturale ci è difficile capire cosa è l'amore nella sua pienezza. A questo livello naturale avremmo sempre un concetto deficitario dell'amore, ecco perché abbiamo bisogno della rivelazione divina, che ci dimostra in che consiste l’amore autentico. 
 
Poi c'è l'aspetto della misericordia. L'amore di Dio rivelato è essenzialmente un amore misericordioso. Nel suo amore misericordioso il Dio incarnato offre per noi la Sua vita umana, fino all'ultima goccia del Suo sangue. In questo sacrificio di amore, la natura umana di Cristo è pienamente coinvolta in modo che Egli anche con la Sua volontà umana consente amorosamente al sacrificio della Sua vita umana sulla Croce, come si vede nella Sua preghiera nell’orto di Getsemani. Con questo Suo amore misericordioso Cristo sana le ferite del nostro amor proprio. Egli ci ha fatto capaci di attingere alla nostra felicità più alta, tutta la nostra vita cristiana consiste in questo: raggiungere quell'amore che Dio stesso ci ha insegnato, perché nell'eternità la nostra partecipazione nell’amore Divino ci darà la felicità eterna, la beatitudine eterna, la visio beatifica, la visione e fruizione dell’amore Divino. 
Facciamo un esempio: è accaduto che una mamma, durante il parto, dovendo scegliere tra la vita del figlio e la sua (per ragioni mediche), sceglie di morire per far vivere il figlio. Ecco, questo amore è uno degli esempi più alti dell'amore, dopo quello divino. L'amore materno ci dà già un esempio a livello naturale di questo grande amore Divino. Il profeta Isaia (49, 15) dice: "Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai". Quindi, l’umano amore materno ha la sua radice e il suo sublime esempio nell’amore che Dio ha per gli uomini.

 (Qui la seconda parte)

(da "La Messa cattolica. Passi per ripristinare la centralità di Dio nella liturgia " di Athanasius Schneider
Capitolo IV "La Messa è un Sacrificio" - prima parte)

 

giovedì 30 maggio 2024

La festività del Corpus Domini e il dogma della Transustanziazione

 

Correva l'anno 1264. Il Papa Urbano IV aveva fatto convocare una selezionata assemblea che riuniva i più famosi maestri di Teologia di quel tempo. Tra questi si trovavano due uomini noti non soltanto per la brillante intelligenza e purezza della dottrina ma, soprattutto, per l'eroicità delle loro virtù: San Tommaso d'Aquino e San Bonaventura.
Gonfalone del Corpus Domini di Raffaello
La ragione di questa convocazione era collegata ad una recente bolla Pontificia che istituiva una festa annuale in onore del Santissimo Corpo di Cristo. Al fine di ottenere il massimo splendore per questa commemorazione, Urbano IV desiderava che fosse composto un Ufficio, da utilizzare unicamente nella Messa cantata in occasione di quella solennità, sollecitando ad ognuna di quelle dotte personalità una composizione che doveva essergli presentata entro pochi giorni, in modo da scegliere la migliore.
Celebre divenne l'episodio avvenuto durante la sessione. Il primo ad esporre fu Fra' Tommaso. Con serenità e calma, srotolò una pergamena e i presenti ascoltarono la declamazione della Sequenza da lui composta:
Lauda Sion Salvatorem, lauda ducem et pastorem in hymnis et canticis (Loda, Sion, il Salvatore, la tua guida, il tuo pastore con inni e cantici)…

Stupore generale.

Fra' Tommaso concluse: …tuos ibi commensales, cohæredes et sodales, fac sanctorum civium (accoglici in Cielo, alla Tua mensa, e rendici coeredi in compagnia di coloro che abitano la Città Santa).
Fra' Bonaventura, degno figlio del Poverello, cancellò senza indugio la propria composizione e gli altri lo imitarono, rendendo tributo al genio e alla devozione dell'Aquinate. La posterità non conobbe le altre opere, senza dubbio anch'esse sublimi, ma immortalò il gesto dei suoi autori, vero monumento di umiltà e di poche pretese.
La festa liturgica del Corpus Domini ha origine a metà del 1200 quando, mentre i movimenti evangelici che nascevano nel laicato del nord d'Italia e del sud della Francia, come gli albigesi, negavano che l'Eucaristia fosse un sacramento, i movimenti popolari dei paesi del nord Europa, soprattutto in Belgio, propugnavano un'intensa devozione per l'ostia consacrata.
 
Si era diffusa l'usanza di conservare il Santissimo nel tabernacolo, di esporre l'ostia in un ostensorio posto sull'altare, qualche volta anche durante la Messa, di suonare un campanello al momento dell'elevazione affinché tutti i fedeli contemplassero l'Eucaristia e di impartire la benedizione col Santissimo Sacramento. La devozione per il «Corpo del Signore» divenne così intensa che nell'estate del 1246, a Liegi il vescovo ne autorizzò il culto legandolo anche a una speciale festività, da celebrarsi il primo giovedì successivo alla domenica dopo Pentecoste, festa della Santissima Trinità.

La Santa Sede ricevette numerose petizioni perché la festa del Corpus Domini fosse estesa a tutta la Chiesa, ma, pur essendo al corrente dell'esistenza del movimento eucaristico belga, papa Urbano IV e i suoi predecessori non si mossero finché la gente in Italia non ebbe il suo miracolo, il famoso «miracolo di Bolsena», che ne destò il fervore nei confronti del sacramento.

Miracolo eucaristico di Bolsena (Raffaello)
 
Il racconto più antico di questo miracolo è contenuto nella Chronica (III, tit. 19, cap. 13) di S. Antonino da Firenze († 1459). 
Secondo tale versione, un prete tedesco che si era recato in pellegrinaggio a Roma, stava celebrando la Messa nella chiesa di S. Cristina nella cittadina umbra di Bolsena; egli era assalito da gravi dubbi sulla transustanziazione del pane e del vino, che furono subito fugati alla visione del sangue che colava dalle specie consacrate e che imbeveva il corporale. 
Presto si sparse per tutto il villaggio la voce del miracolo e subito si formò una processione per portare il corporale macchiato di sangue a Urbano IV, che si trovava allora a Orvieto, a pochissima distanza da Bolsena. È opinione universale che risalga a quell'epoca la decisione di Urbano di estendere in tutto il mondo la festa del Corpus Domini.

Nella sua cronaca, pubblicata fra il 1312 e il 1317, Tolomeo fa un racconto molto chiaro e particolareggiato:
Per ordine dello stesso papa, fra Tommaso compose anche l'Ufficio per il Corpus Domini. (Egli) scrisse l'Ufficio per il Corpus Domini per intero, incluse le lezioni e tutte le parti da recitare di giorno o di notte; come anche la Messa e tutto ciò che in quel giorno si deve cantare. Il lettore attento si accorgerà che vi ricorrono tutte le figure simboliche dell'Antico Testamento, collegate in modo chiaro e appropriato al sacramento dell'Eucaristia.
Le antifone, le orazioni e la sequenza sono senz'altro ancora quelle originali. La sequenza della messa è veramente straordinaria, tanto da non poter neppure essere paragonabile con i canti o gli inni precedenti. Il canto del Lauda Sion è infatti notevole non solo per la poesia che lo pervade ma anche per il suo contenuto teologico; le singole strofe seguono da vicino la dottrina sull'eucaristia esposta da san Tommaso nella terza parte della Summa Theologiae.
La sequenza riecheggia antichi motivi, nessuno dei quali può però vantare la stessa bellezza e profondità.
 
Riportiamo di seguito la magnifica sequenza in traduzione italiana.
Sequenza del Corpus Domini
  1. Sion, loda il Salvatore, la tua guida, il tuo pastore con inni e cantici.
  2. Impegna tutto il tuo fervore: egli supera ogni lode, non vi è canto che sia degno.
  3. Pane vivo, che dà vita: questo è tema del tuo canto, oggetto della lode.
  4. *Veramente fu donato agli apostoli riuniti in fraterna e sacra cena.*
  5. Lode piena e risonante, gioia nobile e serena sgorghi oggi dallo spirito.
  6. Questa è la festa solenne nella quale celebriamo la prima sacra cena.
  7. È il banchetto del nuovo Re, nuova Pasqua, nuova legge; e l'antico è giunto a termine.
  8. *Cede al nuovo il rito antico, la realtà disperde l'ombra: luce, non più tenebra.*
  9. Cristo lascia in sua memoria ciò che ha fatto nella cena: noi lo rinnoviamo.
  10. Obbedienti al suo comando,consacriamo il pane e il vino, ostia di salvezza.
  11. *È certezza a noi cristiani: si trasforma il pane in carne, si fa sangue il vino.*
  12. *Tu non vedi, non comprendi, ma la fede ti conferma, oltre la natura.*
  13. *È un segno ciò che appare: nasconde nel mistero realtà sublimi.*
  14. *Mangi carne, bevi sangue; ma rimane Cristo intero in ciascuna specie.*
  15. *Chi ne mangia non lo spezza, né separa, né divide: intatto lo riceve.*
  16. *Siano uno, siano mille, ugualmente lo ricevono: mai è consumato.*
  17. Vanno i buoni, vanno gli empi; ma diversa ne è la sorte: vita o morte provoca.
  18. Vita ai buoni, morte agli empi: nella stessa comunione ben diverso è l’esito!
  19. *Quando spezzi il sacramento non temere, ma ricorda: Cristo è tanto in ogni parte,
  20. quanto nell’intero.*
  21. *È diviso solo il segno non si tocca la sostanza; nulla è diminuito della sua persona.*
  22. Ecco il pane degli angeli, pane dei pellegrini, vero pane dei figli: non dev’essere gettato.
  23. Con i simboli è annunziato, in Isacco dato a morte, nell'agnello della Pasqua, nella manna data ai padri.
  24. Buon pastore, vero pane, o Gesù, pietà di noi: nutrici e difendici, portaci ai beni eterni nella terra dei viventi.
  25. Tu che tutto sai e puoi, che ci nutri sulla terra, conduci i tuoi fratelli alla tavola del cielo nella gioia dei tuoi santi.

La traduzione italiana delle prime parole di questi versi è "È certezza a noi cristiani" ma l'originale latino recita "Dogma datur Christianis" perché ciò che si appresta a descrivere è il dogma eucaristico per antonomasia, il dogma della Transustanziazione, cioè che con la consacrazione eucaristica, la sostanza del pane e del vino si trasforma in Corpo e Sangue di Cristo mantenendo le apparenze e le caratteristiche esterne. Infatti il Santo Dottore scrive: "Tu non vedi, non comprendi, ma la fede ti conferma".

"Mangi carne, bevi sangue: ma rimane Cristo intero in ciascuna specie": Cristo è intero IN CIASCUNA SPECIE, non è necessario fare la comunione sotto ambedue le specie (eresia utraquista) quasi come se la particola consacrata non fosse Corpo e Sangue di Cristo.

L'inno Lauda Sion.

mercoledì 29 maggio 2024

Don Dolindo Ruotolo: siamo tempio di Dio più del creato con le sue meraviglie

L’anima, tempio di Dio

Non sapete che siete il tempio di Dio — esclama san Paolo — e che lo Spirito Santo abita in voi? Se infatti qualcuno violerà il tempio di Dio, Dio lo disperderà, poiché santo è il tempio di Dio che siete voi (1a Corinzi 1,16-17). 

 


Queste grandi parole dell’Apostolo dobbiamo scolpirle nell’anima nostra perche le ponderi in ogni attività della vita, e nel nostro cuore perché le viva in ogni manifestazione dei suoi affetti. Non sono parole poetiche o approssimative, sono parole reali e precise, poiché Dio ci sostenta completamente nella vita, ci custodisce e ci vivifica come mamma nel suo seno, si effonde in noi e in noi compie le opere più belle della sua potenza, della sua sapienza e del suo amore per le effusioni del suo Spirito.

Siamo tempio di Dio assai più di quello che non lo sia il creato con le sue stupende meraviglie, perché in noi il Signore non manifesta solo un raggio limitato della su potenza, ma in noi compie meraviglie di grazia immensamente superiori alle armonie dei cieli. 
Se un uomo potesse con un macchinario speciale turbare il corso degli astri, e produrre un disordine in quell’ordine matematico ineffabile, se violasse l’armonia delle leggi che li regolano nel lo. ro corso, commetterebbe un delitto spaventoso. Assai più spaventoso è il delitto che commette chi viola l’armonia della grazia nell’anima sua, rendendo vane in lui tutte le effusioni dell’eterno Amore.


Il peccato, e soprattutto il peccato impuro, è una violazione del tempio di Dio che siamo noi, poiché profana quelle membra che sono ordinate alla gloria di Dio, e devia l’anima dal suo ordine, assai più che se deviasse un astro dalla sua orbita. Potrebbe leggersi nel tempio di Dio una parola stolta o oscena? Potrebbe compiersi un’azione materiale o indegna? Potrebbe esso mutarsi in un ritrovo di immondi piaceri o in un deposito d’immondizie?

Noi siamo terrorizzati di quello che hanno fatto i comunisti in Russia e dove hanno esteso il loro tristo e bieco dominio: essi hanno mutato le chiese in stalle, in ritrovi d’impurità, in officine, in depositi, in sale da ballo; ma quando un cristiano pecca fa forse qualche cosa di diverso nell'anima sua? Non è essa una stalla dove si raccolgono le sue animalesche passioni? Non è un ritrovo d’impurità dove si raccolgono gli affetti più immondi delle creature? Non è come un’officina dove non si tratta che di materia e di interessi materiali? Non è un deposito d’ignominie e una sala di divertimento, dove si accumulano le immondizie di una vita insulsa, e dove l’anima si perde tra i bagordi di una vita fatua? 
C’è forse il tabernacolo eucaristico in questo tempio dove Gesù non è accolto mai? C’è forse il tribunale di penitenza quando l’anima non vi si accosta mai e marcisce nelle sue colpe? C'è l’organo e l’incenso se essa non canta a Dio e non prega?


L’anima peccatrice è un tempio violato: le sue mura sono cadenti, gli altari sono abbattuti, il terriccio ingombra ogni parte della navata, e nel terriccio immondezze, e rifiuti di ogni genere.

Vi si rifugiano gli animali, è ridotta una stalla; vi concorrono i ragazzacci, è ridotto una piazza, vi domina l’abominazione della desolazione, sintomo d’un imminente flagello di Dio.

Gli spettri della bomba atomica

Il più terribilmente desolante è questo che nessuno si cura di un tempio devastato, e nessuno pensa che esso da solo può attrarre i più gravi castighi divini. Noi viviamo tra le macerie spaventose di milioni di templi profanati, e non ci facciamo caso. Passiamo indifferentemente tra queste macerie sulle quali errano paurosamente come spettri tutte le opere della grazia distrutte dal peccato. Se osservassimo un’anima, tempio vivo di Dio, devastata dal peccato, noi vedremmo e osserveremmo in essa le opere dello Spirito Santo profanate e rese vane dal peccato, fuggire quasi tra quelle macerie morali; vedremmo una gran luce di fede spenta già dall’apostasia, un orizzonte mirabile di speranze svanire tra le fosche nubi della tempesta interiore, vedremmo fiamme di carità soprannaturale inabissate in laghi di fango; vedremmo iridi smaglianti di sapienza annebbiate da densi fumi di stoltezza e di orgoglio, lampi di sovrana intelligenza spenti tra paurosi abissi di follie, vedremmo disegni mirabili e ricami delicati di ordine, scompaginati da una furia devastatrice, forze potenti abbattute e inerti, vedremmo un cielo splendente di stelle improvvisamente costellato di volute di fumo nero e puteolente, la scienza divina sostituita con le fumogene indagini umane, senza guida e senza vita, erranti come poveri cocchi sbandati, tirati da cavalli furiosi, che vanno a precipizio e si fracassano contro gli ostacoli; vedremmo abbattuti gli altari dell’adorazione e del sacrificio.

Occorrerebbe una nuova vena poetica, un Omero novello, per gemere con parole vibranti sulle rovine di un’anima, tempio di Dio profanato, disperso dalla sua potenza e dalla sua giustizia.

Siamo gelosi della custodia del nostro tempio interiore e dei doni, delle grazie e dei ricami che in esso vi compie lo Spirito Santo, e pensiamo che Dio lo ha reso santo con l’unzione del suo Spirito! Custodiamolo puro, chiudiamo le sue porte al mondo, e non permettiamo a nessuno di violarlo, poiché è santo, è tutto consacrato a Dio, e non può essere riservato che a Lui. Vestiamo questo corpo col rispetto col quale si pongono le tovaglie sull’altare e il conopeo al santo tabernacolo eucaristico; presentiamo a Dio quest'anima come un’ostia che dev'essere consacrata, custodiamola dal mondo come si custodisce una pisside piena di Gesù Sacramentato, come si custodiscono i santi oli sacramentali, e doniamoci a Dio nella pace e nell’ordine della vita santa, lodando e benedicendo il suo Nome.

Nel lavarci e segnarci di croce preghiamolo che ci faccia benedire il suo Nome, e la nostra giornata terrena sia come una salmodia di lodi, un canto di amore, un sacrificio perenne offerto all’Eterno. 
Tutto ciò che troviamo nella vita sia per noi perché noi siamo di Gesù Cristo, e per Lui siamo di Dio. Serviamoci di tutto soprannaturalmente, facendo servire tutto per la gloria di Dio, e non ci gloriamo degli uomini e delle cose terrene che sono vanità, ma gloriamoci di Dio che è il nostro tutto e il nostro fine.

Don Dolindo Ruotolo.
Commento alla Prima Lettera ai Corinzi


 

domenica 26 maggio 2024

Destino dell'uomo e fine dei tempi - Luis Ladaria: epoca patristica

"Destino dell’uomo e fine dei tempi"

di Luis F. Ladaria 

(da: Storia dei Dogmi "L'uomo e la sua salvezza" V-XVII secolo - Capitolo Ottavo: pp. 361- 384)

La risurrezione di Gesù ha aperto a quanti credono in lui la speranza di risorgere con lui al momento della sua seconda venuta. Con questa risurrezione gli ultimi tempi sono arrivati e i primi credenti vivono rivolti verso l’avvenire, nell’attesa di una prossima fine del mondo. La signoria del Cristo risorto, a cui il Padre ha sottomesso ogni cosa, rimane nascosta ancora per un po’ di tempo. Ma la manifestazione gloriosa del Signore rivelera la sua regalità salvifica su tutti.

L'espressione più forte di tale signoria è, senza dubbio, il giudizio di tutti gli uomini, segno del potere universale che il Padre ha conferito al Figlio. La venuta in gloria del Signore per giudicare i vivi e i morti accompagna la risurrezione di ogni carne. Questa risurrezione significa il ritorno degli uomini alla vita per il giudizio che discernerà il bene dal male e che sarà realizzato dal Signore (cfr. Mt 25, 31-46). «Quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna» (Gv 5, 28-29). Ma la risurrezione significa anche la piena partecipazione dei salvati, vale a dire dei giusti, alla gloria del Signore (cfr. 1 Cor 15, 20-28. 35-49). Non desta stupore il fatto che, sin dai primi tempi del cristianesimo, questi eventi della fine abbiano assunto una grande importanza. La risurrezione dei morti è il carattere distintivo della fede cristiana quanto alla salvezza futura. La vita del risorto e la vita in Gesù Cristo nella pienezza di Dio.

D'altra parte, il Nuovo Testamento parla anche del destino dell’uomo immediatamente dopo la sua morte. Il Signore sulla croce promette al ladrone pentito che «oggi» sarà con lui in paradiso (Lc 23, 43). Paolo pensa che la morte è un guadagno; per lui «essere sciolto dal corpo per essere con Cristo» è ciò che di meglio possa capitargli, anche se per il bene dei cristiani di Filippi desidera vivere per continuare a essere loro di aiuto (cfr. Fil 1, 21-25). Il destino di ciascuno dopo la morte è già oggetto di preoccupazione per gli autori del Nuovo Testamento e quindi per tutta la storia della teologia.

La manifestazione del Signore e la sorte dell’umanità, da una parte, il destino personale di ciascuno al momento della morte, dall’altra parte, sono stati i due poli attorno a cui si e organizzata l’escatologia cristiana. A seconda delle epoche si diede priorità a un aspetto o all’altro. Ma ambedue sono stati sempre presenti nella riflessione ecclesiale, a partire dalle ricche intuizioni, spesso frammentarie, dei Padri più antichi, fino alle sistematizzazioni più coerenti della scolastica e alla riscoperta della dimensione escatologica inerente alla totalita del mistero cristiano. A motivo della diversità dei problemi che si incrociano nel trattare dei fini ultimi, la presente esposizione non potrà che essere frammentaria. Si cercherà di evidenziare gli aspetti più rappresentativi del pensiero di ciascuno degli autori.



I. L'EPOCA PATRISTICA: LA RISURREZIONE DEL CORPO TOTALE DI CRISTO 

 

1. Sotto il segno della fine imminente e del martirio

Indicazioni bibliografiche: B. DALEV (con la collaborazione di J. CHREINER e H. E. LONA), Eschatologie in der Schrift und Patristik, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1986; B. DaLey, The Hope of the Early Church. A Handbook of Patristic Eschatology, University Press, Cambridge 1991; A. FERNANDEZ, La escatologia en el siglo I, Aldecoa, Burgos 1979; CH.E. Hiut, Regnum Caelorum. Patterns of Future Hope in Early Christianity, Clarendon Press, Oxford 1992.

Si cercherebbe invano nei Padri dell’antichità un trattato completo sulla questione escatologica. Ma i riferimenti a questo tema sono numerosi a causa della profonda relazione con l’annuncio di Gesù Cristo risorto. Già nella lettera ai Corinti di Clemente Romano si trova una testimonianza della fede nella risurrezione dei morti di cui Gesù Cristo è la primizia. Questa risurrezione viene rappresentata dall’alternarsi del giorno e della notte, del seme e del frutto; la fenice indica la stessa cosa (1). Non c'e da meravigliarsi che Dio abbia il potere di far risorgere:

Riteniamo, dunque, cosa grande e straordinaria che il creatore dell’universo opererà la risurrezione di coloro che lo hanno servito santamente nella sicurezza di una fede sincera. Non ci comprova anche in un uccello la grandezza della sua promessa? Dice infatti: «Mi risusciterai e ti loderò». E: «Mi coricai e dormii, mi svegliai poiché tu sei con me». E ancora dice Giobbe: «E risusciterai questa mia carne che ha sopportato queste cose»(2)

La ragione ultima di questa speranza è il fatto che nulla è impossibile a Dio (3). La risurrezione di quanti hanno operato il bene si attua al momento della venuta di Cristo (4). Questa venuta deve essere attesa come l’attesero i santi dell'Antico Testamento. Per questo, il cristiano deve vivere santamente, affinché la misericordia divina lo protegga nel giudizio futuro (5). Clemente parla anche della situazione di quanti sono morti e, specialmente, di quanti hanno dato la loro vita per Cristo. Così Pietro è nel luogo di gloria riservatogli e Paolo nel luogo santo. Molte donne, che parimenti hanno sofferto, hanno già la loro ricompensa (6). «Quelli che con la grazia di Dio sono perfetti nella carità raggiungono la schiera dei più, che saranno visti nel novero del regno di Cristo», che li risusciterà dalle loro tombe (7).


La Lettera dello Pseudo-Barnaba parla anche della risurrezione di tutti in relazione con quella di Gesù:
Egli per abolire la morte e per provare la risurrezione dei morti doveva incarnarsi e soffrì. Per compiere la promessa fatta ai padri, prepararsi un popolo nuovo e dimostrare, stando sulla terra, che egli stesso operando la risurrezione giudicherà(8)

Al momento della risurrezione si farà il giudizio che ricompenserà ciascuno secondo le sue opere:

Il Signore giudicherà il mondo senza preferenze. Ciascuno riceverà nella misura che avrà operato. [...] Non facciamo che, restando tranquilli come chiamati, ci addormentiamo sui nostri peccati e il principe del male impadronendosi di noi ci allontani dal regno del Signore(9).

La realtà della vita nuova in Gesù risorto è il centro dell’escatologia di Ignazio di Antiochia. La sua risurrezione è la speranza della nostra:

[Gesù Cristo] realmente risuscitò dai morti poiché lo risuscitò il Padre suo e similmente il Padre suo risusciterà in Gesù Cristo anche noi che crediamo in Lui, e senza di lui non abbiamo la vera vita(10).

La risurrezione è vista qui nel suo aspetto positivo di partecipazione alla vita di Gesù, non nel senso neutro del recupero del corpo (11). L’identificazione con Gesù risorto sarà raggiunta da Ignazio nel suo martirio: «Ma se soffro sarò affrancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui» (12). Non sembra che Ignazio precisi il «momento» della risurrezione a cui lo conduce il martirio. Per mezzo di questo martirio egli spera di raggiungere «la luce pura», facendosi imitatore di Gesù; per questo egli «sarà uomo» (13). «Raggiungere Dio» è un’altra formula che è ripetuta in contesti simili (14) e che indica la pienezza umana  a cui Ignazio giungerà mediante il suo martirio. Del resto, è pronto per il cristiano un avvenire di immortalità, che già fin d’ora gli è assicurato con la partecipazione all’eucaristia, «rimedio d’immortalità [...] per vivere sempre in Gesù Cristo» (15). Tutta la vita eterna è quindi centrata sulla relazione e la comunione con Dio e Gesù Cristo. Suggestiva è la metafora di Ignazio sulla morte come crepuscolo che dà luogo al sorgere del giorno in Dio: «È bello tramontare al mondo per il Signore e risorgere in lui» (16).


Policarpo di Smirne, nella sua Lettera ai Filippesi, si riferisce anche alla risurrezione degli uomini in relazione a quella di Gesù: «Chi l’ha risuscitato dai morti, risusciterà anche noi, se facciamo il suo volere» (17). Quanti hanno sofferto per il Signore non hanno corso invano: «Sono nel luogo loro dovuto presso il Signore con il quale hanno patito insieme» (18). Il riferimento a un destino speciale nell’aldilà per i martiri è ripetuto spesso, a motivo della loro particolare identificazione nella morte con il Signore.

La fede nella risurrezione della carne si trova espressa chiaramente nell’omelia anonima del II secolo, chiamata Seconda Lettera di Clemente. L’incarnazione di Gesù e la salvezza degli uomini, realizzata nella sua carne, sono il motivo della risurrezione:
E qualcuno di voi non dica che questa carne non sarà giudicata e non risorgerà. Di grazia in che foste salvati, in che otteneste la vista se non essendo in questa carne? Bisogna, dunque, che noi, come tempio di Dio, custodiamo la carne. Nel modo con cui foste chiamati nella carne, nella carne anche vi presenterete. Se Cristo nostro Signore che ci ha salvati, da Spirito che era si è incarnato e così ci ha chiamati, allo stesso modo anche noi in questa carne riceveremo il premio(19).

 Il dono dello Spirito rende possibile la partecipazione della carne alla vita e all’incorruttibilità che Dio ci dona (20). La differenza del destino degli uomini è chiara allo spirito dell'autore dell'omelia. Poiché Dio è fedele, chi pratica la giustizia entra nel suo Regno e riceverà le promesse che occhio non ha visto né orecchio ha udito (1 Cor 2, 9) (21). Di contro, gli increduli saranno castigati con il fuoco Inestinguibile: da qui l'esortazione alla conversione e al pentimento (22).


Alcune nozioni teologiche sviluppate con una certa precisione si trovano ne Il Pastore di Erma. In quest'opera si trova uno dei rari testi dell’epoca in cui si utilizza il termine tecnico di parusia riferendosi alla venuta gloriosa di Gesù. Il tempo dell’assenza del maestro, che parte in viaggio e che dà degli ordini ai suoi servitori (cfr. forse Mt 25, 14-30; Lc 19, 11-27), è il tempo che manca fino alla parusia (23). Erma vuole chiamare tutti a penitenza prima dell'imminente giudizio di Dio (24). La parabola ben nota della costruzione della torre dà un’idea della visione di Erma sul destino differenziato degli uomini: il Signore della torre, che deve arrivare perché la costruzione sia terminata, è il solo a poter determinare quali pietre devono o meno far parte di essa (25). Il senso del paragone si spiega in questo modo:
Hai visto che le pietre fatte passare per la porta furono messe nella costruzione della torre e che quelle non fatte passare di nuovo sono state riportate al loro posto? [...] Se non puoi entrare nella città che per quella porta, così nel regno di Dio l’uomo non può entrare diversamente, se non mediante il nome del suo amato Figlio (26).
La torre è la Chiesa, di cui fanno parte soltanto quelli che entrano nel Regno. Le pietre rigettate possono approfittare della tregua concessa nella sua costruzione per la penitenza. In caso contrario, «altri parteciperanno ed essi saranno respinti per sempre» (27). La pienezza del Regno è così quella della Chiesa, in cui entrano quanti ne sono trovati degni. Gesù è la porta. I salvati abiteranno con il Figlio di Dio, poiché essi hanno parte al suo Spirito, e con gli angeli, se persevereranno nel bene (28). La venuta di Gesù opera la diversità di destino degli uomini a seconda che essi siano trovati adatti o meno alla costruzione della Chiesa. Di contro, in Erma non si trova alcun riferimento alla risurrezione.

I Padri apostolici non sviluppano un’escatologia armoniosa. Ma la loro testimonianza è di un valore inestimabile. Senza alcuna pretesa sistematica, essi hanno raccolto in diversi modi espressivi l'essenziale del messaggio neotestamentario sulla salvezza definitiva dell’uomo. Per questo non avrebbe alcun senso interrogarli su ciò che non hanno direttamente formulato: la relazione tra il momento della morte di ciascuno e la risurrezione, la diversa condizione in cui vengono a trovarsi gli uomini prima e dopo quest’ultima, l’immortalità dell'anima. Rimane evidente per loro che la salvezza significa raggiungere Dio, essere con Cristo, partecipare alla vita eterna. E soltanto per mezzo di Gesu Cristo, e in particolare per la sua risurrezione, che la speranza degli uomini nella risurrezione ha un senso.


2. La scommessa cristiana della risurrezione dei corpi: Giustino e Atenagora

La salvezza dell’uomo nella sua integrità è anche la preoccupazione degli Apologisti. Giustino lo sottolinea con forza mettendo in relazione la ricompensa finale dell’uomo con la risurrezione. Il filosofo pensa, com’era normale per il suo tempo, che l’anima è immortale (29), ma ritiene altresi che tale dottrina è insufficiente, se non vi si aggiunge la fede nella risurrezione. Per lo stesso motivo, non gli interessa la ricompensa dell’anima: «[Coloro che] affermano che non c'è risurrezione dei morti, ma che al momento della morte le loro anime vengono assunte in cielo, non dovete considerarli cristiani» (30). Non è che non vi sia una differenza tra i buoni e i cattivi prima della risurrezione: le anime degli uomini pii sono in un luogo migliore, mentre quelle degli ingiusti e dei cattivi si trovano in un altro luogo e tutti attendono il momento del giudizio. Alcuni si sono manifestati degni di Dio, mentre altri meritano il castigo (31).

Di conseguenza, l’escatologia finale è cio che suscita il vero interesse di Giustino. La seconda venuta di Gesù, la parusia, e il momento della risurrezione e del giudizio:

I profeti infatti annunciarono due venute di lui: una, che è già avvenuta, come di un uomo senza onore e sofferente; la seconda, quando si annunzia che dai cieli riapparirà nella gloria con le sue schiere angeliche, quando risusciterà i corpi di tutti gli uomini esistiti e vestirà d’immortalità coloro che sono degni e (i corpi) degli ingiusti, insieme ai demoni malvagi, getterà nel fuoco eterno per un’eterna sofferenza (32).
La risurrezione si basa soltanto sulla potenza di Dio al quale nulla è impossibile. Seguendo la tradizione biblica (cfr. Rm 4, 17; 2 Mac 7, 23. 28), Giustino mette in relazione la potenza creatrice di Dio e il suo potere di risuscitare (33). La fiducia nella potenza di Dio è il fondamento della fede cristiana, anche se non si ha un'esperienza diretta della risurrezione. Al momento della sua seconda venuta il Signore farà risorgere l’uomo interamente: «Noi ci rallegriamo perché crediamo che Dio ci farà risorgere per mezzo del suo Cristo e ci renderà incorruttibili, impassibili e immortali» (34). Unitamente alla risurrezione per il giudizio e per la distinzione tra buoni e cattivi, Giustino parla, in altre occasioni, della risurrezione in termini esclusivamente positivi. Le caratteristiche che si avranno, una volta risorti, esprimono la partecipazione alla vita di Dio in Gesù risorto.

Un modo di vedere molto diverso è offerto da un altro Apologista, Atenagora, autore — anche se talora tale attribuzione è stata messa in discussione — di un trattato: La risurrezione dei morti. Vi è l'intenzione di mostrare la coerenza della fede cristiana nella risurrezione a partire dalle idee generali sulla creazione e sulla potenza di Dio.

Nella sua opera, la risurrezione di Gesù non viene ricordata. La potenza creatrice di Dio è il fondamento di questa fede:
Quanto alla potenza di Dio, che essa sia sufficiente alla risurrezione dei corpi, lo dimostra l’origine dei medesimi. Se infatti, secondo la prima costituzione, egli creò i corpi degli uomini che non esistevano e i loro principi, una volta dissolti - in qualunque maniera in cui ciò avvenga - li risusciterà con uguale facilità: allo stesso modo anche questo gli è possibile (35).
Atenagora ne dà la ragione poco oltre: Dio conosce, prima della creazione di ciascun uomo, tutti gli elementi con cui ci deve formare; allo stesso modo egli sa esattamente ciò che tali elementi sono divenuti quando il corpo si disfa (36). L'autore prende in considerazione tutte le possibilità di morte dell’uomo e tutti i modi in cui il corpo può dissolversi, cosa che denota una concezione molto fisicista della risurrezione del corpo umano (36). Inoltre, prova della risurrezione e la considerazione del fatto che Dio non fa nulla invano, cosa che avverrebbe se il corpo umano, che Dio ha creato, non risorgesse (37). La stessa composizione dell’uomo, formato di un corpo e di un’anima, mostra la coerenza della risurrezione; in caso contrario, l’uomo non sussisterebbe. Infine, la risurrezione è un’esigenza di giustizia. Siccome Dio ha dato i precetti all'uomo tutto intero, e non solo all'anima, e a questi che darà le ricompense o i castighi che derivano dall’averli osservati o meno (39). Poiché la risurrezione di Gesù non è un punto di riferimento per Atenagora, logicamente egli non parla della risurrezione come ricostituzione dell’integrità dell'essere umano e non considera la partecipazione dell’uomo alla vita divina del Signore.


3. La seduzione millenarista: Giustino, Ireneo, Tertulliano

«Si chiama millenarismo (o chiliasmo) l’insieme delle credenze relative a un regno sulla terra di Cristo e dei suoi eletti; questo regno — e questo reame si ritiene debbano durare mille anni (intesi sia letteralmente che simbolicamente); l’avvento millenario si situa tra una prima risurrezione (quella degli eletti già morti) e una seconda (quella dei malvagi in vista del giudizio e della condanna). Si pone dunque nel tempo della storia, prima della “nuova creazione” e della “nuova Gerusalemme”, che corrispondono a delle realtà metastoriche» (40). Il punto di partenza di questa dottrina è l’affermazione dell’Apocalisse di Giovanni (20, 1-6), in cui si parla di un regno dei giusti con Cristo sulla terra della durata di mille anni, dopo una prima risurrezione. Queste rappresentazioni si sono sviluppate nel giudeocristianesimo, in cui J. Danielou distingue due forme, la versione asiatica, che sottolinea l'aspetto del «paradiso terrestre» ritrovato, e quella ellenizzata, di natura più spirituale, che insiste sul «riposo dei giusti», sull’esempio del riposo del Creatore nel settimo giorno (41).

Questa dottrina incontrerà un reale successo nel cristianesimo primitivo eterodosso e ortodosso. Essa sembra emergere nella Didachè e parzialmente nella Lettera di Barnaba. Giustino ne raccoglie il tema nel Dialogo con Trifone, presentando il millennium come il compimento futuro delle profezie dell'Antico Testamento, corroborate dalla testimonianza dell’Apocalisse:

Io, e con me tutti i cristiani veramente ortodossi, sappiamo che ci sarà una risurrezione della carne e un periodo di mille anni in Gerusalemme ricostruita, abbellita e ampliata, cosi come affermano Ezechiele, Isaia e gli altri profeti. Cosi infatti Isaia si è espresso su questo millennio [segue Is 65, 17 25...]. D’altra parte anche da noi un uomo di nome Giovanni, uno degli apostoli del Cristo, in seguito a una rivelazione da lui avuta ha profetizzato che coloro che credono nel nostro Cristo avrebbero trascorso mille anni in Gerusalemme, dopo di che ci sarà la risurrezione generale e, in una parola, eterna, indistintamente per tutti, e quindi il giudizio (42).
Ireneo svilupperà ancora di più l'argomento nel V libro della sua opera Contro le eresie. I sei giorni della creazione di Genesi 1 diventano simbolo così della durata del mondo in sei millenni; infatti, secondo 2 Pt 3, 8 (cfr. Sal 90, 4), per Dio un giorno è come mille anni e viceversa. Alle sei epoche del mondo deve quindi seguire il settimo millennio con l’apparizione gloriosa del Signore. In quel tempo regneranno i giusti, i quali devono risorgere prima della parusia per ricevere l’eredità promessa da Dio ai loro padri. Se essi soffrirono in questo mondo, è in esso che devono ricevere giustizia raccogliendo i propri frutti (43). Una situazione di straordinaria fertilità della terra e di prosperità materiale accompagnerà questo regno dei giusti:
Verranno giorni in cui nasceranno vigne, con diecimila viti ciascuna. Ogni vite avra diecimila tralci e ogni tralcio diecimila pampini, e ogni pampino diecimila grappoli [...]. Così pure un chicco di frumento darà diecimila spighe e ogni spiga avrà diecimila chicchi [...]. Anche gli altri frutti, semi ed erbe saranno secondo queste proporzioni (44).
Anche per Tertulliano, prima della consumazione finale, i giusti devono regnare per mille anni in questo mondo. Il motivo è identico a quello presentato da Ireneo: è ben giusto che gioiscano laddove hanno sofferto, «poichè è giusto e degno di Dio che i suoi servi esultino anche là dove sono stati afflitti nel nome di Lui» (45). La teoria millenarista antica si chiude praticamente con Tertulliano. Criticata da Origene e da Agostino — che ne sarà dapprima avvinto —, non riapparirà che nel Medioevo.

La dottrina ufficiale della Chiesa non accetterà una simile rappresentazione della fine dei tempi, frutto di una lettura troppo letterale dell’Apocalisse. Nondimeno questo tema continuerà a esercitare un influsso durevole. Il millenarismo, sotto forme diverse, si rifarà vivo nel corso della storia in certi movimenti apocalittici, per esempio con Gioacchino da Fiore (+ 1202) (46), in cui la dottrina si ritrova con un tono diverso, e ancora nei secoli seguenti (47).

4. La salvezza della carne: Ireneo, Tertulliano, Cipriano

Indicazioni bibliografiche: A. ORBE, Vision del Padre e incorruptela segun san Ireneo, in «Gregorianum», 64 (1983), pp. 199 241; Ip., Gloria Dei vivens bono, in «Gregorianum», 73 (1992), pp. 205 268; In., Teologia de san Ireneo. Comentario al libro V del «Adversus baere ses», 3 voll., La Editorial Catolica, Madrid Toledo 1985 1987 1988.

Gesù risorto sarà al centro dell’escatologia di Ireneo. Di fronte alla gnosi, che riduce la salvezza dell’uomo a quella dell'anima, senza alcuna relazione con questo mondo materiale, Ireneo insisterà sulla salvezza della carne (salus carnis 48), coerentemente alla propria visione antropologica. Le anime dopo la morte vanno in un luogo invisibile dove attendono prima di ritornare per ricevere i loro corpi. L'anima è immortale, non per natura, ma perché Dio, nella sua volontà, vuole che resti nell’essere e che attenda così la risurrezione del corpo (49). Inoltre, come già pensava Giustino, queste anime, già prima del giudizio, godono sorti diverse. I giusti sono nel seno di Abramo e godranno della visione di Dio al momento della risurrezione (50), che avrà luogo al momento dell’apparizione gloriosa di Gesù, quando egli verrà per ricapitolare ogni cosa:
Il suo Verbo, l’Unigenito, che da sempre è vicino al genere umano, e si unì e si mescolò alla sua creatura secondo il beneplacito del Padre e si fece carne; questo stesso è Gesù Cristo Signore nostro, che patì per noi e risuscitò per noi e di nuovo verrà nella gloria del Padre per risuscitare ogni carne e per manifestare la salvezza e applicare la regola del  giudizio a tutti coloro che saranno venuti in suo potere [...] e ha ricapitolato in sé tutte le cose (51).
La relazione tra la risurrezione gloriosa di Gesù e la nostra è affermata da Ireneo in modo chiaro. Si utilizza il motivo paolino del primato di Gesù, a cui va dietro tutto il corpo di cui il Signore è il capo: «Egli ha prodotto in se stesso la primizia della risurrezione dell’uomo, affinché come risuscitò dai morti il capo, così anche il resto del corpo, cioè ogni uomo che sarà trovato nella vita»(52). La morte e la risurrezione di Gesù sono le sole ragioni e la causa della risurrezione degli uomini. Non c’è quindi nessun motivo di stupore davanti al fatto che, pur senza dimenticare la risurrezione per il giudizio, Ireneo si soffermi soprattutto sulla partecipazione dell’uomo alla vita divina, caratterizzata dall’incorruttibilità e dall’immortalità. Ireneo è stato uno dei primi a formulare la grande tesi dello «scambio» come fondamento della salvezza che Cristo ci dona: «Il Verbo di Dio Gesù Cristo Signore nostro, che per il suo sovrabbondante amore si è fatto ciò che siamo noi, per fare di noi ciò che è lui stesso» (53). Questa idea porta chiaramente in sé la proiezione escatologica. La perfezione della filiazione divina significa la partecipazione alla vita divina immortale:
Per questo appunto il Verbo si fece uomo e il Figlio di Dio si fece Figlio dell’uomo, affinché l’uomo, mescolandosi a Dio e ricevendo l'adozione filiale, diventi figlio di Dio. Infatti non potevamo ricevere altrimenti l’incorruttibilità e l’immortalità se non unendoci all’incorruttibilità e all’immortalità. Ora come avremmo potuto unirci all’incorruttibilità e all'immortalità, se prima l’incorruttibilità e l’immortalità non fosse divenuta ciò che siamo noi, affinché ciò che era corruttibile fosse assorbito dall’incorruttibilità e ciò che era mortale dall’immortalità, affinchè ricevessimo l’adozione filiale? (54).
La morte di Gesù è la causa della vittoria sulla corruzione. La condizione del corpo risorto sarà la conformità con Gesù, che nella sua risurrezione possiede la pienezza dello Spirito Santo: «La carne, ereditata dallo Spirito, dimentica sé per aver acquistato la qualità dello Spirito ed essere divenuta conforme al Verbo di Dio» (55). Solo allora l’uomo, così come ha portato l’immagine dell’uomo terrestre, porterà quella dell’uomo celeste (cfr. 1 Cor 15, 49). In questo momento si compirà in pienezza la condizione di immagine e di somiglianza con Dio che è propria dell’uomo. Lo Spirito, posseduto come primizia, ci fa dire «Abba, Padre» (cfr. Rm 8, 15; Gal 4, 6); con la comunicazione di ogni sua grazia ci renderà simili a lui e porterà a compimento la volontà del Padre: perché gli uomini siano a immagine e somiglianza di Dio (56). La risurrezione, che è la pienezza dell’opera di Dio attraverso la comunicazione dello Spirito, significa allo stesso tempo la pienezza della filiazione divina. Tutto è possibile per la potenza di Dio, non così alle forze della natura umana:
Queste parole (1 Cor 15, 53-55), infatti, saranno dette giustamente allorquando questa carne mortale e corruttibile, che ha a che fare con la morte, che appunto è dominata dalla morte, ritornerà alla vita e si rivestirà di incorruttibilità e di immortalità. Infatti, la morte sarà veramente vinta allorquando la carne, tenuta schiava da lei, uscirà dal suo potere. [...] Qual è dunque il corpo dell’abiezione, che il Signore trasfigurerà rendendolo conforme al corpo della sua gloria? Evidentemente il corpo che è carne, la quale è umiliata cadendo a terra. Ora la sua trasfigurazione, poiché essa che è mortale e corruttibile diviene immortale e incorruttibile, non deriva dalla sua propria sostanza, ma secondo l’azione del Signore (57).
L’uomo risorto è così l’erede della vita eterna che gli è donata mediante la visione di Dio. Per l’amore e la condiscendenza del Padre diverrà possibile nel Regno ciò che le forze dell’uomo non possono raggiungere.

L’uomo, infatti, non può vedere Dio da sé; ma Egli di sua volontà si farà vedere dagli uomini che vuole, quando vuole e come vuole. Dio è potente in tutte le cose: fu visto allora profeticamente mediante lo Spirito, fu visto poi adottivamente mediante il Figlio e lo sarà poi anche nel regno dei cieli paternamente, perché lo Spirito prepara in precedenza l’uomo per il Figlio di Dio, il Figlio lo conduce al Padre e il Padre gli dà l’incorruttibilità per la vita eterna che tocca a ciascuno per il fatto di vedere Dio (58).

Non si tratta quindi per l’uomo di diventare incorruttibile per vedere Dio. Il pensiero di Ireneo va piuttosto nel senso inverso, in quanto è la visione di Dio a rendere l’uomo vivo: «Gli uomini dunque vedranno Dio per vivere, divenendo immortali grazie a questa visione»(59). Questa visione non sopravviene «da fuori», ma l’uomo vedrà Dio nell’altra vita poiché sarà in Dio. Chi contempla Dio è illuminato da lui, vivificato, e con ciò reso immortale, eterno e capace di partecipare al suo splendore: «Come coloro che vedono la luce sono nella luce e partecipano del suo splendore, così coloro che vedono Dio sono in Dio, partecipando del suo splendore. Perché lo splendore di Dio vivifica! Dunque coloro che vedono Dio parteciperanno della vita» (60)
 
È in questo contesto che si trova e forse va compresa la famosa frase di Ireneo: «La gloria di Dio è l’uomo vivente e la vita dell’uomo è la visione di Dio» (61). Dio fa consistere la sua gloria nel rendere l’uomo capace della sua propria vita. Non si tratta per l’uomo vivente di glorificare Dio, ma per Dio di volere donare all'uomo la sua stessa gloria. Per Ireneo «Dio cerca in tutto di glorificare l’uomo [...; e vuole] che l’uomo sia illuminato dalla stessa luminosità di Dio» (62). L'uomo vivente è colui che è partecipe della vita dello Spirito, in comunione di vita con Dio. È l’uomo nell'ultima tappa del dono salvifico che partecipa alla vita di Cristo risorto, in quanto è completamente posseduto dallo Spirito: «Giustamente questi saranno chiamati puri e spirituali e viventi per Dio, perché hanno lo Spirito del Padre». Lo Spirito che dona la vita all'uomo viene ricevuto in eredità, affinché la carne dell’uomo, senza smettere di essere tale, assuma la qualità dello Spirito paterno e si conformi al Verbo di Dio (63)
La visione del Padre è possibile solo perché l’uomo partecipa alla gloria di Cristo, immagine e somiglianza divina del Verbo glorificato. Perciò la visione del Padre, più che «per la mediazione» di Cristo, è donata «nella comunione» con la carne glorificata di Cristo (64). La vita divina dell’uomo risorto consiste così nella partecipazione alla vita della Trinità. Questa vita si riferisce all’uomo risorto tutto intero e, in modo del tutto speciale, alla sua corporeità. È la carne che è deificata, l’uomo vede Dio nella sua carne. La visione del Padre viene realizzata dopo la risurrezione dei morti. La potenza divina si manifesta precisamente nella salvezza della carne, che, a prima vista, è inferiore e più fragile. Il messaggio della salvezza dell’anima, ossia dell’aspetto spirituale dell’uomo, non è sufficiente per dare ragione della novità cristiana. 
 
Questa visione divina è concessa all'uomo gratuitamente per cui essa è puro dono di Dio. Ma questo dono non è qualcosa di statico. Nella relazione a Dio e nella partecipazione alla sua vita, l’uomo potrà sempre progredire. Dio ha sempre qualcosa di nuovo da insegnare e, correlativamente, l’uomo avrà sempre qualcosa da imparare (65). Gli eletti «progrediranno» sempre nel regno che è stato loro dato in eredità: «riceveranno il regno per sempre e progrediranno in esso» (66). Evidentemente non si tratta di una visione di Dio che potrebbe essere essa stessa superata da un altro Dio superiore o da un cambiamento qualitativo. Semplicemente in virtù dell’azione di Dio sull’uomo, quest’ultimo approfondirà sempre di più la conoscenza del suo creatore. Dio è sempre lo stesso e, per questo motivo, l’uomo che vive in lui progredirà sempre verso di lui. Dio non smette dunque di elargire dei benefici e di arricchire l’uomo, a cui rimane il compito di riceverli e di farsene arricchire. L'uomo ha sempre qualcosa in cui progredire (67). Dio conferisce all'uomo l’incorruttibilità in una crescita perpetua.
 
Il messaggio escatologico cristiano è innanzitutto diretto verso la pienezza della sorte dei giusti. In essi si realizza l’opera di Dio. Circa la sorte dei condannati riportiamo soltanto questo profondo passo di Ireneo:
Ma su quanti si separano da lui per loro libera decisione fa cadere la separazione scelta da loro. Ora la separazione da Dio è la morte e la separazione dalla luce è la tenebra e la separazione da Dio è la perdita di tutti i beni che provengono da lui. Dunque coloro che hanno perso le cose dette prima, a causa della loro apostasia, essendo rimasti privi di tutti i beni, sono immersi in ogni punizione, non perché Dio prenda l’iniziativa di punirli, ma perché la punizione li segue in quanto rimangono privi di tutti i beni. (69)
Il destino del condannato è così il contrario di quello del giusto: morte, tenebre, separazione; non per iniziativa di Dio, ma quale risultato di una libera scelta che Dio rispetta.

Anche per Tertulliano, l’escatologia si riferisce di preferenza al corpo umano. Nessuna meraviglia se, sulla scia di Ireneo, il suo interesse per il corpo umano, creato a immagine e somiglianza di Dio, si riflette anche nell’escatologia.

Il suo sguardo è fisso alla risurrezione che significherà la «ricomposizione» del composto umano che la morte ha distrutto. La morte è la separazione dell’anima e del corpo, mentre la vita è l’unione dei due; se nella morte essi sono separati, devono poi ricongiungersi nella risurrezione. Dunque, si ha così una riconduzione dell'anima alla carne (70). Al momento della risurrezione si attua l'unione definitiva dei due componenti dell’essere umano, lo «stadio di comunione» in cui i due diventano una sola cosa per sempre (71)
 
Si nota in Tertulliano una certa evoluzione per quanto riguarda la dottrina dell'anima. Nelle sue prime opere ha difeso la spiritualità delle anime che, di conseguenza, non potevano né sentire né soffrire una volta separatesi dal corpo. In seguito Tertulliano cambia parere (72): siccome l’incorporeo non può soffrire, bisogna quindi dedurre che le anime sono corporee, in quanto esse lo possono. La parabola evangelica del ricco cattivo e di Lazzaro apporta una conferma biblica alle sue idee. La gioia o il dolore fanno riferimento, dunque, alle anime corporee prima della risurrezione finale. Allo stesso modo di Giustino e Ireneo, anche Tertulliano pensa che i giusti dopo la morte non vanno direttamente alla presenza del Signore. 
 
Il destino degli uomini è già differenziato al momento della morte: il seno di Abramo si distingue chiaramente dall’inferno, ma non è ancora il cielo (73). La consolazione del seno di Abramo può essere comunque una sorta di anticipazione della gloria (74). Ma alla gloria si giunge solo al momento della consumazione finale. Diversamente dagli autori a cui si farà riferimento in seguito, Tertulliano ammette un’eccezione per i martiri, i quali sono immediatamente ammessi alla presenza del Signore (75). La chiave del paradiso si trova nel sangue di Cristo (76) e in esso possono entrare immediatamente quanti hanno condiviso la morte del Signore.

Il momento finale della salvezza rappresenta e definisce il contenuto della speranza cristiana: «Fiducia dei cristiani la risurrezione dei morti (Fiducia christianorum resurrectio mortuorum). Col credervi noi siamo cristiani. A credervi, ci costringe la verità; la verità è Dio che la svela» (77). Anche gli eretici accettano la salvezza dell'anima, mentre negano precisamente la risurrezione della carne (78). Ma la fede cristiana insiste sulla salvezza dell’uomo tutto intero. Coloro che accettano soltanto l’immortalità dell’anima dividono l’uomo, credono soltanto a una «risurrezione a metà » e in una vita futura che non riguarda l’uomo nella sua totalità (79). La risurrezione futura sarà con lo stesso corpo che abbiamo, non un altro, (non sarà alius), anche se deve essere una cosa distinta (aliud) (80). La carne risorgerà, tutta intera, la stessa, nella sua integrità. Tertulliano insiste fortemente sull’identità della sostanza del corpo attuale con il corpo risorto, anche se fa pure notare che essa avrà le caratteristiche degli esseri spirituali (81). L'argomento della giustizia, che già conosciamo, è utilizzato anche da Tertulliano per spiegare il motivo della risurrezione del corpo. L’uomo tutto intero deve ricevere la ricompensa per le sue opere (82).

Se la carne di Gesù è l’asse dell’economia della salvezza, se la carne è la cerniera della salvezza (caro salutis est cardo)(83), non vi è nulla di singolare nel fatto che Tertulliano si preoccupi anzitutto della salvezza della carne umana. Si è già visto (84) che per questo autore l’uomo è prima di tutto il corpo. Nella risurrezione viene donato il pieno incontro con Cristo (85). Il corpo risorto di Cristo s’identifica con la terra promessa dai profeti (86); la risurrezione è data, in un certo senso, «in Cristo».

Cipriano di Cartagine (+ 258) lega la nostra risurrezione a quella di Cristo: «Come Cristo è la nostra risurrezione, perché in lui noi risorgiamo, allo stesso modo si può ritenere che egli sia il regno di Dio, perché in lui noi regneremo»(87). Cipriano evidenzia anche l’importanza della pienezza del corpo di Cristo e così la dimensione sociale della salvezza. Un gran numero di santi che sono già in paradiso ci attendono, ormai sicuri della loro salvezza, ma altresì preoccupati della nostra (88). In compenso, a differenza degli ultimi autori a cui si è fatto riferimento, Cipriano crede che non solo i martiri gioiscono già della presenza di Dio nel Regno a partire dal momento della morte, ma anche coloro che hanno vissuto con fermezza di fede e nel timore di Dio. Quanti seguono Cristo sono da lui onorati in mezzo ai martiri. (89) Si deve forse a Cipriano il primo riferimento al fuoco purificatore dopo la morte (90). Si trova così già in modo esplicito l’idea di una purificazione dopo la morte in termini non ancora troppo precisi; la si ritroverà di nuovo negli Alessandrini e in Agostino.

5. La vita eterna dell’anima: Clemente Alessandrino e Origene

Indicazioni bibliografiche: K. SCHMÖLE, Lauterung nach dem Tode und pneumatische Auf erstehung nach Klemens van Alexandrien, Aschendorff, Miinster 1974; H. CROUZEL, La doctrine origénienne du corps resuscité, in BLE 81 (1980), pp. 175-200 e 241-266; ID., Les /ins dernières selon Origène, Variorum. Grower Publishing Group, Aldershot 1990; JR SACHS, Apocatastis in Patristic Theology, in «Theological Studies», 54 (1993), pp. 617-640.

Se gli autori fin qui considerati hanno insistito soprattutto sulla risurrezione della carne, la scuola alessandrina si preoccuperà ben di più delle anime. Si sa già che, per questa corrente, l’anima è la parte o l’aspetto migliore dell’uomo, pur restando il fatto che il corpo non è cattivo; d’altronde non potrebbe essere cattivo, in quanto è stato creato da Dio.

Secondo Clemente Alessandrino, le anime sono immortali e incorruttibili, ma questa condizione viene loro dal dono di Dio, come frutto della presenza in loro dello Spirito (91). La morte è il passaggio verso uno stadio di vita superiore dove si può vedere Dio, cosa che costituisce il fine ultimo del cristiano. Questa visione risulta essere in ultima istanza un’assimilazione a Dio, oltre la santificazione e l’amicizia con lui (92). Clemente non dimentica affatto la risurrezione nell’ultimo giorno con cui sopraggiungerà l'illuminazione definitiva dell’uomo. Il fatto stesso che il Signore abbia assunto la carne ha per fine la salvezza della carne (93). La vita eterna è la conoscenza di Dio, che lo Spirito rende possibile (94); è la rugiada dello Spirito, che dona la vita nuova al «risorto» (95).

Clemente pensa a una possibilità di purificazione delle anime dopo la morte. Il cammino dell’anima verso la conoscenza di Dio, che va al di là di questo mondo, è una purificazione. È solo quando questo cammino è stato percorso che si può parlare di perfezione dell’uomo. In Clemente, si trova così un’apertura verso la dottrina che porterà alla rappresentazione, sviluppata ulteriormente, di un luogo di purificazione chiamato purgatorio. D'altra parte, questa dottrina della purificazione in Clemente pone la questione della salvezza possibile di tutti gli uomini. Il castigo dopo la morte sembra avere questa finalità purificante, più che quella di una sanzione definitiva (96). Per Clemente si pone già il problema della restaurazione universale o apocatastasi, che si ritroverà in Origene.

Origene è il rappresentante più qualificato della scuola alessandrina all’epoca prenicena. Condivide la tesi comune ai suoi tempi dell’immortalità dell'anima. La morte fisica, a differenza della morte dovuta al peccato, riguarda soltanto il corpo, mentre l’anima sopravvive. Nonostante tutto vi è una relazione indiretta tra il peccato e la morte fisica, in quanto la condizione carnale è frutto del peccato delle anime. Così la morte fisica è il salario del peccato. L’immortalità dell’anima si fonda su diverse ragioni: il desiderio che l’uomo ha di conoscere Dio, poiché nel caso contrario si sentirebbe frustrato. L’anima partecipa alla luce eterna, immortale, che fa sì che l'intelligenza umana, creata a immagine di Dio, non possa morire; affermare il contrario sarebbe offendere Dio stesso (98) All’immortalità, che appartiene all’essenza stessa dell'anima, si aggiunge l'immortalità della grazia, che elimina la morte dovuta al peccato. È l’immortalità che dà la vita vera, a cui il cristiano partecipa già in questa vita attraverso il battesimo; pur restando sottomessi alla tentazione, vi è la possibilità di non peccare. Questa seconda immortalità è dono di Cristo, che è per i giusti risurrezione e beatitudine eterna. Se infatti la prima immortalità riguarda tutti gli uomini, questa seconda è riservata ai soli giusti (99).

Non è facile determinare in che senso, dopo la morte, le anime si trovano «separate» dal corpo nell’attesa del momento della risurrezione. Siccome alcuni passi biblici presentano delle persone defunte come dotate di un corpo (ad esempio Lazzaro e il ricco), Origene attribuisce alle anime dei morti una certa corporeità. Altrove parla di anime senza corpo. Il problema non è poi così centrale per lui. Ma, a differenza di Ireneo e di Tertulliano, Origene considera che i giusti vanno già in paradiso prima della risurrezione. Gesù, nella sua Ascensione, porta con sé i santi dell'Antico Testamento. Quanto a coloro che muoiono in seguito, mentre ancora continua la vita di questo mondo, la loro anima riceverà una ricompensa secondo i loro meriti: o l’eredità della vita eterna e la beatitudine, o il fuoco eterno e gli altri supplizi (100). L’interpretazione che talvolta Origene dà di questo fuoco nella sua opera è nota: è la traccia che i peccati lasciano in noi e il rimorso che il peccatore sperimenta a loro riguardo (101). Il problema dell’eternità di queste pene dell’inferno, secondo Origene, è all’origine di molte discussioni. Si tratta di un castigo propriamente detto o di pene medicinali? Ci si trova di fronte ad affermazioni a prima vista contraddittorie (102). Se la vita eterna dei giusti non dà adito ad alcuna difficoltà, non è così per quanto riguarda le pene dei condannati.

Il problema della «restituzione» (apocatastasi)

Eccoci dunque alla questione, oggetto di tante discussioni per secoli, dell’insegnamento di Origene sull’apocatastasi o restaurazione universale del mondo e degli uomini. Fondamento ne è il testo paolino di 1 Cor 15, 20-28, in cui si parla della consegna da parte di Cristo del Regno al Padre, affinché Dio sia tutto in tutti. Si tratta di un'armonia e di un'unità finale nella creazione, che indica come tutte le anime saranno alla fine unite a Dio come lo erano in principio (103).

Non sembra si possa giungere a una chiara conclusione circa il pensiero di Origene su questo argomento. Egli fa notare talora come l’ultimo nemico, la morte (cfr. 1 Cor 15, 26), sarà distrutto, non nel senso che cesserà di esistere, ma in quanto verrà trasformata la sua volontà nemica di Dio (104). Siccome in diverse occasioni Origene identifica la morte e il diavolo, si può pensare che a quest’ultimo si riferisca il cambiamento di volontà, poiché non si vede come potrebbe cambiare la volontà della morte. In altri passi sembra tendere verso la direzione opposta. Origene si domanda se è possibile che i demoni si convertano, poiché la cattiveria, liberamente scelta a un certo momento, potrebbe essere divenuta parte della loro stessa natura (105). Altrove nega di aver insegnato la salvezza dei demoni (106). Riguardo alla salvezza degli uomini i testi non sono univoci. Che Dio sia tutto in tutti sembra indicare una universalità della salvezza. Ma le parole di Origene possono essere l’espressione di una speranza e di un desiderio, più che di una certezza. Queste affermazioni comunque creeranno più tardi delle difficoltà.

In Origene si trova pure l’idea del battesimo di fuoco, di una purificazione escatologica correlata con il nostro purgatorio, a partire dall’interpretazione di 1 Cor 3, 11-15: Dio stesso è il fuoco che purifica. Attraverso questa prova si conserverà cio che ciascuno ha fatto con materiali incorruttibili, oro o argento, e invece brucerà cio che è stato realizzato con materiali combustibili, paglia o legno (107). Il giusto, salvato e purificato, contempla le opere di Dio e Dio stesso, e si unisce a lui nell'amore (108). Nella consumazione finale il giusto vedrà il Padre come lo vede il Figlio, e non soltanto riconoscendone la realtà nell'immagine.

Verso la pienezza del corpo di Cristo

Origene dà una grande importanza alla pienezza del corpo di Cristo, che si realizzerà soltanto quando tutti i salvati saranno in paradiso. Fino a quel momento i giusti, che già godono di Dio, partecipano in un certo modo ai dolori e alle fatiche di quanti sono ancora sulla terra. Essi sperano che costoro arrivino in paradiso in modo che la gioia sia completa.

Gesù stesso non sarà totalmente completo fino a quando il suo corpo non sarà riunito nel regno:

Il nostro salvatore non beve vino fino «a che lo beva con i santi nuovo nel regno di Dio. Il mio Salvatore piange anche ora i miei peccati. Il mio Salvatore non può rallegrarsi fino a che io rimango nella mia iniquità. [...] Come dunque potrebbe colui che è avvocato per i miei peccati bere il vino della letizia, lui che io contristo peccando? [...] Questo vuol dire che nell’accedere all'altare non beve il vino della letizia, perché ancora patisce le amarezze dei nostri peccati. Non vuole dunque bere da solo il vino nel regno di Dio. [...] Siamo dunque noi che, con la negligenza della nostra vita, ritardiamo la sua letizia. [...] Ma allora sarà letizia piena, quando non mancherà alcun membro al tuo corpo. Giacché anche tu attenderai altri, come tu pure sei stato atteso (109).
Potrebbe chiarire molte cose seguire lo sviluppo di questo tema nella patristica. Sono molti coloro che, su questo punto, hanno seguito le tracce di Origene: Ilario, Gregorio di Nissa, Ambrogio di Milano (110). Anche se non tutti hanno sottolineato come Origene la mancanza di gioia del Signore, si sono comunque tutti riferiti alla pienezza del corpo che si realizzerà solo con la presenza di tutti in paradiso. Gesù sarà allora interamente sottomesso al Padre (cfr. 1 Cor 15, 28). Ciò non vuol dire che egli non sia personalmente già sottomesso al Padre; ma gli manca ancora la piena sottomissione del suo corpo. Si ha così da una parte, l'affermazione della presenza in paradiso dei salvati dopo la morte, e, dall’altra, l’espressione della solidarietà di tutti nel corpo di Cristo e della «necessità» che lo stesso Gesù ha della pienezza del suo corpo perché sia perfetta la sua gioia come Capo del corpo.

La natura del corpo risorto

Il pensiero di Origene circa la risurrezione dei corpi ha creato delle difficoltà per lunghissimo tempo. Certamente la risurrezione è per Origene un punto centrale della dottrina cristiana (111). Si tratta della risurrezione dei nostri corpi, anche se in uno stato e una condizione diversa da quella in cui viviamo attualmente (112). Al fine di indicare contemporaneamente questa identità e differenza, Origene si ispira all'insegnamento paolino di 1 Cor 15, 35 50. Il corpo risorto è un corpo spirituale, le cui caratteristiche sono distinte dal corpo attuale. Origene si oppone alle teorie «materialiste» del corpo risorto, in cui si sottolinea in modo grossolano l’identità con il corpo terrestre e che non evidenziano la differenza che esiste tra l'uno e l’altro. Per Origene al contrario, secondo le parole di Gesù (cfr. Mt 22, 23 33), gli uomini in paradiso saranno come gli angeli di Dio, e questo non significa affatto mancanza di corporeità, ma possesso di un corpo trasfigurato, etereo e luminoso. L'anima immortale «riveste» il corpo e in tal modo lo rende partecipe della condizione di immortalità. Il corpo allora si trasforma in corpo spirituale, sottile, luminoso, così come si addice alla natura della creatura razionale (113).

Origene cerca di chiarire la relazione che esiste tra il corpo attuale e il corpo risorto attraverso la nozione di «ragioni seminali» (logoi spermatikoi). Con questi concetti si esprime l’identità del corpo con se stesso, in un flusso continuo degli elementi materiali concreti (114). La sostanza materiale, secondo Origene, non possiede da se stessa nessuna qualità concreta. Per questo si trova in noi un elemento stabile, che non muta, e che garantisce la nostra identità. Ma questo elemento stabile esiste insieme a qualità mutevoli, poiché esso non è necessariamente unito ad alcuno. È cio che esprime Paolo quando usa il paragone tra il seme e la pianta in 1 Cor 15, 35-41. Nel seme si trova una forza che ne farà una pianta. In modo analogo, nel nostro corpo terrestre vi è una forza che permetterà, al momento in cui esso scomparirà, la germinazione del corpo glorioso. La qualità di mortalità viene abbandonata per accogliere quella dell’incorruttibilità e dell'immortalità. Vi è sin da ora in noi una ragione seminale, che si conserverà anche se la nostra carne muore. Così Origene puo spiegare che ogni carne, anche se muore ed è simile a paglia, vedrà la salvezza di Dio.

Anche la nozione di forma (o di eidos) aiuta il nostro autore a esprimere l’identità di cui ci si sta occupando. Questa forma esprime l’unità del corpo, che è compresa nel flusso costante degli elementi che lo costituiscono. Dall’infanzia alla vecchiaia, nonostante i cambiamenti continui, l'eidos e sempre lo stesso. Alcuni segni del corpo manifestano questa identità attraverso tutti i mutamenti; essa si conserverà quindi anche nel corpo risorto. Il principio di individuazione del corpo è ciò che risorgerà. In tal modo sarà garantita la nostra identità corporea sostanziale tra questo mondo e il mondo futuro, a dispetto del cambiamento degli elementi materiali.


6. Problemi attorno a I Cor 15, 24-28 nel IV secolo

Indicazioni bibliografiche: L.F. LADARIA, La cristologia de Hilario de Poitiers, PUG, Roma 1989; G. PELLAND, La «subiectio» du Christ chez saint Hilaire. in «Gregorianum», 64 (1983), pp. 423 452; Ib., La Theologie et l'exegèse de Marcel d'Ancyre sur 1 Cor 15, 24 28. Un schéme bellénistique en théologie trinitatre, in «Gregorianum», 71 (1990), pp. 679 695; M. Durst, Die Eschatologie des Hilarius von Poitiers, Borengàsser, Bonn 1987; K. SEIBT, Marcell von Ancyra, TRE, 22 (1972), pp. 83 89.

Marcello di Ancira merita una breve menzione, a motivo delle reazioni provocate dalle sue dottrine escatologiche. Deciso avversario di Ario, difensore fino all’eccesso della consustanzialità del Padre e del Figlio, Marcello arriva ad affermare che la Trinità si è sviluppata nell'economia della salvezza, ma che non risponde in ultima analisi all'essere divino. Quando dunque sarà completata la storia della salvezza, il Cristo rimetterà il Regno al Padre, e il Figlio e lo Spirito saranno riassorbiti nell’unità del Padre; Dio ritornerà alla sua primitiva semplicità e sara «tutto in tutti». Questa è l’interpretazione che Marcello dà di 1 Cor 15, 24-28. Se il simbolo di Costantinopoli ha introdotto la frase «e il suo regno non avrà fine», riferita al Figlio, è forse a causa della reazione di molti teologi del IV secolo a queste dottrine di Marcello. L'insegnamento sobrio sulla parusia e il giudizio è così accompagnato dall’affermazione del Regno eterno del Figlio, che presuppone la sua esistenza personale.

I Cappadoci raccoglieranno molte idee di Origene. È chiaro per loro che dopo la morte i giusti ricevono la ricompensa per le loro buone opere, anche se questi Padri non dimenticano la risurrezione finale, poiché è l’uomo tutto intero che deve essere salvato. Il cielo poi è visto come l’unione a Dio, la piena divinizzazione, il possesso dei beni a cui l’uomo tende per natura. Gregorio di Nissa è incline alla restituzione finale (apocatastasi). La separazione tra buoni e cattivi si spiega come separazione del bene e del male. Il disegno di Dio deve realizzarsi in tutti. Non sembra infatti che la capacità umana di vedere Dio possa rimanere frustrata eternamente. Anche per Gregorio, la pienezza della sottomissione del Figlio al Padre implica la pienezza del corpo di Cristo (115).

In Occidente, pochi anni prima, Ilario di Poitiers sviluppa un’escatologia che dà la preferenza alla risurrezione finale come partecipazione dell’uomo alla vita di Gesù risorto. In primo luogo la risurrezione di Gesù è il principio che fa scattare tutta la consumazione escatologica. Commentando Ef 1, 19-22 in cui la sottomissione di tutte le cose a Cristo viene presentata come già realizzata, in riferimento a 1 Cor 15, 24-28 in cui si parla invece di una sottomissione ancora da venire, egli risolve il problema affermando che l’Apostolo nel primo testo parla delle cose future come già compiute. La ragione è importante: ciò che deve essere compiuto alla fine dei tempi ha già la sua consistenza in Gesù Cristo, in cui abita ogni pienezza. Per questo ciò che avverrà nel futuro è lo sviluppo dell'economia della salvezza, ma non, in senso stretto, una novità (116). La piena sottomissione del Cristo e la consegna del Regno al Padre significano la consegna dell’umanità glorificata, vale a dire di uomini che, vivendo in conformità a lui nella gloria del proprio corpo, vedranno Dio (117). «Così l’uomo diventa immagine perfetta di Dio. Infatti reso conforme alla gloria del corpo di Dio, diventa l’immagine del creatore secondo il modello fissato per il primo uomo [...] vivrà per sempre come immagine del suo creatore» (118). E tutto questo non accade a uno preso separatamente dagli altri, ma alla pienezza del corpo del Signore, in cui ciascuno trova il suo definitivo riposo. Dopo aver abitato nella Chiesa, noi ci riposeremo nel corpo del Signore. Il giusto entrerà nel corpo di Cristo che è la Chiesa, la quale regnerà con Cristo, conformata a lui (119).

7. Dalla fine della storia alla città di Dio in Agostino

Indicazioni bibliografiche:  Le GOFF, La nascita del Purgatorio, Einaudi, Torino 1982; P. Piret, La Destinée de l'homme. La Cité de Dieu. Un commentaire du «De civitate Dei» d’ Augustin, Ed. de l'IET, Bruxelles 1991.

L’escatologia di Agostino offre numerose punti di interesse e il suo influsso in Occidente è stato incalcolabile. L'esperienza personale del vescovo di Ippona ha avuto una parte importante nello sviluppo delle sue idee escatologiche. Il sacco di Roma, da parte dei Goti nel 410, lo impressionò enormemente. Gli sembrò in quel momento che il mondo si trovasse in un momento di senilità e di decadenza, e che la salvezza non potesse aspettarsi da questa storia, di cui si credeva che l’impero romano costituisse il vertice. La città di Dio e la città terrestre si oppongono: «due città, due amori» (120); vale a dire l’amore di Dio e l’amore del mondo (121). Ma la manifestazione finale del trionfo di Cristo è assicurata. La Chiesa rappresenta già in questo mondo il regno dei santi che regneranno insieme a Cristo per mille anni. Dopo essere stato propenso, nella sua giovinezza, al «millenarismo», Agostino si è deciso per un’interpretazione ecclesiologica della «prima risurrezione»; questa è già avvenuta mediante il battesimo, ma restano davanti a noi la risurrezione definitiva e il giudizio finale (122). Questi avvenimenti si devono distinguere dall’azione della grazia di Dio, che dà salvezza, nella storia. In essa infatti i cristiani sono come dei pellegrini, anche se hanno già la ferma speranza dei beni futuri. Al momento finale invece avranno luogo la venuta gloriosa di Cristo e la risurrezione dei morti. È questo anche il momento del giudizio, in cui ciascuno riceve secondo le sue opere.

In questo contesto della fine della storia e della realizzazione della città di Dio, Agostino si sofferma a contemplare il diverso destino di ogni uomo. Questo destino comincia dopo la morte di ciascuno e i santi gioiscono già della presenza beatificante di Dio. Ma essi non riceveranno la pienezza della salvezza se non alla risurrezione dei morti; in quel momento più grandi saranno le gioie dei salvati e le sofferenze dei condannati (123). Non pare che Agostino abbia parlato direttamente della visione di Dio durante lo «stadio intermedio» (124).

Il fuoco purificatore (ignis purgatorius)

La tradizione della preghiera per i defunti, unitamente alla differenziazione che si instaura tra il destino dei buoni e quello dei cattivi, sia durante la storia sia alla fine di questa, permette ad Agostino di sviluppare l’idea della purificazione dopo la morte per alcuni, non certo per tutti i peccatori. Esiste una possibilità di purificazione e di perdono nell’aldilà per chi non è stato perdonato in questa vita (125). Agostino accoglie l’idea già evocata delle pene e del fuoco purificatore (ignis purgatorius o ignis purgationis (126). D'altronde, la preghiera dei vivi accompagna e aiuta i defunti in questa purificazione (127). In tal modo i morti non sono separati dalla vita della Chiesa.


La vita risorta, termine della storia

Gli avvenimenti della risurrezione finale e il giudizio sono ciò che attira maggiormente l’attenzione di Agostino. Con essi infatti si attua il passaggio dal tempo all’eternità, dal momento della crescita a quello definitivo. Tutta la sua teologia della storia si orienta verso questa consumazione finale. Inoltre la fede nella risurrezione è per Agostino il carattere distintivo della fede cristiana (128). Le promesse che Dio ha fatto agli uomini sono riservate al momento della risurrezione. Tese verso questo momento, le anime attendono l’unione con i loro rispettivi corpi (129). Con la risurrezione gli uomini raggiungono la piena conformazione a Cristo risorto (130). Dio creatore sarà così il restauratore dei nostri corpi. Agostino insiste sull’identità materiale dei corpi attuali e dei corpi risorti, opponendosi così a quanti, platonici e manichei, disprezzano il corpo umano. D'altra parte, il corpo risorto è spirituale, come dice Paolo, e non sarà un peso, poiché non sarà più corruttibile e sarà perfettamente integrato all'anima (131). La risurrezione sarà la realizzazione della nostra piena identità: «noi saremo noi stessi» (132) .Il mondo nuovo accompagnerà così gli uomini rinnovati (133).

La vita eterna appartiene in pienezza al risorto. La formula che conclude La città di Dio è molto bella: «Lì riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo. Ecco quel che si avrà senza fine alla fine. Infatti quale altro sarà il nostro fine, che giungere al regno che non avrà fine?» (134). La lode sarà l’attività principale dell’uomo nella vita eterna. Ma per renderci adatti a questa vita bisogna esercitarsi fin da ora (135). Altrove Agostino parla anche della visione di Dio che è il fondamento della comunione con lui, come pure della «divinizzazione» che conduce alla gioia che non ha fine (136). Il cielo consiste nel gioire di Dio e a causa di Dio (137). La comunione con tutti gli eletti è anche una dimensione importante della vita eterna. Tra tutti regnerà infatti l’unione della carità, che renderà impossibile l’invidia anche se la gloria non sarà uguale per tutti. Non vi sarà inimicizia né sarà possibile alcuna divisione nella gloria del cielo, ma vi sarà una perfetta armonia tra tutti coloro che gioiscono di Dio (138). La pienezza della gloria sarà la pienezza del corpo di Cristo: «e sarà un solo Cristo, il quale ama se stesso» (139). La comunione con Dio significa la comunione di tutti in Gesù.

La massa di perdizione e il piccolo numero dei salvati

Agostino non è tuttavia ottimista quanto alla salvezza dell’umanità. La sua visione del peccato, che abbraccia tutta l’umanità, gli fa considerare l’insieme degli uomini come una massa di perdizione o massa damnata. In seno a quanti sono salvati la misericordia di Dio si trova così a risplendere in modo piu chiaro. Agostino ha incontrato delle difficoltà a conciliare la condizione gratuita della salvezza con il suo darsi a tutti gli uomini. La condanna raggiunge evidentemente quanti hanno peccato personalmente, ma anche i bambini morti senza il battesimo, che non sono stati incorporati a Cristo. Ma per loro le pene saranno particolarmente lievi (140). Il tormento del l'inferno sarà eterno. Agostino si allontana dalle ipotesi origeniane circa la cessazione dei tormenti degli uomini condannati o del diavolo e dei suoi angeli dopo un lungo castigo. Secondo Agostino la Scrittura mostra con chiarezza che tanto gli angeli quanto gli uomini che hanno fatto il male e non si sono convertiti sono sottomessi al tormento eterno (141). La misericordia di Dio, nonostante tutto, non li castiga per quanto lo meriterebbero (142), e talora concede loro qualche alleggerimento o intervallo nelle loro pene (143). D'altra parte Agostino è cosciente che è il peccatore che si condanna da se stesso. Dio lascia il peccatore nel male in cui e caduto allontanandosi da lui e, rigorosamente parlando, non gli infligge alcuna pena (144). Il vescovo di Ippona raccoglie così un’idea gia incontrata in Ireneo (145).

8. Da Agostino a Giuliano di Toledo: il primo trattato di escatologia

Indicazioni bibliografiche: GIULIANO DI TOLEDO, Prognosticon futuri saeculi, a cura di J. N. Hillgarth (CCSL 115, 7 126), 1976; C. Pozo, La doctrina escatolégica del «Prognosticon futuri saeculi» de San Julian de Toledo, in «Estudios eclesiasticos», 45 (1970), pp. 1/3 201.


L’influsso di Agostino è stato decisivo nello sviluppo delle dottrine escatologiche. A partire da lui si è «cristallizzato», per così dire, uno schema escatologico in due fasi, che si imporrà nelle epoche seguenti. Così Gregorio Magno pensa che le anime dei defunti vedono Dio immediatamente dopo la morte, ma che la loro beatitudine sarà ancora più grande dopo la risurrezione generale. I condannati vanno direttamente all’inferno (146). Anche la purificazione dei peccati veniali prima del giudizio finale, in riferimento a 1 Cor 3, 12-15, è stata insegnata da Gregorio, anche se con qualche esitazione circa il «luogo» di questa purificazione (147). La condizione materiale del corpo risorto è un’altra preoccupazione di Gregorio: «In quella gloria della risurrezione il nostro corpo sarà, sì, sottile per effetto della sua potenza spirituale, ma sarà sottile per la verità della sua natura» (148). Quest’idea è ripresa testualmente da Beda (149). Quale esempio particolarmente significativo si può ricordare Giuliano di Toledo, vescovo di questa città nel 680 e autore di quello che si potrebbe chiamare il primo trattato di escatologia, il Pronosticon futuri saeculi. In quest’autore si trova organicamente riassunto tutto l’insegnamento escatologico del momento. L’opera si struttura in tre libri: il primo sull’origine della morte per l’uomo, il secondo sulle anime dei defunti prima della risurrezione finale dei corpi, il terzo sulla stessa risurrezione. I due ultimi libri sono quelli che si riferiscono più direttamente al nostro argomento. Le anime ricevono già subito dopo la morte il loro destino differenziato, paradiso o inferno. I salvati vanno là dove si trova il Signore risorto, là dove è il Signore nel suo corpo (150). Quanti lasciano questo mondo senza una santità perfetta, ma che allo stesso tempo non meritano di essere condannati con il diavolo e i suoi angeli, non possono essere ricevuti immediatamente in paradiso, ma espiano le loro colpe con delle pene medicinali. Essi contano sull’aiuto della Chiesa «che prega per loro efficacemente». Sembra che, seguendo la tendenza agostiniana, anche per Giuliano questo stato di purificazione si possa protrarre fino alla fine dei tempi, quando avrà luogo la risurrezione (151), anche se egli stesso fa notare che le pene saranno più o meno durature in proporzione all'amore che si è avuto per le cose di questo mondo (152). La considerazione di Giuliano sulla preghiera per i defunti praticata nella Chiesa è differenziata: questa preghiera serve come azione di grazie per i defunti molto buoni, per i meno buoni è di propiziazione, non aiuta invece i cattivi (153). Il fuoco purificatore (ignis purgatorius), attraverso cui molti giungono alla salvezza, si distingue dal fuoco dell’inferno. Anche per Giuliano 1 Cor 3, 12-15 costituisce la base biblica di questo insegnamento, che risulta essere già molto stabile (154). I giusti vedono Dio sin da questo stadio intermedio, ma non nella stessa maniera in cui lo vedranno dopo la loro risurrezione, quando non desidereranno più l'unificazione al corpo. D'altra parte, una volta che il corpo si è trasformato in corpo spirituale, esso sarà completamente adattato alla natura dell'anima (155). Si fa anche sentire l’influsso di Origene: i giusti ci attendono per attendere con noi la perfetta beatitudine (156), a cui prenderà parte anche il corpo. I santi, e non solo i martiri, regnano già con Cristo (157). Allo stesso modo in cui i santi sono già nel cielo, gli ingiusti saranno all'inferno sin dal momento della loro morte. Questo inferno è perpetuo e ha diverse intensità (158).

Al momento della parusia del Signore, avranno luogo la risurrezione dei morti e il giudizio. Il Signore apparirà amabile per i giusti e terribile per gli ingiusti. Questi ultimi non saranno capaci di vedere la sua divinità (159). Giuliano è prolisso sui particolari della risurrezione e della condizione dei corpi, come pure sulla separazione dei buoni e dei malvagi al momento del giudizio. Senza entrare nei dettagli, ci soffermiamo su alcune delle indicazioni teologiche, che non sono prive di interesse: dopo il giudizio Gesù deporrà la forma di servo e ci farà vedere la sua divinità. In quel momento Gesù rimetterà tutto il corpo, di cui egli è il Capo, come Regno a Dio Padre (160). La visione di Dio sarà allora completa, simile a quella di cui godono già ora gli angeli (161). Tale visione di Dio non avrà fine (162) e sarà accompagnata dalla lode e dalla piena soddisfazione di tutti i nostri desideri. Le ultime parole del Prognosticon sono la ripresa di quelle de La città di Dio (163).

L'importanza di quest'opera è dovuta al fatto che costituisce, con grande probabilità, il primo trattato sistematico di escatologia che conosciamo. Sia per la disposizione che per i contenuti, che devono molto sia ad Agostino che a Gregorio Magno, avrà un grande influsso sulla teologia medievale.

9. Gli interventi conciliari sull’escatologia 

Le dichiarazioni conciliari relative al problema escatologico all’epoca patristica non sono molto numerose ma essenziali, in quanto si radicano nei Simboli di fede. Già il Credo di Nicea fa riferimento alla seconda venuta di Gesu per giudicare i vivi e i morti (164). Il Simbolo di Costantinopoli aggiunge nel secondo articolo che la sua seconda venuta sara «nella gloria» e che «il suo regno non avrà fine». Nella sua redazione del terzo articolo menziona pure la speranza nella «risurrezione dei morti» e nella «vita eterna» (165).

Le dispute origeniste porteranno a prendere delle posizioni riguardo a certe tesi attribuite più o meno a ragione a Origene. Un editto dell’imperatore Giustiniano, notificato al momento del sinodo di Costantinopoli del 543, condanno la restituzione o reintegrazione (apocatastasi) dei demoni e degli empi (can. 9)(166). Con l’umorismo che conviene, si puo segna lare che il canone 5 condanna coloro che affermano che i corpi nella risurrezione saranno rotondi (167). A proposito di tutte queste condanne, si deve tenere presente che i problemi venivano dagli origenisti del tempo piu che dagli insegnamenti di Origene stesso. Il primo concilio di Braga, nel 561, afferma la fede nella risurrezione della carne (168). In alcuni dei concili celebrati a Toledo nel corso del VII secolo si trovano diverse indicazioni sull’escatologia. Così nel IV concilio (del 633) si parla della venuta del Signore, della risurrezione generale «nella carne in cui viviamo adesso» e del giudizio che avra come risultato la vita eterna o la condanna. Idee simili si trovano nel VI concilio del 638 (169). La medesima istanza circa la risurrezione della carne, «in cui ora viviamo, sussistiamo e ci muoviamo», legata alla parusia e al giudizio, è ripresa nel IX concilio di Toledo del 675 (170). Questo concilio aggiunge l’indicazione che la nostra risurrezione avverrà sull'esempio di quella di Cristo, nostro capo. Un insegnamento identico, con una maggiore insistenza sul giudizio, lo si trova nel simbolo del XVI concilio della medesima citta del 693 (171). I Simboli o professioni di fede d'Oriente o d'Occidente fanno generalmente riferimento alla parusia, al giudizio, alla risurrezione e alla vita eterna, come lo fa Nicea Costantinopoli. In qualcuno di essi, al riferimento della vita eterna e aggiunto quello della morte eterna (172).

Attraverso questo percorso si giunge a una visione d’insieme. Tre punti sono esclusi più o meno fermamente: il millenarismo, la riduzione della vita eterna all’immortalità dell'anima e la prospettiva della restituzione (apocatastasi). Il centro di gravità dell’escatologia cristiana si situa nella risurrezione dei morti al momento del ritorno di Cristo alla fine dei tempi, così come viene sottolineato dai Simboli di fede. Allo stesso tempo si pone un certo numero di problemi per quanto riguarda l’escatologia personale: cosa avviene nel tempo intermedio che separa la morte di ciascuno da questa risurrezione? Con molte sfumature e certi interrogativi, che rimangono insoluti, sulla maniera di rappresentarsi le cose, si è fatta strada l’idea di una differenziazione immediata tra il destino dei giusti e quello dei peccatori. La possibilità di una ultima purificazione dopo la morte viene evocata. Il trattato di Giuliano di Toledo, eco della dottrina agostiniana, ne presenta un buon bilancio alla soglia del Medioevo. 

Note

(1) CLEMENTE Romano, Ai Corinti, 24-25, in I Padri Apostolici a cura di A. Quacquarelli (CTP 5), Città Nuova, Roma 1981, p. 66. 

(2) Ibid., 26, 1-3, p. 67.

(3) Ibid, 27,2, p.67.

(4) Cfr. Ibid., 50,3, p. 82.

(5) Cfr. Ibid , 28, 1 e 29, 1, p. 68.

(6) Cfr. Ibid ,5,4.7 e 6,2, pp. 52-53.

(7) Cfr. Ibid ,50,3-4, p. 82.

(8) Lettera di Barnaba, 5, 6-7, in 1 Padri Apostolici, cit., p. 192.

(9) Ibid.,4,12-13, p. 191.

(10) IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Ai Tralliani, 9, 2, in I Padri Apostolici, cit., p. 118; vedi anche ibid., Saluto e 2, 2, pp. 115 116 come pure Agli Efesini, 21, 1, p. 107.

(11) Cfr. ID., Agli Smirnesi, 2, 1, p. 134.

(12) In., Ai Romani, 4,2, p. 123.

(13) Ibid , 6,23, p. 124.

(14) Ib. Agli Efesini, 12, 2; At Magnesi, 14; Ai Tralliani, 12, 2; Ai Romani, 1, 2; 2,14, 19, 2; Agli Smirnesi, 11, 1; A Policarpo, ?, 1, in I Padri Apostolici, cit., rispettivamente alle pp. 104; 113; 119; 121; 122; 125; 137; 142.

(15) Ib. Agli Efesini, 20, 2, p. 107.

(16) Ib. A: Romani, 2, 2, p. 122

(17) POLICARPO DI SMIRNE, Ai Filippesi, 2, 2, in 1 Padri Apostolici, cit., p. 154.

(18) Ibid ,9, 2, p. 158.

(19) Omelia dello Pseudo-Clemente, 9, 1-5, in 1 Padri Apostolici, cit., p. 226.

(20) Cfr. Ibid , 14,5, p. 230.

(21) Cfr. Ibrd., 11,7, p. 228.

(22) Cfr. Ibid., 15,5 e 16-18, pp. 231-232.

(23) Erma, Il Pastore, Sim V, 5, 3, in I Padri Apostolici, cit., p. 299.

(24) Sull'invito di Erma alla penitenza, cfr. vol. III, il paragrafo: La predicazione penitenziale di Erma, [di prossima pubblicazione].

(25) Cfr. Ibid , Sim IX, 3-11, pp. 318-327.

(26) Ibid., Sim IX, 12, 4-5, p. 327.

(27) Ibid., Sim IX, 14, 2, p. 329.

(28) Cfr. Ibid., Sim IX, 24, 4 e 27,3, pp. 336 e 338.

(29) Cfr. Giustino, I Apologia, 44, 9, in Gli Apologeti Grea a cura di C. Burini, (CTP 59), Città Nuova, Roma 1986, p. 123.

(30) Ib., Dialogo con Trifone, 80, 4, a cura di G. Visonà, Paoline, Milano 1988, p. 262.

(31) Cfr. Ibid.,5,3, p. 100.

(32) Ib., I Apologia, 52, 3, in Gli Apologeti Greci, cit., p. 131. Cfr. In., Dialogo con Trifone, 40,4, cit., pp. 173 174.

(33) Cfr. In., I Apologia, 18-19, in Gli Apologeti Greci, cit., pp. 99-101.

(34) Ip., Dialogo con Trifone, 46,7, cit., p. 185. Cfr. Ibid., 69,7, p. 240.

(35) ATENAGORA, La risurrezione dei morti, 3, 1, in Gli Apologeti Greci, cit., p. 423. 
 
(36) Cfr. Ibid., 2,5, p. 310. 

(37) Cfr. Ibid., 3-8, pp. 311-319.

(38) Cfr. Ibid., 12 13, pp. 323-327
 
(39) Cfr. Ibid., 23, 1-2, p. 342. 40 J. Secuy, Millénarisme, in Catholicisme, IX, Paris 1982, p. 159. 

(40) J. Danielou, La teologia del giudeo-cristianesimo, Il Mulino, Bologna 1974, pp. 427-458.
 
 (42) Giustino, Dialogo con Trifone, 80, 5 - 81, 4, cit., pp. 263-265.

(43) Ireneo DI LIONE, Contro le eresie, V, 32, 1, in Contro le eresie e gli altri scritti, a cura di E. Bellini, Aca Book, Milano 1981, pp. 471-472.

(44) Ibid., V, 33,3, pp. 474-475.

(45) TERTULLIANO, Contro Marcione, III, 24, 5, in Opere scelte, a cura di C. Moreschini, UTET, Torino 974, p. 455.

(46) Cfr. infra, pp. 393 394.

(47) Sulle principali correnti millenariste, cfr. J. Seguy, Millénarisme, art. cit., pp. 162-163.
 
(48) Cfr. Ireneo da Lione, Contro le eresie, V, 2, 2, cit., p. 414.

(49) Cfr. Ibid., II, 34, 1-4, pp. 206-208.

(50) Cfr. Ibid., II, 33, 5 - 34, 1, pp. 205-206; V, 31,2, p. 471. Cfr. A. Orge, Las parabolas evangélicas en san Ireneo, II, La Editorial Catolica, Madrid 1972.

(51) Cfr. Ireneo DI Lione, Contro le eresse, III, 16, 6, cit., pp. 267-268.

(52) Ibid., III, 19,3, pp. 279-280.

(53) Ibid., V, pref., p. 410; cfr. vol. I, pp. 310-312. 

(54) Ibid., II, 19, 1, p. 278.

(55) Ibid, V,9,3, p. 426.

(56) Ibid., V, 8, 1, p. 423.

(57) Ibid, V, 13,3, pp. 434-435.

(58) Ibid, IV, 20, 5, pp. 347-348.

(59) Ibid, IV, 20,6 p. 348.

(60) Ibid, IV, 20,5, p. 348.

(61) Ibid, IV, 20,7, p. 349.

(62) A. ORBE, Gloria Dei vivens homo, in «Gregorianum», 73 (1992), pp. 205-268.

(63) IRENEO DI LIONE, Contro le eresie, V, 9, 2, cit., p. 425. 

(64) Cfr. A. OrBE, Gloria Dei vivens homo, art. cit., pp. 264ss. 

(65) Cfr. In., Vision del Padre e incorruptela segiin san Ireneo, in «Gregorianum», 64 (1983), pp. 19941, 208ss. 

(66) Cfr. Ireneo di Lione, Contro le eresie, II, 28, 3, cit., pp. 188-189. 

(67) Ibid, IV, 28, 2, p. 367. 

(68) Cfr. Ibid., IV, 11, 2, p. 323; IV 20, 7, p. 349. Cfr. A. Orbe, Visiòn del Padre..., art. cit., pp. 236 238.

(69) IRENEO DI LIONE, Contro le eresie, V, 27, 2, cit. p. 464.

(70) Cfr. TerruiLIano, L'anima, 27, 2, a cura di A. Gerlo (CCSL 2), 1954, p. 823; Sulla resurrezione dei morti, 28, 6, in Opere scelte, cit., pp. 825-826.

(71) Cfr. Iv., Sulla resurrezione dei morti, 46,7, in Opere scelte, cit., pp. 858-859; La Penitenza, 3,4, in I Trattati, a cura di G. Mazzoni, Cantagalli, Siena 1934, p. 172. Cfr. A. FERNANDEZ, La escatologia en el siglo II, Aldecoa, Burgos 1979, p. 323.

(72) Cfr. TERTULLIANO, L'anima, 7, 1, cit., pp. 790ss.

(73) Cfr. Ip., Contro Marcione, IV, 34, 13, in Opere scelte, cit., pp. 588-589. 

(74) Cfr. Ib., L anima, 58, cit, pp. 867-869.

(75) Cfr. Ib., Sulla resurrezione dei morti, 53,4, in Opere scelte, cit., p. 878. 

(76) Cfr. Ib., L'anima, 50, 5, cit., p. 863.

(77) Ib., Sulla resurrezione dei morti, 1, 1, in Opere scelte, cit., p. 775.

(78) Cfr. Ibid., 2, 11-12, pp. 778-779; Contro Marcione, V, 9, in Opere scelte, cit., pp. 663-667.

(79) Cfr. Ib., Sulla resurrezione dei morti, 2, 2, in Opere scelte, cit., p. 776. (80) Ibid, 55 7, pp. 882-883.

(81) Cfr. Ibid, 62, pp. 893-894.

(82) Ibid.,17,7-9, p. 805.

(83) Ibid., 8, 2, pp. 789-790. 

(84) Cfr. supra, pp. 88-89. 

(85) Cfr. In., Sulla resurrezione dei morti, 51, 3, in Opere scelte, cit., p. 872

 (86) Ibid., 26,11, p. 822.

(87) CIPRIANO, La preghiera del Signore, 13, in Opere di san Cipriano, a cura di G. Toso, UTET, Torino 1980, p. 218.

(88) Ib., La morte, 26, a cura di M. Simonetti (CSEL 3, 1), 1976, p. 313.

(89) Ib., A Fortunato, 12, in Opere di san Cipriano, cit., p. 404.

(90) Ib., Lettere, 55, 20, in Opere di san Cipriano, cit., p. 580.

 (91) Cfr. CLEMENTE ALESSANDRINO, Sulla 1 Pt 1,9, a cura di E. Klostermann (GCS 17), 1906, p. 203; Il Pedagogo II, 19, 4 20, 1, in {l Protrettico - Il Pedagogo, a cura di M.G. Bianco, UTET, Torino 1971, pp. 297-298. 

(92) Cfr. B. E. DaLev, Eschatologie in der Schrift und Patristik, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1986, p. 45. 

(93) CLEMENTE ALESSANDRINO, // Pedagogo, I, 28, 3-5 e III, 2-3, cit., pp. 220 e 385 386.

(94) Cfr. Ibid., 1, 37, 1, p. 227. Cfr. L.F. Laparia, E/ Espiritu en Clemente Alejandrino, Univ. Pont. Comillas, Madrid 1980, p. 238.

(95) CLEMENTE ALESSANDRINO, Il Pedagogo, II, 104, 3, cit., pp. 364 365. (96) Cfr. K. ScHmSLE, Latiterung nach dem Tode und pneumatische Auferstebung nach Klemens von Alexandrien, Aschendorff, Minster 1974. 

(97) Cfr. CLEMENTE ALESSANDRINO, Gli Stromsati, VII, 12 e 56, 6, a cura di G. Pini, Paoline, Milano 1985, pp. 787-788 e p. 826. 

(98) ORIGENE, I Principi, IV, 4, 9-10, a cura di M. Simonetti, UTET, Torino 1968, pp. 560-565.

 (99) Cfr. H. Crouzet, Origeze, Borla, Roma 1986, pp. 316ss. 

(100) Cfr. ORIGENE, / Principi, I, pref., 5, cit., pp. 122-123. 

(101) Ibid., II, 10, 4-5, pp. 336-338.

(102) Cfr. H. Crouzet, Origene, cit., pp. 351 357.

(103) Cfr, Origene, I Principi, I, 6, 2, pp. 201-205.

(104) Ibid., III, 6, 5, pp. 472 477. Cfr. H. Crovzet, Origene, cit., pp. 347ss. 

(105) Cfr. ORIGENE, / principi, I, 6, 3, cit., pp. 205-207. 

(106) Nella sua lettera agli amici di Alessandria che ci viene tramadata da Rufino e Girolamo. Cfr. H. Crouzet, Origene, cit., p. 347. 

(107) Cfr. ORIGENE, Omelie su Gerenzia, XX, 3, a cura di L. Mortari (CTP 123), Città Nuova, Roma 1995, pp. 261-265. 

(108) Cfr. Ib., / Principi, II, 11, 7, cit., pp. 355-357; Commento a Giovanni, XX,7,47, a cura di C. Blanc SC 290), 1982, p. 181.

(109) Ib., Omelie sul Levitico, VII, 2, a cura di M.I. Danieli (CTP 51), Città Nuova, Roma 1985, pp. 151-156.

(110) Si può trovare qualche testo di questi autori in H. DE Lubac, Cattolicismo. Aspetti sociali del dogma, in Opera Omnia, VII, a cura di E. Guerriero, Jaca Book, Milano 1978, pp. 287ss.

(111) ORIGENE, / Principi, I, pref., cit., pp. 118-126.

(112) Ibid, II, 10, 1-2, pp. 330 334.

 (113) Cfr. Ib.. Commento a Matteo, XVII, 30, a cura di W.A. Baehrns (GCS 40), 1921, pp. 669-671; I Principi, II, 2 3, cit., pp. 242 262. 

(114) Cfr. H. CrouzeL, Origene, cit., pp. 324ss.

(115) Cfr. B.E. Datey, The Hope of the Early Church, University Press, Cambridge 1991, pp. 85ss.

(116) Ilario Di Poitiers, Le Trinità, XI, 31, a cura di G. Tezzo, UTET, Torino 1971, p. 619.

(117) Ibid., XI, 38-39, pp. 624 626.

(118) Ibid., XI, 49, p. 636.

(119) Ib., Commento ai Salmi, 14, 17, a cura di B. Léfstedt (CSEL 22), 1971, pp. 96 e 99. Cfr. L.F. ADARIA, La cristologia de Hilario de Poitier:, PUG, Roma 1989. pp. 265-289.

(120) Agostino, La citta di Dio, XIV, 28, a cura di D. Gentili (NBA V/2), Città Nuova, Roma 1988, p. 361.

(121) Cfr. Ib., Esposizioni sui salmi, 64, 2, a cura di V. Tarulli (NBA XXVI), Città Nuova, Roma 1970, pp. 457-459

 (122) Ib., Le città di Dio, XX, 7-9, a cura di D. Gentili (NBA V/3), Città Nuova. Roma 1991, pp. 159-163.

(123) Ib., Commento a Giovanni, 49, 10, a cura di V. Tarulli-E. Gandolto (NBA XXIV), Città Nuova, Roma 1968, pp. 979 981.

(124) Cfr. B.E. Daley, The Hope of the Early Church, cit., pp. 138 ss. (così pure per ciò che segue).

(125) Cfr. Ib., La città di Dio, XXI, 13, (NBA V/3), cit., pp. 251-253.

(126) Cfr. tra gli altri Ib., Esposizione sui salmi, 37, 3, a cura di R. Minuti (NBA XXV), Citta Nuova, toma 1967, pp. 845-847 e Ib., La Genesi difesa contro i Manichei, II, 20, 30, a cura di L. Carrozzi (NBA X/1), Città Nuova, Roma 1988, pp. 159-161.

(127) Cfr. Ib., Discorsi, 159, 1, a cura di M. Recchia {NBA XXXI/2), Città Nuova, Roma 1990, p. 603.

(128) Cfr. Ib., Discorsi, 241, 1, a cura di P. Bellini-F. Cruciani-V. Tarulli NBA XXXII/2), Città Nuova, Roma 1984, pp. 639-641.

(129) Cfr. Ib., La città di Dio, XIII, 20 (NBA V/2), cit., pp. 259-261.

(130) Cfr. Ib., La Trinità, XIV, 18, 24, a cura di G. Beschin (NBA IV), Città Nuova, Roma 1973, p. 609.

(131) Ib., La città di Dio, XIV, 3, 1 (NBA V/2), cit., pp. 293-295 e ibrd., XXII, 26 (NBA V/3), cit., pp. 399-401.

(132) Ibid., XXII, 30, 4 (NBA V/3), cit., pp. 419-421.

(133) Ibid., XX, 16, cit., pp. 145-147.

(134) Ibid., XXII, 30, 5, cit., p. 421.

(135) Ib., Esposizione sui salmi, 118, 1, a cura di T. Mariucci-V. Tarulli (NBA XXVII), Città Nuova, Roma 1976, pp. 1113 1115.

(136) Ibid., 35, 14 e 43, 5, cit., pp. 651-653 e 1053-1055.

(137) Ib. Confessioni, X, 22, 32, a cura di C. Carena (NBA 1), Città Nuova, Roma 1969?, p. 329.
 (138) Ib., Commento a Giovanni, 67, 2, cit., pp. 1153-1155; Ib., La città di Dio, XIX, 13, 2 (NBA V/3), cit., pp. 51-53,

(139) Ib., Commento alla prima lettera di Giovanni, 10, 3, cit., p. 1839.

(140) Cfr. Ib. Enchridion. Exposés Généraux de la foi, a cura di ]. Rivière (BA 9), 1947, p. 268.

(141) Ib., La città di Dio, XXI, 17 (NBA V/3), cie., pp. 259-261.

(142) Ibid., XXI, 24, 3, pp. 273-275.

(143) Cfr. Ip., Enchiridion, 112, cit., pp. 309ss.

(144) Ib., Esposizioni sui salmi, 5, 10, cit., pp. 55-57. 

(145) Sulla dottrina della predestinazione in Agostino, cfr. supra, pp. 271-273.

 (146) Cfr. Gregorio Magno, Dialoghi, IV, 26-30, ed. fr. a cura di A. De Vogiié (SC 265), 1980, pp. 34-103. 

(147) Cfr. Ibid., pp. 148-150. 

(148) Ib., Commento morale a Giobbe, XIV, 72, a cura di P. Siniscalco, Opere 1/2, Città Nuova, Roma 994, p. 421. (149) Beda il Venerabile, Commento a Luca, 6, 24, in PL 92, 629.
(150) Giuliano Di Toledo, Prognosticon saeculi futuri, II, 8, a cura di J.N. Hillgarth (CCSL 115), 1976, 48. 

(151) Cfr. Ibid. II, 10, p. 49.

(152) Ibid., II, 22, p. 59.

(153) Ibid, 1,22, p. 40.

(154) Cfr. Ibid., II, 19-22, pp. 59-59. 

(155) Ibid., II, 12, p.S1.

(156) Ibid., Il, 28 e 35, pp. 65ss e 73. 

(157) Ibid., Il, 37, pp. 74ss.

(158) Ibid., II, 13 e 22, pp. Slss e 59. 

(159) Ibid., III, 7 8, p.87.

(160) Ibid., III, 45, p. 115.

(161) Ibid, III, 54ss., pp. 121ss.

(162) Ibid., III, 60 pp. 124ss.

(163) Cfr. Ibid., Ill, 62, pp. 125-126.

(164) DzS 125.
 
(165) DzS 150.

(166) DzS 411.

(167) DzS 407.

(168) DzS 462.

(169) DzS 492.

(170) DzS 540.

(171) DzS 574. 

(172) Cfr. DzS 72 (fides Damaso); DzS 76 (Simbolo Quicumque).