mercoledì 20 marzo 2024

La detronizzazione della verità - Dietrich von Hildebrand (parte 3)

Qui ci si può giustamente chiedere: se il relativismo, il pragmatismo, lo storicismo, lo psicologismo hanno portato alla detronizzazione della verità, quale è la causa di tutti questi diversi “ismi” e, soprattutto, del fatto che non sono rimasti nella sfera teorica, ma hanno infettato e corroso l'approccio ingenuo e vissuto dell'essere? 
 
 

L'attuale sistema educativo ha la sua responsabilità nella corrosione dell'approccio ingenuo all'essere delle masse. Nella nostra epoca, e specialmente negli Stati Uniti, che ciascuno dovrebbe essere istruito e avere un'educazione intellettuale, è un'idea ampiamente diffusa. La convinzione che tutto si può imparare se correttamente insegnato, che un bene elevato sarebbe ingiustamente negato a una persona se non ricevesse la sua parte del moderno tesoro del sapere, è alla base di questo ideale. Senza discutere la verità di questi due presupposti, possiamo facilmente vedere che la nuova situazione relativa all'istruzione delle masse apre la porta alla diffusione di pseudo filosofie tra il pubblico.
Attraverso il nuovo ideale educativo, il decotto di tutti questi “ismi” distruttivi viene riversato nella mente dei giovani e da essi rispettosamente accettato. A questo, aggiungiamo ancora la perpetua “manipolazione” delle nostre menti da parte di film, giornali, riviste e radio, e possiamo capire perché la detronizzazione della verità oggi non è più di competenza di certi professori, ma ha contagiato con successo l'approccio immediato all’essere dell’uomo medio.

Tuttavia, è vero che dobbiamo scavare ancora più a fondo per raggiungere le radici ultime della detronizzazione della verità. Infatti, non pretendiamo di essere in grado di svelare l'origine di una perversione della mente come questa, perché in definitiva è misteriosa quanto l'origine stessa del male. Ma un unico elemento che sta dietro a queste negazioni teoriche o alle eliminazioni della verità, oltre che essere dietro l’intero atteggiamento che si manifesta in queste teorie, è accessibile alla nostra analisi. È l’apostasia di Dio, la ribellione dell’uomo contro il Padre di ogni verità, il rifiuto di accettare la condizione di creatura e la vocazione gloriosa di essere immagine di Dio. Nel cercare di scrollarsi di dosso la religio - cioè la fondamentale dipendenza, dovere verso Dio in cui siamo radicati, l'orientamento verso Dio -, diventiamo necessariamente vittime della falsità e corrodiamo il nostro rapporto di fondo con la verità.
L'atteggiamento del non serviam, il desiderio di seguire la tentazione dell'eritis sicut Dii, la ribellione contro Dio, è la radice ultima della detronizzazione della verità

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Il problema di mostrare come superare la detronizzazione della verità è di gran lunga più difficile di quello di rintracciarne le fonti. Nella nostra analisi ci limiteremo a chiederci come combattere contro di essa.

In primo luogo, la classica confutazione di tutti i marchi dello scetticismo e del relativismo dovrebbe essere più volte ribadita. Per quanto riguarda l'influenza del relativismo e del positivismo, dobbiamo sradicarlo con argomentazioni filosofiche. Non dobbiamo temere di apparire all'antica, antiquati, o addirittura banali nel ripetere ciò che non perde né la sua forza né la sua profondità per essere stato spesso affermato. Il fatto che la moderna negazione della verità oggettiva abbia più îl carattere di un presupposto incontestabile che quello di una tesi positiva - come nello scetticismo - non deve distogliere la nostra attenzione e portarci a una sospensione di tale questione mentre ci occupiamo di filosofia. È una sorta di snobismo che impedisce a molti pensatori di ribadire ancora e ancora una volta la rigida confutazione di ogni forma di scetticismo. Essi scansano l’apparenza di essere uniformi, primitivi e senza senso per i problemi della nostra epoca. Certamente lo smascheramento della contraddizione intrinseca e dell’incoerenza di ogni negazione della verità oggettiva non dovrebbe essere proposto come una formula puramente schematica ed esangue. Ripeterla più e più volte non significa ripetere una formula stereotipata; al contrario, ogni sua ripetizione contiene un'intuizione completa che, in tutta la sua inesauribile efficacia, smaschera îl carattere vuoto e insensato di ogni scetticismo radicale. Come ha giustamente affermato Goethe: “L’errore trova una ripetizione incessante nei fatti, per cui non ci si deve mai stancare di ripetere la verità a parole”, Dobbiamo renderci conto che l’incoerenza del relativismo radicale è tale che un filosofo, che presuppone anche tacitamente la negazione della verità oggettiva, ha oggettivamente condannato tutta la sua filosofia. Ancora di più, ogni scienziato che nega la possibilità di raggiungere la verità oggettiva pronuncia parole senza senso, mero balbettío.

Dobbiamo insistere sulla ridicola incoerenza di tutti coloro che professano una negazione della verità oggettiva e contemporaneamente arrogano la verità oggettiva alla loro teoria. Nulla può essere più fatale per una teoria che negare nel suo contenuto ciò che essa presuppone necessariamente già nell’atto della sua affermazione. Non dobbiamo smettere di smascherare l’inevitabile, flagrante contraddizione che è necessariamente voluta in ogni tentativo di negare la verità oggettiva e la possibilità della sua conoscenza. Sempre più contraddizioni si accumulano su questa contraddizione immanente tra il contenuto di un'affermazione e l'implicita pretesa formale di ogni affermazione in quanto tale. Quando offrono argomentazioni o addirittura scrivono interi libri per mostrare la tesi che la verità assoluta non esiste, questi relativisti presuppongono come incontrovertibili vari fatti: in primo luogo, le premesse da cui iniziano a discutere; in secondo luogo, la validità dei principi di logrca su cui si basano le loro conclusioni. Non appena sospendono la validità di uno dei suddetti presupposti, le loro argomentazioni o le loro tesi perdono ogni potere e decadono completamente.

Allo stesso modo, dobbiamo sottolineare ancora e ancora una volta che la dissoluzione da parte di Kant del significato autentico della conoscenza come la presa di un essere come tale oggettivamente esso è (o, per usare un termine tradizionale, come la presa in carico intenzionale della natura stessa di un essere) sostituendola con la nozione di costruzione dell’oggetto, implica una contraddizione immanente. In tal modo, Kant pretende di cogliere la natura della conoscenza così com'è, e di offrire non semplicemente una costruzione soggettiva di ciò che è la conoscenza. Il fatto che egli consideri la sua tesi come una scoperta fondamentale, come una “rivoluzione copernicana”, testimonia chiaramente questa affermazione. Incontriamo così qui un’immanente contraddizione nell’interpretazione della conoscenza, analoga a quella che fa parte di ogni relativismo rispetto alla verità oggettiva. Nel pretendere di rivelarci la reale natura della conoscenza, Kant presuppone la nozione di conoscenza che nega nel contenuto della sua tesi.

Anche in questo caso, analogamente, questa contraddizione si ritrova chiaramente nel pragmatismo. Quando il pragmatismo sostiene che la verità non significa altro che utilità e che una proposizione è vera quando è una base utile per i nostri compiti pratici, la verità nel suo significato autentico è implicitamente presupposta. Il pragmatista vuole dimostrare che la verità non è altro che utilità e sostiene che questa affermazione almeno è vera e non solo utile. Se lo negasse, il significato della sua tesi decadrebbe completamente. Allo stesso modo, egli fa riferimento alla verità nel suo senso autentico in tutte le sue premesse e conclusioni. Nel proporre argomenti a sostegno della sua tesi, il pragmatico presuppone tacitamente che le sue premesse corrispondano a fatti reali, e nelle sue conclusioni presuppone la verità dei principi logici. Anche l’affermazione che un'idea concreta è utile presuppone la verità implica l’affermazione che l’idea è veramente utile. Ogni tentativo di negare la verità oggettiva e di cambiare il suo significato o il significato della conoscenza implica necessariamente una contraddizione immanente, perché la verità e la conoscenza, sono dati elementari, ultimi, evidenti, presupposti di ogni affermazione e tesi, Chiunque neghi questi dati ultimi si comporta come un uomo che vuole saltare dietro a se stesso.

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Se vogliamo combattere la detronizzazione della verità, dobbiamo soprattutto abbandonare un atteggiamento prevalentemente difensivo in campo filosofico. Per secoli l'energia filosofica di molti filosofi scolastici è stata assorbita da una difesa distorta del tomismo. La domanda se alcune tesi filosofiche proposte da un non cattolico o da un filosofo cattolico siano vere o meno sembra essere diventata equivalente alla domanda se la si possa trovare direttamente o indirettamente nel tomismo.

Invece di cercare di capire una tesi dall'interno e di confrontarla con la realtà, spesso ci si è solamente avvicinati ad essa rimanendo imprigionati in un certo insieme di concetti tradizionali e spesso anche in un vocabolario tradizionale, senza prendersi la briga di consultare la realtà con un approccio immediato ad essa, si è solamente confrontato la tesi con un manuale tomista, e condannata non appena ha affermato qualcosa che non era stato detto in esso.

È in gioco uno sfortunato e implicito malinteso di filsofi. La filosofia è spesso identificata con un sistema logicamente coerente in cui tutto deve essere integrato con tutto il resto. Anche se l'ideale di Cartesio è biasimato come razionalistico, una nozione altrettanto razionalistica di filosofia e di processo di scoperta filosofica è inconsciamente presupposta. È una “logicizzazione” della realtà e dei suoi misteri. Chevalier si è opposto a questo tipo di razionalismo quando ha detto:

Abbiamo dovuto aspettare fino a questi ultimi anni, abbiamo dovuto aspettare proprio questa guerra (1914) perché a Pascal, il pensatore, venisse riconosciuto il suo vero grado: il primo, È perché la guerra ci ha ricordato o ci ha rivelato quale deve essere veramente la filosofia: non un vano gioco dialettico di concetti, ma la risposta alle domande che l’uomo si pone di fronte alla morte.

Che sia tomista o no, un vero filosofo si sforza di scavare sempre più a fondo nell'inesauribile pienezza dell’essere, di scoprire nuovi aspetti e verità; e così facendo sarà più fedele alla realtà che a un “sistema” che ha costruito. Nella storia della filosofia notiamo che i grandi filosofi non si sono astenuti dall’affermare ciò che la realtà rivelava loro, anche se avrebbero potuto non rientrare in alcune teorie che hanno costruito. Non permettono a se stessi di essere tagliati fuori dalla realtà attraverso concetti che hanno formato e tesi che hanno ottenuto come deduzioni da precedenti intuizioni.

A volte l’Eros filosofico - lo “stupore” e il desiderio di consultare la realtà più e più volte - sono sostituiti dalla preoccupazione di difendere ogni dettaglio del sistema aristotelico-tomistico. Ciò che è legittimo e persino obbligatorio rispetto alla verità rivelata, così come formulata nei dogmi della Chiesa, è qui inconsciamente applicato a un sistema filosofico.
Questo atteggiamento non solo frustra qualsiaa esplorazione filosofica. ma è anche un'ingiustizia nei confronti della grande conquista filosofica di San Tommaso. Invece di affermare che è impossibile rimanere fedeli alla concezione di un grande filosofo se non ci si sforza di scoprire da soli i dati da cui ha tratto il suo punto di partenza, l'intuizione che è stata il punto di partenza dei suoi concetti, si ritiene spesso che sia sufficiente dare definizioni astratte dei concetti e sembra cosa soddisfacente se il percorso che porta da un concetto all’altro è agevole e logicamente corretto.

A volte questi filosofi non hanno nulla a che fare con colui di cui pretendono di essere i discepoli. Così, anche dal punto di vista del rendere giustizia a un grande e venerabile filosofo, dobbiamo tornare all’essere, ad un'intuizione intellettuale della realtà da lui scoperta, e dobbiamo essere più ansiosi di rimanere fedeli a questa scoperta che alla sua concettualizzazione di essa, e a maggior ragione, più che alla sua terminologia.

Ma soprattutto dobbiamo essere più desiderosi di trovare la verità che di esaminare se qualcosa è in accordo con il sistema di un filosofo, per quanto grande possa essere il filosofo. Se l'apprezzamento genuino di un filosofo da parte di uno storico della filosofia richiede già che il pensiero del filosofo sia confrontato con la realtà e misurato dalla verità, dobbiamo, in un'esplorazione sistematica della realtà, cedere a fortiori all'imperturbabile ricerca della verità.
Questo vero apprezzamento implica che non ci si lasci mai precludere l'approccio immediato alla realtà diventando prigionieri di concetti fossilizzati, non potendo lasciare una traccia regolare, abituale, frustrando ogni contatto fecondo con l'essere e ogni arricchimento, completamento e correzione della realizzazione filosofica di un grande e venerato maestro. In questo senso, Sciacca scrive in onore della memoria di Blondel:

Questa rivista... continuerà a onorare la sua memoria e a partecipare al suo pensiero nell'unico modo in cai si onora veramente la memoria di un filosofo e in cui si dimostra la vitalità della sua speculazione: nell’approfondire i problemi della filosofia cristiana con Blondel, ma al di là di Blondel.

Alcuni filosofi sembrano limitare il vero lavoro filosofico ad una mera elaborazione di tutte le conseguenze immanenti del sistema tomista, un lavoro che può essere realizzato con l'acutezza intellettuale senza interpellare la realtà. Altri vedono il compito principale della filosofia nell’integrazione dei risultati scientifici e psicologici moderni all’interno del sistema, cioè nell’ampliamento del sistema con elementi che appartengono alla sfera extra-filosofica. È chiaro, tuttavia, che ogni vero lavoro filosofico consiste in una sempre rinnovata e continua esplorazione dell’essere e nel confronto di tutti i concetti della scuola con la realtà. Solo questo può darci la possibilità di apprezzare pienamente la scoperta che ha portato alla formazione di questi concetti, e di arricchire e completare i risultati precedenti, di procedere a nuove differenziazioni, e talvolta di eliminare i problemi artificiosi derivanti solo da un uso troppo vago di certi termini.

Se accettiamo con gratitudine la distinzione di Aristotele delle quattro cause e dei rapporti metafisici basati su di esse, dobbiamo quindi ab ovo escludere la possibilità che ci possano essere ancora altri principi metafisici oltre a quelli scoperti da Aristotele? Perché non dovremmo avere il diritto di esplorare l'essere con lo stesso approccio privo di pregiudizi e la stessa apertura dell'intelletto di Aristotele?

Per ciò che riguarda le dottrine sull’anima tramandateci dai nostri predecessori può bastare quanto si è detto. Riprendiamo ora di nuovo la strada come dall'inizio, cercando di determinare che cos'è l’anima e qual è il suo concetto generale (Aristotele De Anima)

Perché si dovrebbe escludere ab ovo che un’analisi dell'essere senza pregiudizi possa in modo analogo superare la conquista delle quattro cause da parte di Aristotele, poiché la sua scoperta ha superato la conoscenza dei presocratici? Facciamo comunque un'ingiustizia alla scoperta di Aristotele, neghiamo la verità della sua distinzione tra causa efficiens e causa finalis, se la nostra analisi della realtà ci costringe ad ammettere che esistono ancora altre cause o relazioni metafisiche fondamentali? Non è forse per noi la peggiore offesa a un grande filosofo presumere che egli affermi di aver scoperto tutto, di aver visto tutti i problemi e di avervi risposto in modo completo - tale pretesa non sarebbe proprio l’antitesi assoluta dell’affermazione socratica: “So solo una cosa, che non so?” Ciò che, precisamente, distingue il vero filosofo dal mero maestro di scuola è la coscienza che la pienezza e la profondità dell'essere superano in modo incomparabile la gamma di vere intuizioni che egli può aver acquisito.

La vera filosofia deve sempre distinguere chiaramente tra verità che sono il risultato di un’intuizione reale, che si riferiscono a dati forniti o accessibili attraverso una rigorosa deduzione, e mere ipotesi che non possono mai essere verificate o provate, ma possono essere giudicate solo in base alla loro plausibilità.

La distinzione tra la conoscenza empirica e la conoscenza assolutamente certa di fatti strettamente necessari e intelligibili nel Menone di Platone è, ad esempio, un classico esempio di scoperta filosofica fondamentale, di intuizione basata su qualcosa di evidentemente dato. La teoria dell'anamnesi, al contrario, è una tipica ipotesi destinata a spiegare la possibilità di una conoscenza a priori, ma profferendo proposizioni e tesi che non possono essere verificate come tali, perché si riferiscono a ciò che non è accessibile né alla nostra esperienza (intuitiva o induttiva) né alla deduzione.

La distinzione tra una proposizione che si riferisce a una sfera di realtà accessibile all’intuizione intellettuale o alla deduzione e una proposizione che si riferisce a una sfera di realtà inaccessibile all’intuizione e alla deduzione, non nega la necessità e il valore di un'ipotesi, né esclude la possibilità che un'ipotesi possa essere oggettivamente conforme alla realtà. Ma non appena non le distinguiamo più chiaramente, e affrontiamo un'ipotesi come se fosse un fatto innegabile ed evidente, noi rischiamo di allontanarci dalla realtà. Ci avviciniamo allora all'essere attraverso una rete di concetti derivanti da un'ipotesi; e non solo interpretiamo ogni dato alla luce di questa ipotesi, ma perdiamo il contatto col dato immediato. Noi quindi deduciamo come l’essere dovrebbe essere da concetti che vengono spogliati del loro contenuto originario; soprattutto si spreca la propria energia intellettuale per problemi artificiali derivanti esclusivamente dalla fossilizzazione di certi concetti. L'essere ha così tanti misteri filosoficamente ancora inesplorati; offre così tanti dati di cui manca ancora la prise de conscience filosofica, che sembra incredibile che tanta intelligenza venga sprecata per risolvere problemi immaginari che nascono solo da concetti inesistenti o dall’estensione di certi concetti in sfere dell'essere in cui non hanno alcun fundamentum in re.

Molti termini sono usati in modo così ampio che le differenze di significato (che sono proprio ciò che conta) non sono realmente colte. La volontà, per esempio, è usata per comprendere tutte le risposte affettive significatrive, cioè amore, ammirazione, stima. Ciò che oggi abbiamo in mente, però, parlando di volontà, è la risposta specifica diretta a qualcosa di non ancora reale, il cui contenuto potrebbe essere circoscritto, come “tu sarai”, un atto che è libero nel pieno senso della parola e che è il padrone di tutte le azioni. La volontà in questo senso specifico è la causa exemplaris di ogni atteggiamento che includiamo in questo termine. E così, chiamando l'amore un atto di volontà, falsifichiamo de facto la natura stessa dell'amore, la quiddità specifica dell'amore, che lo distingue da tutte le altre risposte. Dobbiamo renderci conto del pericolo derivante dall'uso di certi termini quando ti definiamo in senso totalmente analogo, ma li usiamo in senso molto più univoco non appena li applichiamo in concreto. Tale è l'uso del termine finis. Se vogliamo usarlo in un senso che includa ogni direzione significativa verso qualcosa, dobbiamo non solo distinguere chiaramente questo termine generale dal significato originario di causa finalis, ma anche non dobbiamo permettere che îl rapporto “mezzi-fine” rimanga nella nostra mente come lo schema nascosto della finalità.

Dobbiamo tornare ad un vivace proseguimento del magnifico processo di reale esplorazione filosofica che ha portato dai presocratici a Socrate, Platone, Aristotele, Sant'Agostino, San Bonaventura, San Tommaso d’Aquino, ad una completa restaurazione del “domandarsi” davanti al cosmo nella sua inesauribile profondità!

Solo una filosofia che si riempie di vero eros filosofico, che ci rivela nel suo ordinato movimento le parole di Sant'Agostino: Quid enim fortius desiderat anima quam veritatem?, può eliminare il discredito della ragione e della verità e ripristinare il pieno rispetto della verità in tutti i campi della vita. Solo una filosofia profondamente radicata in una coscienza viva della pienezza dell'essere restituirà alla filosofia il suo ruolo organico di aprire gli occhi ai misteri dell’essere, di approfondire il contatto vissuto con l'essere e di preparare il nostro spirito alla verità infinitamente superiore della rivelazione, il vero senso della philosophia ancilla theologiae. All’incoerenza dei soggettivisti moderni che si sforzano di perseguire ideali di cui negano il presupposto ontologico - come l'ateo devoto del 1848 che ogni mattina ringraziava Dio per averlo reso ateo - si deve opporre una piena consistenza, cioè una verità vissuta, rivelando nel nostro approccio a qualsiasi problema pratico, che siamo “radicati e fondati” (Ef 3,17) nelle verità naturali fondamentali, e soprattutto in Cristo, “che è la soluzione di tutti i problemi”, Quante volte incontriamo cattolici che negano Cristo e persino le verità naturali fondamentali non appena si trovano ad affrontare problemi sociali o politici nel campo pratico della vita! Permettere alla luce della verità naturale e soprannaturale di penetrare pienamente ogni problema, è la via principale per ristabilire il pieno rispetto della verità come giudice supremo in tutte le questioni e come norma dei nostri atteggiamenti.

Il compito della reintegrazione della verità implica soprattutto lo sradicamento delle radici morali che hanno portato a questo atteggiamento disastroso nei confronti della verità. In “Catholicism and Unprejudiced Knowledge” affronteremo questo aspetto. Qui può bastare sottolineare che, per ristabilire il rispetto della verità e l'accettazione del suo carattere di giudice supremo, non basterà una semplice contromossa intellettuale. Se gli abusi della ragione distorta hanno portato alla detronizzazione della verità e hanno aperto la strada alla divinizzazione di tutto ciò che è inferiore all'uomo e alla ragione umana, solo la luce sovrarazionale di Cristo può ristabilire la verità nel suo posto dato da Dio e riportare la ragione al suo ordine verso la verità; in altre parole, ristabilire anche la ragione e salvarla dall’autodistruzione.