mercoledì 4 ottobre 2023

Il Cantico delle Creature: bellezza e utilità del creato


I modelli più diretti per il Cantico di san Francesco sono due passi della Bibbia.

Il primo, e più evidente, è per l’appunto il Cantico di Daniele: qui le creature naturali sono chiamate una per una a «benedire il Signore», a partire dagli esseri celesti (sia inteso come elementi del cosmo, come il sole, la luna, le stelle; sia come esseri spirituali che si immaginava vi dimorassero, come gli angeli), per passare agli elementi climatici (il vento, le nubi, il freddo...), alle realtà geologiche (le colline, i monti, i mari, i fiumi...), ai vegetali, agli animali ed agli esseri umani. 

Uno schema molto simile si ritrova nell’altro grande modello biblico del Cantico francescano, ossia il Salmo 148, in cui analogamente gli esseri creati vengono invitati a «lodare» il Signore. «Salmi» e «cantici» fanno parte della liturgia cristiana, oltreché della preghiera ebraica: li si ritrova nella celebrazione eucaristica, incuneati all’interno della Liturgia della Parola, ma, soprattutto, costituiscono l’ossatura principale della Liturgia delle Ore. Traendo origine dall’esortazione paolina ad «ammaestrarsi... rendendo lode... con salmi, inni e cantici spirituali», questa preghiera biblica prevede la recitazione di componimenti poetici di origine biblica che esprimano il sentimento di devozione nel suo riallacciarsi ad una tradizione millenaria. La Liturgia delle Ore è storicamente legata a scelte di vita consacrata o religiosa, e quindi particolarmente vicina, direi caratterizzante, nella vita degli ordini religiosi. (...)
Poesia e bellezza divengono di per sé una forma di preghiera, in modo non dissimile da quanto sosteneva anche sant’Agostino. San Francesco perviene anche a trovare un delicatissimo equilibrio tra questa bellezza formale e la propria opzione preferenziale per i poveri e per la povertà. Comporre una poesia «bella», la cui forma estetica sia a sua volta preghiera, non deve infatti diventare un «filtro» che permetta il passaggio solo di coloro la cui formazione culturale permette l’apprezzamento (o anche solo la fruizione) di tale bellezza. Ne consegue la scelta di utilizzare il volgare, la lingua dei poveri e degli incolti, per nobilitarla e dimostrarne le capacità estetiche: anticipando quanto farà Dante nella Commedia, Francesco intuisce le possibilità estetiche e sociali della poesia in volgare e ne esalta la bellezza mentre ne apprezza l’utilità. 

Così come gli affreschi di molte chiese avevano la funzione didattica di divenire la biblia pauperum, la «Bibbia dei poveri», ossia degli illetterati e di coloro che non potevano accostarsi direttamente ai testi sacri, così tramite la bellezza della poesia (come dell’arte figurativa) e la comunicabilità del volgare (come della descrizione per immagini) Francesco perviene anche ad una forma di predicazione e catechesi attraverso la preghiera stessa (unendo quindi altri due aspetti che spesso, ancorché erroneamente, sono posti in antagonismo, ossia la contemplazione e l’attività apostolica). 

Come si diceva, per san Francesco non c’è antinomia (opposizione) tra bellezza ed utilità. Il sole, ad esempio, è lodato per la sua bellezza, e la sua «funzione», apparentemente, è soprattutto quella di essere un simbolo efficace di Dio; ancor più evidentemente, l’unica mansione della luna e delle stelle è di «essere belle». È stato fatto notare, probabilmente in modo corretto, che luna e stelle, le prime creature di genere femminile evocate nel Cantico, sono gratificate di aggettivi simili a quelli del linguaggio d’amore, e che la posizione dell’aggettivo «clarite» potrebbe essere un’allusione alla figura di santa Chiara. In tal caso, benché l’interpretazione possa essere altamente discutibile, è suggestivo immaginare il ruolo delle monache clarisse come finalizzato alla contemplazione pura ed avulsa da attività e preoccupazioni pratiche.

Per quanto concerne «sora acqua», [...] i valori sono collegati direttamente alla sostanza stessa. Questa lode non implica alcun verbo esprimente azione a «sor acqua». Non le si riconosce alcun compito specifico. Il suo valore consiste nel suo stesso essere. Ciò appare particolarmente significativo, per due motivi: innanzi tutto poiché, come si diceva, non vi è opposizione tra bellezza ed utilità, ed una cosa può essere «utile» anche solo essendo ciò che è, essendo semplicemente bella, così come una cosa può essere bella anche semplicemente assolvendo al proprio compito, alla propria funzione, essendo unicamente utile; in secondo luogo, perché rivela probabilmente anche una concezione sincera, rispettosa e verace del rapporto uomo/donna, in cui l’altro non è un oggetto da «conquistare», da sottomettere, da «possedere» (non a caso molte volte si indica con questi termini di «proprietà» l’unione sessuale), ma un’alterità con cui entrare in dialogo, con infinito rispetto e delicatezza

A differenza di quanto viene percepito normalmente dall’uomo contemporaneo, per il quale la bellezza e l’attività artistica sono spesso fini a se stesse, e quasi in opposizione ad ogni concetto di utilità, nella concezione biblica e cristiana, come accennato, non vi è contrasto fra ciò che è bello e ciò che è utile. La coscienza della finalità di ogni cosa, del fatto che ogni realtà possiede uno scopo e si inserisce armoniosamente, ancorché talora misteriosamente, in un quadro complessivo il cui disegno forse ci è ancora ignoto ma della cui esistenza non dubitiamo, permette di considerare ogni essere creato come «cosa buona». La finalità delle cose può essere infatti più o meno trasparente, così come la loro bellezza; in un’ottica di fede, tuttavia, né l’una né l’altra vengono messe in dubbio, poiché il disegno divino sull’esistente prevede una ricomposizione del reale da cui venga rivelata la bellezza di ogni cosa, in quanto concorrente alla formazione della bellezza globale del creato, e l’utilità di ogni cosa, in quanto concorrente al piano di redenzione divino

Così, nella Genesi gli esseri creati sono posti al servizio dell’uomo; e anche nel Cantico francescano il sottolineare la funzione degli elementi del creato non ne sminuisce la bellezza, bensì ne costituisce un ulteriore elemento di pregio (l’acqua «è multo utile», il fuoco serve ad illuminare la notte, la terra «produce diversi fructi» ecc.).(...)

È interessante, inoltre, rilevare come san Francesco sia particolarmente attratto dalle tematiche connesse alla luce: come in Daniele, il Cantico loda il sole (ed il «iorno»), ma, a differenza del modello biblico, la notte non è associata alla lode universale. In un’ottica che ha molti punti di contatto con la filosofia agostiniana, il buio, come il male, non è una creatura: il primo è l’assenza della luce (quindi un non-essere), il secondo un’assenza di bene. Così, san Francesco esalta la luna, le stelle ed il fuoco, che della notte sono le luci; non viene menzionata, invece, la notte in quanto tale. 

Potrebbe stupire, a questo proposito, l’apparentemente incoerente inclusione di «sorella morte», che potrebbe essere definita come non-vita. In realtà, la morte come non-vita è quella che san Francesco chiama «la morte secunda», la dannazione, l’eterna non-vita e non-amore. La morte del corpo è vista come varco verso la vita eterna, ed il (provvisorio) disfarsi dell’involucro di carne è quasi solo un «effetto collaterale», per così dire.

Da non tralasciare, inoltre, l’altra fonte biblica che possiamo identificare come immediata ispirazione di alcune strofe del Cantico, ossia il cosiddetto «Discorso della montagna» (o «delle beatitudini») tenuto da Gesù e riportato dai Vangeli: a loro volta, dal punto di vista formale (e, parzialmente, anche da quello del contenuto), le beatitudini (e le maledizioni di Lc) si rifanno ad un genere letterario già ampiamente presente nella letteratura biblica (in particolar modo nei libri profetici). 

Nel caso del Cantico delle Creature, troviamo dapprima una (doppia) beatitudine che si riferisce all’accettazione serena della sofferenza ed al perdono delle offese: si potrebbe vedere in questa duplicità un riflesso del doppio comandamento che costituisce la vera base della religiosità giudaico-cristiana. 

Così come l’amore verso Dio e quello verso il prossimo compendiano la legge (cfr. Mt 22,34-40), allo stesso modo accettare la sofferenza significa amare Dio anche quando il suo piano salvifico comprende qualcosa di penoso o doloroso, e perdonare le offese significa amare il prossimo anche quando diventa sgradevole, malvagio od insolente. Significativo come sant’Agostino sintetizzi, come sempre in modo efficacissimo, la profonda correlazione che lega l’atteggiamento di lode nei confronti della bellezza (della vita, del creato...) espresso nelle prime strofe del Cantico di san Francesco con quello di accettazione degli aspetti che ci sembrano negativi: "Sarai nel giusto, quando in mezzo ai beni che [Dio] ti procura, chi ti colma di piacere è lui, e in mezzo ai mali che subisci, Dio non ti è gravoso". 

La seconda beatitudine del Cantico dei Cantici si riferisce invece alla condizione dell’uomo al sopraggiungere della morte: vengono detti beati coloro che si troveranno «nella volontà di Dio», mentre si compiangono e deprecano coloro che rifiuteranno la salvezza divina. Anche in questo caso c’è un ben preciso paradigma evangelico, modellato sulla scena del giudizio universale proposto in Mt 25,31ss. In modo analogo, san Francesco perviene a vedere una bellezza ed un’utilità trascendenti anche in ciò che sembra meno bello e più assurdo, privo di senso, ossia la morte.

(Chiara Bertoglio "Per Sorella Musica - San Francesco, il Cantico delle Creature e la musica del Novecento")