Si pensa oggi che l'azione del cristiano nella vita pubblica possa essere solo indiretta, ossia che debba passare attraverso gli strumenti e le vie della laicità oppure che debba adoperare, senza trascenderlo, il criterio della persona, il cosiddetto personalismo.
Il cristiano, si pensa, per quanto riguarda la costruzione della società nelle sue strutture politiche e nelle sue leggi, dovrebbe far fare ad altri, e tutt'al più, animare la coscienza di tutti.
Constatiamo oggi le difficoltà e i pericoli di una simile impostazione: il cristianesimo si riduce ad agenzia di animazione civica, l'agire morale è considerato autosufficiente, possibile senza la luce e il sostegno religioso; la fede si riduce a buone pratiche sociali che alla fine è sempre il potere di turno a stabilire.
Io credo invece, ed è la proposta che vi faccio, che bisogna recuperare la convinzione che il cristianesimo e la Chiesa intervengono direttamente nella vita sociale, non per sostituirsi ad altre competenze distinte e legittime, ma per orientare l’intera vita pubblica verso la sua vera finalità ultima, che è quella trascendente. Bisogna recuperare l’idea, insegnataci anche da Benedetto XVI, che Quaerere Deum, cercare Dio, ha dirette conseguenze sociali in quanto non è possibile dissodare le terre incolte della vita sociale senza aver prima dissodato le nostre anime.
Concediamo troppo al naturalismo e pensiamo che il mondo non abbia bisogno del Cristo della fede ma eventualmente solo del Cristo della ragione, per poi scendere progressivamente anche da quel livello ed arrivare al Cristo dell’etica mondialista e quindi al Cristo della coscienza individuale.
Con questo esito, il discorso del cristianesimo nella società è finito.
O il cristianesimo e la Chiesa hanno qualcosa di proprio e di unico, insisto su questi due aggettivi, oppure finiscono ad essere una delle tante opinioni che vociferano nel baccano quotidiano impropriamente elevato a pubblico dibattito.
Ma se invece il cristianesimo e la Chiesa hanno qualcosa da dire nella pubblica piazza di proprio e di unico, ne deriva che i cattolici non possono collaborare con tutti, perché non possono darsi da fare indifferentemente per tutto. Scriveva Benedetto XVI che “Cristo accoglie tutti ma non accoglie tutto”.
Sono consapevole di evidenziare un aspetto delicato e controverso nella Chiesa di oggi…
A me sembra però che sia ancora valido quanto stabilito da Benedetto XVI nel suo Motu proprio sul servizio della carità dell' 11 novembre 2012, dato che l'impegno pubblico della Chiesa anche attraverso i laici è espressione della carità, la quale non può essere però in contrasto con la liturgia e con la dottrina.
Il documento riguardava le attività di associazioni legate giuridicamente alla Chiesa ma anche di realtà autonome giuridicamente ma che si avvalgono del titolo di cattoliche, ma anche dei singoli fedeli impegnati nella vita pubblica. In essa si dice che non è lecito collaborare con altre realtà sociali le cui finalità sono in contrasto con i principi cristiani, né è possibile accettare finanziamenti; e anche si diceva che il vescovo deve vegliare su tutto questo.
Non era ritenuto possibile collaborare nella lotta all'Aids con società che proponevano la contraccezione; così oggi non dobbiamo ritenere opportuno collaborare con associazioni che pur avendo alcuni obiettivi positivi nella loro agenda, però lottano per promuovere l'aborto e il suicidio assistito.
Non basta concordare nominalmente sulla questione ambientale per collaborare con tutti quanti se ne occupano e vi si impegnano. Si rimane negativamente colpiti, per fare un esempio, da quante realtà cattoliche facciano oggi propria, senza alcun discernimento, l’agenda ONU per il 2030...
Ricordo che il cardinal Martini aveva richiamato nel 2007 i cattolici italiani a non collaborare e a non finanziare più Amnesty International dopo la sua dichiarazione di voler promuovere l'aborto.
Se prendiamo per esempio il campo della morale, vediamo che oggi si tende a dire che l’intelletto non può pretendere di vedere con la propria luce la “forma” di una azione, così come non può vedere la “forma” delle cose. La trascuratezza degli insegnamenti della Fides et ratio e della Veritatis splendor ha conseguenze piuttosto negative. Cosa sia la forma specifica dell’adulterio, per esempio, oggi tende a non essere più chiaro, né la questione della conoscibilità certa degli assoluti morali (negativi) è ritenuta importante. Si ritiene che queste categorie conoscitive siano astratte e impediscano di entrare nel vissuto delle persone. Nel caso dell'adulterio si dice che esso non esiste, ma che esistono solo le singole persone, che dopo il divorzio si sono riposate, o comunque unite more uxorio; si dice che ogni singola situazione andrebbe considerata in se stessa, e non alla luce di una normativa ritenuta "teorica" e astratta.
Si dice che bisognerebbe entrare nella vita delle persone e includere senza giudicare e senza valutare, solamente per accompagnarle.
Trattare caso per caso conduce al Nominalismo, una filosofia compatibile con altre confessioni cristiane, ma non con quella cattolica.
Il nominalismo finisce per dirci che la realtà non ha una sua strutturazione veritativa interna, non esprime nessuna sapienza creatrice e non contiene nessun ordine finalistico.
Nominalismo e agnosticismo ci dicono di agire senza prima pensare. Oggi sono molto presenti tra i cattolici e gli uomini di Chiesa, talvolta senza la necessaria consapevolezza, e li rende disponibili alle avventure anche le più strampalate. Evidenzia anche una certa “liquidità” dell’essere cattolici nella società, in un attivismo magari frenetico ma improduttivo. L’”agnosticismo cattolico” è alla base dell’oblio dei “principi non negoziabili”, di cui ci parlava Benedetto XVI, che parlavano di vita, famiglia, libertà di educazione, ponevano dei paletti alla politica; questo oblio assolutizza la politica permettendole di fare tutto e, nello stesso temo, la svilisce, perché la rende cieca; e a una politica del genere la dottrina sociale della Chiesa non ha più nulla da dire.
La mia impressione da vescovo e da osservatore, meglio: da osservatore come vescovo, è che il cerchio si stia stringendo e che gli spazi di libertà per il cattolico siano sempre più esigui fino a scomparire. Man mano che la secolarizzazione procede a grandi passi, aiutata nei suoi effetti distruttivi dalla nuova mondializzazione del nichilismo illuminato, la pattuglia dei cattolici impegnati nel sociale espressamente e senza mezzi termini alla luce della Dottrina sociale della Chiesa intesa come annuncio di Cristo nelle realtà temporali e non come semplice umanesimo vagamente solidarista e fraterno, si riduce di numero. Siamo di fronte ad una convergenza operativa molto coerente di molti centri di potere. Nessun ambito ne rimane esente.
Non c'è una precisa cabina di regia, ma tutti questi soggetti parlano la stessa lingua, tutti mirano a una società mondialista fondata sulla tecnologia e su una morale minimamente e ambiguamente umanistica post veritativa, post naturale e, naturalmente, post cristiana.
L'unità di queste forze è data dalla loro cultura comune dell'illuminismo post moderno.
Io sono convinto che negare il conflitto è il modo migliore per perderlo.
A questa riappropriazione di ciò che la Chiesa ha da dire di proprio e di unico, è legato anche il destino dell'unità tra di noi: se recupereremo solo alcuni suoi spezzoni, se non andremo fino in fondo, se avremo paura di non essere più graditi e interloquiti, allora rimarremo divisi, e sappiamo che "omne regnum in se ipse divisum desolabitur".